1/ Tutti sappiamo che il suicidio è una cosa triste. Altrimenti non staremmo a discutere su cosa si poteva fare per evitare anche quello di don Matteo, di Andrea Lonardo 2/ Quel che la morte di don Matteo fa ronzare in testa come uno sciame irrequieto, di Paolo Asolan 3/ La scelta di Laura Santi. Il suicidio della giornalista e la differenza tra diritto individuale e dovere di uno stato

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 27 /07 /2025 - 23:23 pm | Permalink | Homepage
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1/ Tutti sappiamo che il suicidio è una cosa triste. Altrimenti non staremmo a discutere su cosa si poteva fare per evitare anche quello di don Matteo, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Vita e Del morire.

Il Centro culturale Gli scritti (27/7/2025)

In teoria diversi intellettuali e moralisti ritengono che ognuno abbia la libertà di non amare più la propria vita e di farla finita.

Ma poi, dinanzi alla vicenda concreta di una persona, tutti si domandano cosa si poteva fare per evitare quel suicidio.

Dinanzi a chi si toglie la vita, tutti si chiedono di chi è la colpa e perché non si è agito a sufficienza per evitarlo.

È questo che stupisce ogni volta. Che tutti sappiamo che il suicidio è triste. Altrimenti non discuteremmo proprio di questo, di cosa si poteva fare per venire in aiuto.

Altrimenti diremmo: lo ha voluto lui, è una libera scelta, ha fatto bene!

Al contrario, noi sappiamo bene, anche se talvolta solo inconsciamente – e sono episodi come questo a risvegliare in noi il senso del vivere – che la vita è buona. È ben per questo che vorremmo che si facesse qualsiasi cosa per aiutare chi pensa di togliersi la vita per riscoprirne invece la dignità e non rifiutare quella realtà benedetta che è il vivere.

Questo non toglie che sia poi legittimo discutere anche del contesto in cui quel gesto è avvenuto – e, infatti, noi pubblichiamo di seguito la riflessione di un teologo pastoralista, don Paolo Asolan.

Ma che noi sappiamo che la vita è un bene, questo è sicuro.

2/ Quel che la morte di don Matteo fa ronzare in testa come uno sciame irrequieto, di Paolo Asolan

Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Paolo Asolan, pubblicato su Il Foglio del 9/7/2025. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Vita e Del morire.

Il Centro culturale Gli scritti (27/7/2025)

Hai voglia a dire che questo è il tempo del silenzio e del rispetto. Lo è, senza dubbio: ma dal virale diffondersi della notizia della morte di don Matteo, questo è anche un tempo nel quale abbiamo bisogno di ritrovare un filo al quale aggrapparci.

Come scriveva il teologo e rettore dei seminari milanesi Luigi Serenthà, tra il possibile rischio di cadere in parole ovvie e convenzionali e l’impossibile impresa di addentrarsi in spiegazioni che vengano a capo del “perché?”, è possibile ricorrere allo strumento umile della risonanza, che non scoraggia il rischio del confronto personale con un tema, ma è al tempo stesso consapevole del limite che quell’impresa ha. Perché siamo umani e non bestie, e abbiamo comunque bisogno di qualche luce.

Una prima risonanza potrebbe essere una frase tanto ovvia quanto presupposta e sbrigativa: “anche i preti sono uomini come tutti gli altri”. Vero. Condividiamo le stesse fragilità di ogni altro essere umano, l’uguale necessità della formazione continua e prima ancora della relazione che ci riconosca nel profondo, per quello che siamo e non solo per quello che facciamo.

Necessitiamo di una conoscenza realistica, che non rimuova né spiritualizzi nulla, neppure il nero marcio che c’è in noi, quel negativo spaventoso che viene dalla ferita che ha cambiato l’essere umano dall’origine, rendendogli difficile la fede, la speranza, la carità, la gioia del Vangelo. Facendogli preferire la morte alla vita.

Ce ne dovremmo ricordare non solo adesso per don Matteo, ma per ogni creatura messa di fronte ad un dolore che arriva a vivere senza speranza: c’è una soglia dolorosissima, un caso serio, rispetto al quale chiunque, anche un prete, può cadere al di là. Abbiamo bisogno di un Salvatore che ci raggiunga lì dove forse nessun altro ha mai avuto accesso: e abbiamo bisogno di credergli nonostante tutto, anche contro ogni speranza, lasciando che i nostri bisogni più profondi siano tirati fuori ed evangelizzati, visti e conosciuti con lo sguardo di Cristo. Fidandoci più di lui che dei giudizi della gente o dei nostri confratelli, o da quelli che si aspettano da noi l’esecuzione e l’interpretazione di un ruolo, nel quale certe difficoltà non sono né previste né ammesse.

Una seconda risonanza allarga il cerchio: “ma chi è che si prendeva cura di lui? Non aveva nessuno vicino a sostenerlo?”. La questione è spinosa, ci siamo trovati dentro tutti: si può aiutare qualcuno che magari non vuole essere aiutato? Qualcuno che non ha coscienza della sua fragilità, ovvero ne ha fin troppa e vive nella vergogna e nella negazione di sé? Nella paura di esistere?

Queste paure sono amplificate dall’irrilevanza nel quale spessissimo il ministero oggi si trova in mezzo; dalle riforme pastorali che stentano, e che producono un carico di lavoro sempre più pesante (insensato?) per tutti; dall’esperienza di non essere sostenuti e voluti bene da chi per primo ce lo dovrebbe garantire: il nostro vescovo e le nostre comunità.

Non sappiamo nulla di don Matteo, e – ripetiamo – non stiamo parlando di lui: ci muoviamo entro quelle risonanze che la sua morte come uno sciame irrequieto fa ronzare per la testa.

Ma quanti di noi alla domanda di cui sopra potrebbero rispondere con un “no” rotondo e rassegnato? E quanti invece con un “sì” felice e rassicurante?

Quanti di noi possono contare su di una paternità esercitata, passata al vaglio delle prove, fatta di una comprensione grande quanto tutto l’umanamente possibile? Ci sono pastori che dovrebbero fare questo per dovere di ministero o di ufficio, che magari ti ascoltano e che ci provano, ma che non escono mai dal perimetro di una valutazione morale, o della decisione sul da farsi. Non sono cioè preoccupati di creare veramente una relazione da persona a persona, di incontrare nel cuore/coscienza profonda il confratello che hanno davanti: il problema da risolvere viene comunque prima, specialmente se è di natura amministrativa/economica. Arrivano anche a darti delle indicazioni rispetto al problema fastidioso da risolvere per il quale ti sei rivolto a loro; ma se non hai problemi da risolvere e nemmeno ti fai vivo, rischi di restare da solo, o di non essere mai visto da nessuno dei tuoi superiori nel cuore di te.

Il sistema rimane normativo e accentratore, rispetto ad un contesto fattosi invece assai complesso, difficile da fronteggiare per chiunque, sfuggente a qualunque razionalizzazione, dove non basta eseguire gli ordini o ripetere quello che si è sempre fatto.

La terza risonanza potrebbe suonare: “cosa c’è da cambiare in tutto questo? Cosa c’è di personale (perciò irriducibile) e cosa invece di strutturale (cioè riformabile e rivedibile)? Cosa si è fatto obsoleto al punto da consumare slanci generosi in frustrazioni pericolosissime? In vite inautentiche, che recitano una parte finché non succede qualcosa di più performante/interessante rispetto a ciò che si è vissuto e imparato in seminario?”

Qui ci fermiamo. Le risonanze non sarebbero uno strumento adeguato a rispondere a domande del genere. Nell’Istituto Pastorale dell’Università Lateranense questioni come queste sono pane quotidiano della ricerca accademica. Possiamo soltanto sommessamente suggerire quanto rimanga importante lo studio, la preparazione, i tempi di digestione e di assimilazione del vissuto pastorale (dalle confessioni all’accompagnamento delle situazioni difficili, che espongono a stress emotivi da non sottovalutare), la messa a punto di quegli strumenti senza i quali qualunque idea di riforma della vita e della evangelizzazione della Chiesa finirebbe per diventare una parola retorica.

C’è però un’ultima risonanza da appuntare: una parola di Cristo che risuona divina dentro a vicende del genere, e alla quale noi stessi avremo sicuramente fatto riferimento celebrando funerali di fratelli e sorelle venuti a mancare al modo in cui è venuto a mancare don Matteo: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi darò ristoro”. Aiutiamoci a dare carne e sangue a queste parole: le nostre. Non potremmo forse risolvere tutto e sempre efficacemente o con competenza, ma essere di ristoro questo sì. Lo possiamo essere in ogni momento.

3/ La scelta di Laura Santi. Il suicidio della giornalista e la differenza tra diritto individuale e dovere di uno stato

Riprendiamo sul nostro sito un Editoriale de Il Foglio pubblicato il 22/7/2025. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Vita e Del morire.

Il Centro culturale Gli scritti (27/7/2025)

La storia di Laura Santi, giornalista perugina malata di sclerosi multipla, che ha scelto di togliersi la vita con un farmaco letale, tocca corde profonde e impone silenzio, rispetto, compassione. Di fronte al dolore vero e al desiderio umano di non soffrire, il primo impulso non può che essere quello della pietà. Il modo lucido e pubblico con cui Laura ha comunicato la sua scelta, coerente con la sua professione e con il suo attivismo, merita rispetto.

Ma proprio perché il suo gesto è diventato consapevolmente un atto pubblico, una dichiarazione culturale, una notizia da dare – come lei stessa ha scritto – è giusto e doveroso provare a pensare anche alla dimensione pubblica della sua scelta. Si può essere sinceramente mossi dalla sua storia e al tempo stesso temere che il suo gesto venga assunto come un modello.

Si può piangere la sua fine e allo stesso tempo domandarsi se una società che riconosce e incentiva l’autodeterminazione fino al punto di legalizzare e normalizzare il suicidio non stia smettendo di offrire un orizzonte di speranza ai più fragili.

Laura aveva davanti a sé una malattia dura, impietosa, progressiva. Eppure ci sono tanti malati, tanti corpi piegati, tante vite sofferenti che ogni giorno trovano un senso, una forma, una dignità nuova dentro quella vita.

E ricordarlo non significa giudicare chi ha preso una strada che non merita esercizi di moralismo ma proteggere chi – domani – potrebbe non avere più motivi per provarci.

Perché la vera questione culturale oggi non è quella di giudicare una scelta drammatica ma è sperare che la nostra società continui a investire tutto quello che può nel prendersi cura anche delle fragilità.

È difficile in queste circostanze commentare con freddezza e razionalità l’appello che ha lanciato col suo ultimo scritto, in cui conferma la sua adesione al movimento pro eutanasia e critica le posizioni di chi le contrasta. È difficile però non ricordare che tra l’esercizio di un diritto individuale e la trasformazione di quel diritto in un dovere dello stato esiste una differenza profonda, che è bene non travalicare.

Addio Laura, e un abbraccio alla famiglia.