Hadjadj parla dell’IA: l’intelligenza artificiale, la cultura e l’economia 1/ Riflessioni paradossali sull’èra del consumismo. Cioè dello spiritualismo. La tecnologia dilapida la tecnica. L’intelligenza artificiale infiacchisce il pensiero. L’innovazione rifiuta la novità. Intervista a Fabrice Hadjadj di Rodolfo Casadei 2/ La tecnica ha varcato il mondo umano? Conversazione di Carlo Sini e Fabrice Hadjadj, coordinata da Andrea Caspani

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 09 /07 /2025 - 21:13 pm | Permalink | Homepage
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

1/ Riflessioni paradossali sull’èra del consumismo. Cioè dello spiritualismo. La tecnologia dilapida la tecnica. L’intelligenza artificiale infiacchisce il pensiero. L’innovazione rifiuta la novità. Intervista a Fabrice Hadjadj di Rodolfo Casadei

Riprendiamo sul nostro sito dalla rivista “Tempi” un’intervista a Fabrice Hadjadj di Rodolfo Casadei, pubblicata il 15/3/2017. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Etica dei media, Filosofia e Educazione.

Il Centro culturale Gli scritti (9/7/2025)

Fabrice Hadjadj e Carlo Sini sono i due filosofi invitati dal Centro culturale di Milano lunedì 27 febbraio 2017 a rispondere alla domanda “La tecnica ha varcato il mondo umano?”. Essi sono stati unanimi nel deprecare il fraintendimento di fondo implicito nell’interrogativo che ha fatto da titolo alla serata: l’uomo è tale proprio grazie alla tecnica. Ma si sono divisi su tutto il resto. Per Carlo Sini l’uomo coincide coi suoi strumenti, con le sue macchine, che vanno dal linguaggio alle tecnologie più avveniristiche. Per Fabrice Hadjadj non si può rinunciare alla distinzione cruciale fra tecnica e tecnologia, e ad approfondire il senso della dicotomia che ci ha condotto in una situazione inedita per l’umanità. Con lui, di cui è appena apparso in edizione italiana il libro Risurrezione. Istruzioni per l’uso (Ares, 167 pagine, 15 euro), abbiamo approfondito le conseguenze della divaricazione fra tecnica e tecnologia.

Lei non solo afferma che la tecnologia è il contrario della tecnica, ma che la tecnologia impone una visione spiritualista della realtà, soprattutto attraverso il consumismo, che alla tecnologizzazione della vita è intimamente legato.

Fabrice Hadjadj: Sì, è sbagliato confondere tecnologia e tecnica, perché a ogni progresso tecnologico è corrisposto un arretramento tecnico.

La tecnica è il saper fare del contadino, dell’artigiano, dell’artista, e la natura della tecnologia non è questa. È piuttosto scienza applicata che produce apparecchiature il cui scopo è fornirci una comodità senza passare attraverso il saper fare, semplicemente premendo dei pulsanti.

Perciò la tecnologia coincide con una privazione della tecnica: non ha bisogno del nostro saper fare e ci dà tutto con un “clic”. Fingendo di liberarci, ci rende dipendenti da un dispositivo nascosto. Dimentichiamo che dietro allo schermo del computer ci sono componenti elettroniche, c’è una materialità nascosta fatta di gente che lavora in miniera, di guerre per il coltan in Congo, di centrali elettriche e nucleari, di cinesi che lavorano come schiavi nelle fabbriche. Una delle conseguenze della perdita del saper fare è che senza saperlo diventiamo complici di un sistema di sfruttamento.

Un’altra è che perdiamo competenze tecniche: gli uomini preistorici avevano molte più competenze tecniche dell’uomo contemporaneo.

Il consumismo si basa sullo stesso concetto della tecnologia: l’istantaneità. Voglio mangiare del pollo, e quello che voglio lo trovo istantaneamente dentro al supermercato, come istantaneamente le informazioni appaiono sul computer.

Questa istantaneità fa perdere ogni rapporto fisico concreto col mondo, con la resistenza della realtà. Il consumismo non è un materialismo. Il consumista non è attaccato alle cose, anzi: non intrattiene un rapporto patrimoniale con esse, non le eredita e non le trasmette ai suoi discendenti.

Dietro al consumismo c’è una forma paradossale di spiritualismo: consumiamo dei beni che gettiamo via, e così facendo dimostriamo la nostra superiorità rispetto ai beni materiali.

Contro il consumismo rivendico il ritorno al saper fare, e contro il suo spiritualismo rivendico la materialità e la tecnicità del cristianesimo.

In esso c’è una coscienza molto forte del lavoro umano, dell’incontro con la realtà, con l’ordine della natura. Le immagini della Bibbia sono tutte legate all’agricoltura e all’allevamento, Dio padre è un vignaiuolo, e Suo figlio è il buon pastore. E il Verbo stesso si è fatto carpentiere, anzi qualcosa di più, perché la parola greca “tekton” che lo designa nel vangelo secondo Matteo indica proprio il tecnico nel senso del saper fare, del lavoro manuale.

E la grande saggezza della vita monastica consiste nell’aver compreso il profondo legame che esiste fra la genuina spiritualità e il lavoro manuale.

Questo dovrebbe avere anche conseguenze politiche di vasta portata, se si vuole essere seri.

Fabrice Hadjadj: Certo, io sono un partigiano del distributismo di Belloc e Chesterton: il problema non è l’uguale ripartizione delle ricchezze, ma dei mezzi di produzione. Bisogna che la famiglia torni ad essere luogo di produzione, oltre che di rapporti e di trasmissione delle eredità.

Infatti lei sostiene che la tecnologia comporta la perdita non solo della tecnica, ma dell’economia. Mentre tutti pensano il contrario: la tecnologia moderna come trionfo della tecnica e dell’economia.

Fabrice Hadjadj: Sì, per quanto possa apparire paradossale io penso che il mondo attuale è il mondo della perdita della tecnica e dell’economia. Se fosse il mondo della tecnica, quelli che sanno suonare gli strumenti musicali dovrebbero essere tanti quanti quelli che ascoltano un’orchestra sinfonica o una band con un impianto hi-fi.

Ma è anche perdita dell’economia, perché l’economia è “nomos” dell’“oikos”, cioè per stare all’etimologia della parola greca è quella disciplina, quella norma, che rende possibile la vita della famiglia, del focolare domestico.

In origine, insomma, l’economia non era economia politica. Agli antichi l’economia politica sarebbe risultata assurda come un cerchio quadrato: l’economia si gioca al livello della famiglia, mentre la politica si gioca al livello della polis. Per gli antichi era chiaro che la famiglia non è solo luogo di relazioni fra i suoi membri, ma luogo di produzione. Le famiglie si raggruppavano anche per facilitare gli scambi di prodotti, ma non si può parlare di un’economia mercantile: era reciprocità fra famiglie.

Oggi economia è sinonimo di scambio commerciale e monetario, ma la produzione familiare non passa attraverso il denaro. Ciò che viene chiamato economia è la distruzione dell’economia, è la sua mercificazione e monetarizzazione.

Oggi quando si parla di lavoro si pensa subito al lavoro salariato. Al centro del discorso c’è il salario, cioè il denaro, che serve a comprare le cose che non so produrre da solo. Più nulla è prodotto da me, sono totalmente dipendente dal denaro.

La prima di tutte le tecnologie, quella che ci fa perdere il saper fare, è il denaro. La nostra società ha ridotto ogni uso e ogni saper fare all’uso del denaro. Lì risiede il principio della mercificazione. Ma tutto questo non è economia, è sovversione, è distruzione dell’economia.

Si dice che uno degli exploit della tecnologia è la nascita dell’intelligenza artificiale, ma lei non è d’accordo.

Fabrice Hadjadj: Si parla di intelligenza artificiale in relazione alla gestione di grandi quantità di dati, che superano le capacità del cervello umano. In questo ambito il computer ci fornisce delle risposte che assomigliano a un esercizio dell’intelligenza, ma non lo fa seguendo la strada del pensiero o della riflessione.

Un’apparecchiatura elettronica potrà anche simulare l’intelligenza umana meglio di un uomo, ma resterà sempre simulazione, perché dietro non c’è l’esercizio dell’intelligenza propriamente detta. Ciò che è proprio dell’intelligenza, è il lasciarsi sorprendere dalla realtà. Lo specifico dell’intelligenza è aprirsi alla realtà vedendo che in essa c’è qualcosa che la sorpassa.

Per questo l’esercizio dell’intelligenza spesso sfocia nella meraviglia, e dunque nella lode, o nello sgomento, e dunque nella supplica.

Davanti al dato di realtà, per il computer ci sono solo dati. Il dato di realtà si riassume in dati che si tratta di mettere in relazione, di gestire per mezzo di un algoritmo.

Mentre ciò che è proprio dell’intelligenza è vedere in questi dati non semplicemente dei dati, ma un “donum”, cioè una donazione che in qualche modo supera le nostre capacità di gestione. Sì, io posso gestire le cose, posso manipolarle, ma perché prima di tutto c’è una generosità del reale entro la quale le cose si danno a me.

Che si tratti di biotecnologie, di procreazione medicalmente assistita o di exploit della comunicazione elettronica, non si può dire che i nostri contemporanei non siano stati avvertiti degli effetti deleteri della tecnologizzazione della vita umana. Eppure non si nota nessuna resipiscenza, anzi: la marcia verso la trasformazione dell’uomo in un prodotto prosegue senza soste. Perché questa ostinazione?

Fabrice Hadjadj: Non è del tutto vero che non ci sia reazione. Molte persone si indirizzano alla ricerca di modi di vita alternativi. C’è il fenomeno dei neo-contadini, gente che ha fatto studi altamente specializzati di ingegneria ed economia, e ora si dedica all’agricoltura e all’artigianato.

Conosco giovani che hanno studiato filosofia e poi hanno creato un ecovillaggio recuperando un paesino abbandonato dove stanno riunendo famiglie per un’esperienza di autonomia economica e di solidarietà educativa attraverso la scuola parentale.

Ma c’è una parte di verità nella sua osservazione. Se ci gettiamo così facilmente nelle braccia della tecnologizzazione e della mercificazione generalizzate, è perché siamo immersi in una profonda disperazione.

Fino al XX secolo sono esistite utopie politiche e sociali che promettevano all’uomo la salvezza attraverso l’azione politica. Queste utopie sono crollate sotto il peso dei totalitarismi che hanno generato e della loro inefficacia.

Oggi è il tempo dell’utopia tecnologica, ma non è una vera utopia: ci si crede solo a metà. Quella che domina, è la considerazione circa la mortalità della specie umana, la finitudine dei singoli: è bello vivere in famiglia e coltivare la terra, ma a che serve se tutto è votato alla morte?

Perché fare dei figli, se sono destinati anche loro a marcire in una tomba? Allora si preferisce qualcosa dell’ordine dello stordimento.

Anche al tempo delle utopie politiche e sociali non c’era vera speranza, ma c’erano speranze mondane che erano la versione secolarizzata della speranza cristiana.

Crollate queste, regna una disperazione profonda. L’utopia tecnologica non crea vere speranze, ma rappresenta piuttosto la speranza di entrare in un divertimento assoluto, che non ci faccia più vedere la nostra disperazione profonda.

Una critica della tecnologizzazione della vita oggi deve misurarsi con l’emozionalizzazione del dibattito pubblico, dove ormai si parla solo per slogan. Chi reclama il rispetto dei limiti o sottolinea le esigenze della verità obiettiva, viene accusato di opporsi alla novità, al cambiamento, all’innovazione. Esiste un antidoto per tutto questo?

Fabrice Hadjadj: Tecnologizzazione ed emozionalizzazione sono intimamente legate. La tecnologia favorisce un modo impulsivo di rapportarsi alle cose. Non c’è più la pazienza dell’apprendimento: si premono dei pulsanti e si ottengono delle cose.

Dietro c’è una supertecnologia altamente razionale, ma l’utilizzatore di questa tecnologia agisce in modo pulsionale. Pulsionale in due sensi: nel senso che non c’è controllo, non c’è ordine nelle emozioni, dilaga il culto dell’emozione, ma pulsionale anche nel senso che si premono dei pulsanti.

La tecnologia coltiva un modo pulsionale di rapportarsi al mondo. Questo lo esprime molto bene James Graham Ballard in romanzi come Crash e Il condominio. Lui ha mostrato che sotto la superficie del mondo ipertecnologico cova la ferocia.

Basta che il vostro computer smetta di funzionare, e subito vi innervosite più del dovuto. È la tecnologizzazione stessa che crea un dispositivo pulsionale e questo dispositivo pulsionale va nel senso dell’emozione, per cui si parla per slogan o per dimostrazioni compassionevoli, l’incapacità di ricorrere al pensiero e di esprimere sentimenti ordinati è assoluta.

Poi c’è la questione della novità e dell’innovazione, che non sono affatto la stessa cosa, anzi: l’innovazione coincide col rifiuto della novità. L’innovazione è la novità per quanto riguarda gli oggetti, a prescindere dalla novità dei soggetti.

La novità per quanto riguarda i soggetti è la nascita, o la rinascita. Quando nasce un nuovo essere umano, o quando una persona sperimenta un profondo cambiamento interiore, una conversione, allora ci troviamo davanti a una novità che riguarda il soggetto.

Che cos’è l’innovazione? È cominciare con una penna a inchiostro, poi passare alla penna a sfera, alla macchina da scrivere, al pc. Facendo questo ho sviluppato il mio saper fare, ho imparato a scrivere come Virgilio, Dante, Manzoni, Eugenio Corti? No. Gli oggetti sono progrediti, ma il soggetto no.

Il secondo problema con l’innovazione è che essa rappresenta il regno dell’obsolescenza: la cultura dell’innovazione è la cultura dello scarto di cui parla il Papa. L’oggetto innovativo ci spinge a disfarci dell’oggetto vecchio: non c’è più tradizione, recupero, eredità.

A ogni passaggio l’innovativo caccia l’antico e lo riduce a scarto, a cosa obsoleta. La logica dell’innovazione è la logica dell’obsolescenza.

Perché si va in questa direzione? A causa del risentimento nei confronti della nascita, della meraviglia di essere nati.

Oggi si pensa che la nascita non è un bene: non abbiamo più speranza, perciò dispiace essere nati. A causa di questo odio della nascita ci si getta nel vortice dell’innovazione degli oggetti, ci si stordisce nel divertimento generalizzato.

2/ La tecnica ha varcato il mondo umano? Conversazione di Carlo Sini e Fabrice Hadjadj, coordinata da Andrea Caspani

Riprendiamo sul nostro sito la trascrizione della conversazione “La tecnica ha varcato il mondo umano?”, fra Carlo Sini e Fabrice Hadjadj, coordinata da Andrea Caspani, realizzata in collaborazione con Euresis e organizzata dal Centro culturale di Milano, tenutasi il 27 febbraio 2017 (https://www.centroculturaledimilano.it/wp-content/uploads/2017/02/la-tecnica-Hadjadj-Sini-Copia.pdf ).
Il testo è stato da noi rivisto, senza alcuna consultazione dei relatori e del Centro culturale di Milano stesso, per renderlo più scorrevole. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Etica dei media, Filosofia e Educazione.

Il Centro culturale Gli scritti (9/7/2025)

ANDREA CASPANI: Il titolo che abbiamo scelto per questo primo incontro è volutamente un titolo provocatorio. Nel senso che sembra presentare la tecnologia e l’umano come due realtà contrapposte, da cui magari guardarsi, di cui avere timore. Bene, noi abbiamo qui con noi due grandi studiosi, due filosofi estremamente prolifici e capaci di riflettere su questa problematica che ci aiuteranno a smontare i luoghi comuni si questo tema. Da una parte abbiamo il professor Sini, che per il pubblico milanese è assolutamente conosciuto, e di cui mi limito a ricordare non soltanto i tanti anni di insegnamento alla Università qui accanto a noi, ma anche il fatto che in questo momento si stanno pubblicando progressivamente un po’ tutte le sue opere presso le edizioni Jaca Book. E dall’altra parte abbiamo il professor Hadjadj, che proprio stasera, proprio oggi pubblica un nuovo libro, Risurrezione. Istruzioni per l’uso, edizioni Ares, che è anche in vendita qui, presso la sede del Centro Culturale. E tutte e due è da tempo che sviluppano una riflessione attenta sull’importanza del pensare l’attualità, del pensare la nostra società, tecnologicamente strutturata. Ma, appunto, quello che vorrei dire è che noi siamo un po’ influenzati da una serie di luoghi comuni, noi pensiamo cioè che l’umanesimo sia una cosa e la tecnologia sia un’altra, che la natura sia una cosa e la realtà artificiale, tecnica, tecnologica sia un’altra; bene, che, per esempio, ci sia stata una svolta qualitativa, magari dell’epoca della rivoluzione scientifica in poi, per cui dalla tecnica si è passati alla tecnologia… Tutte queste cose non è che siano proprio vere. Ed è per questo che abbiamo invitato due grandi personalità come il professor Sini e il professor Hadjadj. Allora il nostro incontro stasera si svolgerà secondo questa metodologia: ad una breve introduzione della posizione del dottor Sini, che aprirà il nostro incontro, seguirà una breve introduzione del professor Hadjadj, che sarà coadiuvato dal professor Moschella, ordinario di Fisica Teorica all’università dell’Insubria, che lo aiuterà sul piano della traduzione, anche se devo dire che avendolo conosciuto poco fa, il professor Hadjadj, secondo me parla bene l’italiano, ma giustamente in questo momento deve esprimersi nella sua lingua originale. E a questo poi seguiranno alcune brevi domande da parte mia per approfondire i temi che vengono affrontati. Bene, direi che ho esaurito abbondantemente i tempi dell’introduzione, perché il cuore del discorso è affidato al professor Sini e al professor Hadjadj. Passo la parola al professor Sini.

CARLO SINI: Grazie. Non c’è una tecnica al di là dell’uomo o una domanda di una tecnica che possa essere al di là dell’uomo. Anzitutto questa è una fantasia umana, troppo umana - come direbbe Nietzsche. Siamo noi che facciamo queste strane fantasie.

Ma non esiste una differenza fra l’uomo e la tecnica. Se non si parte da qui, si continua a dire: «l’uomo, l’uomo, l’uomo…», come se fosse noto che cos’è “uomo”. O meglio, come se fosse definibile che cos’è “uomo”.

Chi lo definisce? Con che cosa lo definiamo? Non è sempre l’uomo che pretende di definire sé stesso? Quindi c’è qualcosa che non va, no? C’è un modo di ragionare che è influenzato da luoghi comuni - come diceva bene il presidente di questa conversazione -, e soprattutto che non riflette su quello che dice, che non riflette bene su quello che fa.

Capita anche ai più grandi, anzi ho qui in tasca un esempio clamoroso, perché viene da un grandissimo filosofo, viene da un saggio famoso che è dedicato appunto alla tecnica. Già avete capito forse che parlo di Heidegger. In un saggio straordinario, con delle conclusioni incoraggianti direi, comincia però in questa maniera infelicissima. Ve lo leggo, sono tre righe: «Restiamo sempre prigionieri della tecnica e incatenati a essa. Sia che la accettiamo con entusiasmo, sia che la neghiamo con veemenza».

E poche righe più avanti: «Siamo nella necessità di condurre l’uomo – eccolo qua, il luogo comune. Ma che cos’è l’uomo? Come chiedeva Kant – nel giusto rapporto con la tecnica».

È un capolavoro di incongruenze, veramente impressionante. Sarebbe ingiusto inchiodare Heidegger, questo grandissimo filosofo, però qui gli è proprio venuta male, ed è evidente che c’è dietro uno spiritualismo nascosto, un umanismo nascosto, un rancore verso la modernità. Ma adesso lasciamo stare, il problema non è Heidegger, ma ragionare.

Quindi questa frase dice che siamo «prigionieri della tecnica», cioè noi che non siamo tecnici, ahimè, siamo prigionieri della tecnica, incatenati. Cosa sarà mai questa tecnica a prescindere dall’uomo?

E aggiunge – badate - che non importa che la accettiamo o che la respingiamo. Questo è molto caratteristico del suo pensiero ed è molto importante, cioè non è il giudizio sulla tecnica che gli interessa, gli interessa il destino della tecnica, per usare i suoi stessi termini. Il problema per lui sarebbe la soluzione - se si può parlare di soluzione, perché sa benissimo che non si tratta di una vera e propria soluzione, ma di una apertura, eccetera - e la soluzione sarebbe «condurre l’uomo nel giusto rapporto con la tecnica».

Quindi l’uomo - di nuovo questo oggetto misterioso - dovrebbe essere condotto ad un giusto rapporto con la tecnica, che è altra cosa. E si può avere un giusto rapporto o un non giusto rapporto con la tecnica. Che sono tutte cose – badate - a suo modo vere.

Se però ragioniamo sulla impostazione di queste frasi ci accorgiamo che è sicuramente deprecabile, anzitutto perché chi parla è un uomo, e poi perché una definizione dell’uomo che faccia a meno di una qualche tecnica è inimmaginabile. Forse che noi disponiamo di un’arte non tecnica? Ma allora come mettere la questione?

Qui naturalmente quello che deve fare il filosofo - tra le tante cose che dovrebbe fare se ce la fa - non è di prendere in esame in prima battuta (poi in seconda battuta magari sì), l’impressionante evoluzione della tecnologia negli ultimi decenni, nell’ultimo secolo. Perché questi sono tutti problemi reali, perché certamente si tratta di stabilire un rapporto di pensiero adeguato, cioè di portare il pensiero all’altezza di quello che ci succede attraverso le tecnologie sempre più incombenti, invasive, potenti, straordinarie, bellissime, pericolose - questo lo sappiamo.

Su tutto questo si può certamente ragionare, ma capite però che se non si va all’origine e non ci si dà una impostazione sana di che cosa diciamo quando diciamo “uomo” e quando diciamo “tecnica”, rischiamo di fare del giornalismo. Se non si va alla base e all’origine, rischiamo di fare del giornalismo. Rischiamo semplicemente di chiacchierare sui nostri problemi - che sono tutti reali, tutti comprensibili -, rischiamo di fare gli sdegnati perché la tecnica ci invade, oppure di fare gli avveniristi, e di dire scemenze come si leggono continuamente di macchine che penseranno, di macchine che sono appunto, di nuovo, esempi clamorosi di inconseguenza, di inconsistenza mentale.

Ma allora che cosa intendo dire quando dico che non si tratta di stabilire il rapporto fra l’uomo e la tecnica, non si tratta di chiedersi se la tecnica è andata al di là dell’uomo. Si tratta più semplicemente - capite che io ho solo dieci minuti! - di porre la vera domanda: esiste un essere umano nella storia come noi possiamo ricostruirla oggi – dopo centinaia di migliaia di anni, almeno duecentomila sicuri –, possiamo parlare di una creatura vivente su questo pianeta alla quale diamo il nome di “uomo” o di homo sapiens, come volete, che non fosse dotato di una tecnica?

Vi è chiaro che questo non è assolutamente possibile? Se non c’è nessuna tecnica, non c’è nessun umano. Anche perché io come potrei altrimenti essere qui a dirlo? Da dove mai sarei venuto, da Marte?

Allora proviamo a prendere questa altra strada, che qui devo limitarmi a suggerire con quattro battute più per provocare una riflessione che non esibirla in maniera adeguata. Proviamo a pensare che ciò che diciamo “umano” e ciò che diciamo “tecnica” sono esattamente il medesimo, che sono nati insieme, e che da allora ripetono il loro problema, dell’umano, dell’arte, della tecnica, dei valori, come si dice.

E proviamo a pensare che quello che noi chiamiamo “tecnica originaria”, quella che caratterizza l’umano nella sua differenza dall’animale - beninteso - è sempre la tecnica umana che parla così dell’animale, perché appunto l’animale è l’altro.

Ecco, proviamo a pensare che questa tecnica originaria, che fa l’umano è semplicemente il lavoro. Ma non il lavoro degli economisti - il lavoro che è già divenuto una scienza molto raffinata, molto ristretta, cioè con i suoi confini disciplinari.

Sto dicendo invece una attività che produce dei resti che hanno valore comunitario. Facevo prima un esempio venendo qui a partire dalla domanda di un amico, e gli dicevo: «Prova a pensare intanto alla tecnica che si è caratterizzata per due milioni di anni – signori, per due milioni di anni gli ominidi hanno imparato via via a dotarsi di materiali litici, e quindi a trasformare le zampette che progressivamente diventavano mani, a trasformare lo sguardo, a trasformare le circonvoluzioni cerebrali e poi evidentemente ad avere una strumentazione».

Sì ma il punto vero per il quale possiamo parlare di lavoro - andando così indietro nel tempo anche se le testimonianze sono molto vaghe - il termine vero è quando noi a differenza dello scimpanzé che, lo sapete, al mattino per fare colazione prende un rametto, si avvicina al termitaio, lo mette dentro, e le termiti che sono curiose, o meglio, sono in difesa del termitaio, vengono fuori, lui se le mangia, sino a che diventano consapevoli di qualcheduno che si profitta di loro, e va bene tutto è rinviato al giorno dopo, ma non c’è nessuno scimpanzé che si mette in tasca il rametto, non c’è il rametto, non ha lo strumento, non esistono strumenti nel mondo animale.

Il bastone dello scimpanzé famoso che tira giù la banana poi lo perde. È semplicemente un prolungamento della zampa. L’uomo non lo perde. Lo raccoglie, lo cumula, diventa un resto comunitario che rimbalza sulla gente il senso della sua azione.

Ma basterebbe un bastone, basterebbe un rametto, basterebbe un pezzo di coccio? No. L’uomo è lì nel momento in cui accade il lavoro di tutti i lavori che hanno reso l’uomo il frutto di questo straordinario passaggio di soglia. Ed è quello a cui non pensiamo mai. E non ci pensiamo mai perché è così comodo da usare.

Il bastone, mica è il mio braccio. Certo poi il mio braccio impara tante cose del bastone, che gli tornano indietro, che lo rendono il bastonatore se si può dire così. No, c’è uno strumento, che è lo strumento regio, già da Aristotele, già da Bruno indicato così, uno strumento regio che è talmente regio che noi lo usiamo e pretendiamo di risolverci i problemi usandolo senza guardarlo.

Infatti discutiamo: «Questa è la tecnica, la tecnica buona! La tecnica attiva! L’uomo però così si perderà! Bla bla…»… e nessuno guarda che lo strumento regio, quello iniziale, che ha determinato la comunità umana e che la ha inscritta per sempre nella tecnica è semplicemente il linguaggio.

Ma non il linguaggio dei linguisti - questa cosa specialissima e bellissima costruita come scienza raffinatissima. No, una espressione originaria che neanche ci possiamo immaginare, ma che è tuttora vivente, tuttora vivente: nessuna scienza linguistica può esaurire quello che sta succedendo a me che parlo, che sta succedendo a voi che ascoltate.

Possiamo infinitamente tradurlo in infinte macchine che ce lo analizzano, che ce lo dividono, che ce lo calcolano, che ne fanno oggetto di una conoscenza strumentale-analitica, ma la soglia originaria è quella che si determina nel momento della fantasia.

Chissà che onda ci è voluta per arrivare a questo momento, nel momento in cui io articolo la voce, la risposta degli altri diventa una risposta comune che torna indietro, che rende parlanti e autocoscienti tutti coloro che articolano la voce.

E allora è nell’abito di risposta la prima macchina: è questo abito di risposta, il primo tesoro di strumenti è il vocabolario, questo deposito originario del lavoro linguistico, che è lavoro del corpo, dell’atto espressivo… una cosa molto complessa.

È lì la prima macchina, non ce ne libereremo mai più, e non si vede perché dovremmo liberarcene. È come tutte le macchine potentissima e genera l’uomo. L’uomo è parlato dal linguaggio – questo lo diceva Heidegger – non parla lui il linguaggio, ciò che lo rende è dire: «Ma sono io che parlo!». Bisognerebbe studiare i testi Veda, che vanno a fondo su questa questione. Tu, chi? Dov’è questo io, dove lo trovi? La realtà è che questo io di cui io mi approprio dicendo: «Ma sono io che parlo» è la infinita circostanza, l’infinita occasione, l’infinita traduzione che nel mio corpo si manifesta, l’infinita traduzione che si manifesta nella mia lingua, è questo che parla, e io ne sono incarnato via via, ne sono il veicolo, il tramite che si appropria del linguaggio, che adesso può riflettere, può pensare dentro di sé, ma sempre all’interno di questa macchina.

Non bisogna avere paura delle parole: il linguaggio è una macchina, un automa che cammina da solo. Da quando io sono nato tanti anni fa a oggi l’italiano è cambiato parecchio - lo sapeva De Saussure - è cambiato parecchio ma nessuno ha detto: «Adesso cambio l’italiano» (anche perché non si può fare questa cosa).

Il linguaggio è un resto comunitario. Per funzionare come resto comunitario deve essere un veicolo che si intrama con tutti gli altri veicoli delle pratiche di vita di tutti noi, di tutte le altre macchine. Allora è di lì che dobbiamo partire.

Il problema quindi va reimpostato: per poter poi ragionare su cosa pensiamo delle macchine di oggi, su cosa pensiamo dell’intelligenza artificiale, su cosa pensiamo di quelli che dicono che fanno l’intelligenza artificiale, avendo noi imparato probabilmente a distinguere molto tra il fatto che fanno cose meravigliose e dicono un sacco di scemenze. Purtroppo, perché non c’è questa educazione, questa riflessione filosofica: la filosofia è andata avanti tantissimo, ma non lo si sa.

Le macchine si vedono, si usano, certamente, e poi sono più semplici, si impara prima; con la filosofia non si impara mai, si va per ipotesi, cambia la visione delle cose

Nello stesso tempo devo dire – attenzione - anche il mio linguaggio è il prodotto delle macchine. Anzitutto certo dalla macchina linguaggio e dalla sua infinita, sterminata storia. L’umanità dei primordi aveva macchine molto rudimentali, ma ha costruito nei millenni, molto prima della civiltà moderna, una straordinaria articolazione del linguaggio. Se voi studiate i testi dei Veda, ma non solo quelli, vi accorgete che l’uomo si è concentrato sul linguaggio, era la macchina che l’aveva fatto nascere e era quella che poteva usare più direttamente, che immediatamente si prestava alle continue modificazione della vita, alle continue modificazione dell’espressione comunitaria, sociale, economica, artistica, religiosa…

La religione è stata il veicolo straordinario della modificazione del linguaggio umano, della concrezione delle parole, all’inizio sono gli Dei che parlano. Quando dicono così è vero, siamo noi moderni che non lo capiamo più, che abbiamo nella nostra testa un cartesianesimo datato da quattro soldi. Avevano ragione, sono gli Dei che parlano, e quindi all’inizio c’è stata questa esplosione millenaria dei linguaggi dell’umanità e oggi si dice che vengono meno. No, si trasformano.

Ma insomma, se non partiamo da questa chiara visione che l’essere umano è il prodotto del suo lavoro, che il suo lavoro è una macchina che fa uso di strumenti, che lo strumento è ciò che in maniera esosomatica esplode davanti a tutti per tornare indietro e rendere consapevole del suo gesto colui che l’ha fatto esplodere.

Questo non si può assolutamente immaginare, ricostruire, senza tenere conto della grande efficacia della macchina linguaggio, dell’automa linguaggio, del fatto che tutti siamo nel discorso, come a me piace dire, e che non c’è nessuna scienza esatta se prima non ci sono discorsi, se intanto non ci sono discorsi - al Cern di Ginevra bisogna sedersi e dire: «L’esperimento è andato male, come mai?».

Se non partiamo da lì rischiamo poi di non essere all’altezza dei problemi certo importanti e inquietanti che la tecnologia di oggi pone a questa umanità planetaria e al suo destino, però questo passo indietro, questa luce e questo cancellare le domande mal poste sull’uomo e la tecnica, [lo dobbiamo fare]. Noi siamo sempre in relazione con la tecnica, buona e cattiva. Da questa visione dobbiamo guardarci perché probabilmente la soluzione non sarà in un giudizio [morale di buono o cattivo]. Se portiamo all’estrema conclusione questo discorso non ha nessun senso che qualcuno dica che la tecnica è cattiva o buona, che la tecnica è umana [o meno]. Non è al giudizio, ma a problemi di formazione, come problemi pedagogici, non come problemi di scienza logica, ma di arte della formazione di umani, per la quale vi prego di non invitare pedagogisti

A. CASPANI: Come ha detto il prof. Sini noi siamo sempre in relazione con la tecnica, e su questo cosa ci dice, prof. Hadjadj?

FABRICE HADJADJ: Dirò qualcosa di molto vicino a quello che ha detto Carlo Sini, e allo stesso tempo sento che molte cose ci separano, come tutto l’uso che ha fatto del termine “macchina” come un termine generico, perché infatti bisogna distinguere lo strumento, la macchina, e l’apparecchio.

Ci sono cose che saranno molto simili a quello che ha detto Sini, ma che nello stesso tempo cercano di pensare a ciò che c’è di veramente nuovo e senza precedenti nella nostra epoca, perché se diciamo che tutto è sempre stato macchina non possiamo più distinguere nulla. È vero che la nostra epoca è spesso descritta come epoca del tecnicismo e dell’economismo, e facilmente si denunciano i danni e le distruzioni operati dall’economia e dalla tecnica.

Le parole che vengono subito [in mente] sono le parole transumanismo, per la tecnica, e alta finanza per l’economia, ma in verità ci sbagliamo: il trans-umanismo e l’alta finanza rinviano a altre cose che la tecnica e l’economia. Mi spingo ad affermare che la società che si chiama occidentale non è la società della tecnica e dell’economia, ma la società della perdita della tecnica e della perdita dell’economia.

La cosa che si potrebbe sottolineare a proposito del trans-umanismo è che il trans-umanismo è un mostro che deriva dalla nostra dimenticanza della tecnica e dell’economia, è come un ritorno di ciò che abbiamo buttato via, come si dice in psicanalisi.

Una delle grandi tesi del trans-umanismo è che il divenire umano è un divenire tecnologico e che dunque l’avvenire dell’uomo è il cyborg: la forza del trans-umanismo è di partire da una cosa vera, come ci ha fatto capire Carlo Sini: perlomeno il trans-umanismo considera l’uomo a partire dai suoi modo di produzione, e quindi riconosce che non è possibile pensare l’umano al di fuori del suo modo di produzione.

Dunque il trans-umanismo è forte perché si avvicina a una verità: la verità che il divenire umano è sempre un divenire tecnico, ma il trans-umanismo si avvicina a questa verità facendone una parodia, e per questo è anche ciò che più si allontana da questa verità, perché la tecnologia di cui parla il trans-umanismo non è la tecnica, non è la tecnica alla quale è legato profondamente il divenire umano.

La tesi che la tecnologia si distingue dalla tecnica, e che il regno della merce è precisamente il contrario del regno dell’economia è qualcosa che era stato visto da Heidegger e certamente anche da Marx - infatti penso che lei abbiamo mal interpretato Heidegger.

La mia tesi è che il progetto tecnologico sia una regressione tecnica, e che la tecnologia non è il progresso della tecnica, ma in realtà una rottura con la tecnica, e inoltre – dicendolo anche dell’economica, perché è difficile separare queste due cose – il progresso del capitalismo, o del socialismo, che è la versione statuale del capitalismo, è la regressione dell’economia.

La prima cosa che voglio fare è una critica della critica della tecnica, e in questo mi allineo a Carlo Sini. Il primo punto è che la maggior parte delle volte critichiamo la tecnologia usando gli standard della tecnologia, per esempio parliamo dei rischi o dei pericoli della tecnologia, ma pensare in termini di rischio è già pensare in termini di controllo e quindi si reclamerà ancor più tecnologia per cercare di contrastare i rischi della tecnologia, è ancora la mentalità che presiede alla tecnologia che funge da denuncia della tecnologia stessa.

Un altro esempio: alcuni dicono che c’è un pericolo con i computer e la realtà virtuale, e subito dopo dicono che è urgente riconnettersi al reale, ma vedete che pensano la modalità di rapporto con il reale in termini di connessione, e dunque a partire da una modalità che è quella dell’istantaneità tecnologica. Come si vede, si critica la tecnologia senza abbandonare i suoi criteri.

Il secondo punto è che noi sogniamo di fronte alla tecnologia un ritorno alla natura, ma questo ritorno alla natura è un prodotto del tecnologismo.

È perché viviamo in un mondo estremamente artificiale che crediamo che la natura sia il regno dell’armonia; è perché il nostro rapporto con la natura è mediato principalmente da Walt Disney, dai documentari sugli animali della BBC. E si potrà notare che il luogo dove la natura ci si dà in maniera armoniosa, senza pretendere un lavoro, senza pretendere il nostro sudore, è lo sfondo dello schermo di un computer.

Dunque il ritorno alla natura è un prodotto del tecnologismo. Per esempio, il naturismo (il mettersi nudi) influenza soprattutto il direttore commerciale di una industria tedesca, ma non è l’uomo primitivo che praticava il naturismo, al contrario si vestiva con vesti colorate, si dipingeva il corpo, si metteva delle piume intorno alla testa.

Questo ritorno alla natura [predicato oggi] è un fantasma, una fantasia della iper-artificialità del nostro rapporto con la natura.

In terzo luogo si deve ancora sottolineare che la critica della tecnica si fa ancora all’interno della tecnologia in modo più sottile e in un modo che contamina specialmente i cristiani. [Emerge quando si cerca di affermare] una ragione contemplativa contro la ragione strumentale, supponendo che ci sia da una parte la contemplazione e dall’altra parte gli strumenti come se si potesse contemplare al di fuori di ogni rapporto con gli strumenti e la tecnica.

Si cade allora in un angelismo, in uno spiritualismo che dimentica la “mano” e ci fa perdere la “mano”: e quando si perde la “mano”, ci si sottomette al potere del dispositivo. Questo dispositivo transumanista è economico e finanziario; per pensare una ragione contemplativa separata dalla ragione strumentale bisogna essere un ereditiero o un’ereditiera.

Questa separazione si può fare anche in nome della vita religiosa e monastica, ma ci si sbaglia completamente sulla vita monastica: la vita monastica benedettina si fonda sul motto ora et labora, e quando il Verbo si è fatto carne è diventato un falegname. Cristo è chiamato nel Vangelo di Marco «τέκτων» (Mc, 6), che si traduce come «il falegname», «il carpentiere», ma che vuol dire «il tecnico»: il Verbo è un «tecnico», il Logos è un logos strumentale.

C’è un pericolo nel tentare di resistere al potere tecnologico dimenticando la ragione strumentale, perché in questo caso si afferma una ragione puramente contemplativa e si consegna il mondo tecno-logico a qualcosa che in realtà è a-logico – bisognerebbe parlare di mondo «tecno-a-logico», che non riesce più a tenere insieme il teknon e il logos.

Dopo questo momento sulla “critica della critica”, concedetemelo, il mio secondo e ultimo punto è sul rapporto tra il mondo umano e la tecnica. Come ha detto molto bene Carlo Sini, non c’è mondo umano al di fuori della tecnica: non abbiamo una percezione diretta del mondo che non sia già dal principio mediata e condizionata da un ambiente tecnico.

Tra quelli che per primi hanno detto questo in filosofia (in parte Hegel) c’è la grande intuizione di Marx, che afferma che i modi di produzione condizionano i modi di rappresentare. Ma è soprattutto la grande affermazione di Heidegger, che in Essere e tempo (1927) parla del «mondo primordiale» come il «mondo dello strumento» e che è un mondo nello stesso tempo tecnico e sociale.

Come ha detto ancora Carlo Sini, lo strumento non è semplicemente il bastone che io uso, ma il bastone che conservo, il bastone che eredito da mio padre, il bastone che presto al mio vicino. È un bastone che è già preso in una trama sociale. Ecco, il «mondo primordiale» - dice Heidegger - è questo mondo. Non c’è semplicemente il fatto di vedere le cose, ma ci sono dei modi di vedere, delle «maniere» – parola che ha dentro «mano», per cui vedo secondo ciò che fa la mia mano.

Questo significa precisamente che l’ambiente tecnico condiziona la mia visione, che la ragione contemplativa è sempre legata a una certa ragione strumentale. Fino a poco tempo fa, fino al XX secolo, la ragione strumentale era profondamente e primariamente legata al mondo agricolo: il rapporto col mondo, sia che fosse pagano o cristiano, sia che si trattasse di Virgilio o della Bibbia, era quello di una contemplazione che si apriva a partire dalla «cultura-coltura». E se siamo qui in un Centro Culturale, quello che cerchiamo di fare somiglia al gesto del contadino: il contadino non impone una forma alla materia, ma accompagna lo sviluppo di una forma data.

Il problema oggi è che gli oggetti culturali - o il culturale - sono molto lontani dalla coltivazione e che siamo piuttosto in un rapporto di consumo. Se volete entrare nella spiritualità stessa della Bibbia, non potete entrarci se non attraverso gesti tecnici che costituiscono l’immaginario biblico: i gesti dell’agricoltore e i gesti dell’allevatore.

Gesù chiama suo Padre «Pater agricola» e lui stesso si designa come «il Buon Pastore». È molto importante considerare come il mondo spirituale è costituito da un immaginario tecnico. Abbiamo consegnato la tecnica al disordine, al potere capitalista, precisamente perché non abbiamo visto la relazione del mondo umano alla tecnica e perché ci siamo messi a opporre l’intellettuale al manuale.

È perché abbiamo pensato l’amore al di fuori dell’economia, sotto un aspetto romantico, che abbiamo consegnato l’economia alla anarchia. Quando pensate che l’amore sia “io e te” su un’isola deserta, allora farete sì che l’amore sia complice della desertificazione del mondo. Se voi pensate che l’amore sia fondare una famiglia, nutrire una famiglia, allora capite che l’amore implica l’economia.

[È fondamentale] il senso di queste parole: la tecnica è il saper fare manuale e oggi il mondo della tecnologia ci ha privato del nostro saper fare, non sappiamo più fare con le nostre mani.

C’è una frase di Michel Houellebecq che amo parecchio: uno dei suoi personaggi, un professore di filosofia e letteratura, dice: «Le mie competenze tecniche sono molto inferiori a quelle di un uomo di Neanderthal».

È la sparizione del saper fare, la sparizione di ciò che facevamo noi stessi con le nostre mani. È per questo che abbiamo “perso la mano” e abbiamo perduto la mano al punto che andiamo a mendicare ai dispositivi tecnologici una protesi. È perché il tecno-capitalismo ci ha privato dei nostri poteri, ci ha privato della nostra tecnica - anche semplicemente scrivere una poesia con una penna - è perché siamo “uomini diminuiti” che sogniamo di essere “uomini aumentati”, cioè uomini completamente inseriti nel dispositivo tecno-capitalista, completamente e interamente sottomessi alle innovazioni, completamente sottomessi al denaro che permette di comprare queste innovazioni.

È perché siamo nella logica della società dei consumi, mercantile, che abbiamo perso la «economia», che designa la produzione familiare, la produzione in casa. Non facciamo più niente in casa, che è il luogo dei consumi: non abbiamo niente da trasmettere a casa, mettiamo i bambini davanti alla televisione oppure andiamo fuori a lavorare per guadagnare uno stipendio che paghi babysitter e pedagogisti.

Dunque il nostro mondo è il mondo della perdita della tecnica e della economia, e si tratta di ritrovare la tecnica che ci permette una vera elevazione e una vera contemplazione. Il nostro mondo è sempre marcato da un ambiente tecnico, ma siamo passati dal paradigma della «cultura» e dello «strumento» a un paradigma dell’ingegneria e dell’apparecchio.

Questo cambiamento di paradigma è ciò che trasforma completamente la nostra maniera di vedere.

Per concludere, ci si potrebbe domandare cosa ha fatto passare da un punto di vista all’altro. Si dice spesso che sia una «volontà di potenza»: ora il nostro mondo è veramente il mondo della «impotenza». Penso che bisogna riabilitare la «potenza» (in questo sono molto nietzschiano); la potenza è buona, Dio è onnipotente, più si diventa santi più si diventa potenti.

La nostra dipendenza dal mondo tecno-capitalista è la nostra inserzione in un sistema che ci rende specialmente impotenti, che fa di noi dei consumatori passivi. Interagiamo con Facebook e altri social network, ma sottomettendoci completamente allo schema imposto da questi network.

Pensare che il problema sia un problema di potenza o di libertà è falso. È molto difficile pensare che cosa faccia fino in fondo il consumismo, perché probabilmente è una sorta di spiritualismo come distacco completo dal mondo materiale.

Il consumatore non produce più niente con le sue mani, il consumatore non vuole veramente possedere nulla, è “come” un francescano - “come”! Ciò vuol dire che prende, consuma e getta: è una specie di distacco dal mondo materiale.  Forse è questo tipo di capitalismo che è alla radice della distruzione del mondo attuale, uno spiritualismo che ha dimenticato la spiritualità dell’Incarnazione, che ha dimenticato che il Verbo si è fatto falegname. Grazie.

A. CASPANI: Bene. Mi sembra che i nostri filosofi innanzitutto condividano un punto, che è bene emerso: la critica ai pedagogisti. Accanto a questo, mi sembra che abbiano individuato anche che la radice del “peccato” della modernità è proprio questo spiritualismo declinato in varie modalità (anche intellettualismo), ma che in qualche modo separa a priori lo spirito dalla materia. Riprendo lo spunto ultimo dell’intervento di Hadjadj, a proposito del fatto che i modi di produzione condizionano i nostri modi di rappresentazione: noi oggi, che entriamo in una realtà che vuole andare oltre alla modernità e oltre ai limiti della modernità e vive in un contesto tecnologicamente avanzatissimo, ci dobbiamo confrontare con una realtà in cui lo sviluppo tecnologico rende il progresso assolutamente velocissimo, noi stiamo arrivando non solo a macchine sempre più perfezionate nell’arco di pochissimi anni, ma anche alla possibilità di avere macchine che permettono di sostituire progressivamente non solo parti dell’uomo ma per certi versi sembrano sostituire totalmente l’uomo. È notizia recente che un computer dell’IBM è stato capace non solo di vincere una partita a scacchi ma addirittura di vincere una partita a poker: questo da alcuni è stato esemplificato come se fosse stato rotto un tabù. Le macchine sono capaci in qualche modo di pareggiare e superare l’umano. Su questo vorrei chiedere il parere dei nostri filosofi. In che modo questo non è vero, sulla base del loro discorso, e come si può sviluppare una rappresentazione che tenga conto del fatto che l’uomo strutturalmente è sempre un soggetto tecnico? L’arte, la religione, in che modo possono essere un modo di rispondere che non sia semplicemente succube di una contrapposizione allo sviluppo tecnologico?

C. SINI: Forse troviamo un punto di contatto se andiamo allo strumento. È giusta l’osservazione che c’è strumento e strumento. Quando parliamo di strumento, nel mio modo di vedere non parliamo di uno strumento di un meccanismo, parliamo della natura strumentale del corpo vivente umano.

I tedeschi hanno la fortuna di poter usare due termini che in italiano non ci sono: Leib e Körper. Il punto è vedere come il corpo vivente animale - pensate a una massa di bufali che attraversa il fiume di corsa per non farsi azzannare dai caimani - usi il peso e la forza del corpo per farsi largo. Questo [vale] anche per un essere umano.

Quindi il corpo vivente è per sua natura una inerzia attiva, se si può dire questo paradosso. Una inerzia attiva che entra in una relazione di causalità con il mondo e questo vale anche per l’uomo, come la mano.

Bruno diceva: “Che differenza c’è tra la scimmia e l’uomo? Che la scimmia non ha la mano”. Ma allora quando diventa mano? Evidentemente diventa mano quando dentro di sé costruisce la condizione per il suo trasferimento, la condizione per la sua esosomaticità possibile in modo che non sia strumentale o occasionale nel senso banale il fatto di usare il bastone per aprirsi la strada nella foresta, ma diventi la continuazione vivente, pur non essendo vivente.

È lì il punto, il punto critico e delicato del rapporto tra il vivente umano e la tecnologia che lo rende umano. [Resta] però che il bastone non è un braccio: il bastone gli nasce dentro utilizzando questo rapporto tra Leib e Körper, in questo causalizzarsi, in questo proteggersi, in questo esprimersi nella natura.

Il punto vero è che nessuno strumento sostituirà mai l’essere in situazione del mio Leib. Questo è il Marx dei Manoscritti economico filosofici, il Marx che studia il contadino che zappa la terra, che pesa sullo strumento, che accetta l’alienazione dello strumento, di farsi cosa continuando una possibilità che ha già come vivente perché il suo corpo è già strumentalmente idoneo a farsi cosa, si potenzia nella cosa.

Ma la cosa resta nella sua inerzia: è un prodotto sociale, ma resta nella sua inerzia se il frutto del suo lavoro - cioè se questo protendersi esosomatico rinforzando il suo corpo come Körper - non ritorna indietro come Leib. Allora è una porcheria. Questo è il punto della tecnologia.

Io non sono molto d’accordo su una visione così catastrofica come quella del mio collega. Non sono affatto sicuro che i concetti di casa, di famiglia, di produzione di figli, di agricoltura, di allevamento siano come tali una salvezza. Anche se sono elementi importanti per riflettere su aspetti alienanti della nostra vita.

Il punto vero è che lo strumento torni indietro. Laddove è nato nella sociale convivenza, nella sociale condivisione della vita umana che non è trasferibile in una macchina per definizione algoritmica, cioè analitica.

La situazione del Leib è una situazione di totalità, di globalità. Incircoscrivibile come diceva Heidegger: non ci si può girare intorno. Il problema con la tecnica di oggi non è soltanto un’economia che non ritorna sul vivente, non si fa carico della ragione per cui c’è una economia, che è quella, come diceva White, [che persegue lo scopo] di vivere bene, vivere meglio. Questo è tutto.

Una tecnologia che non torna indietro a costituirsi come vita - purtroppo lo vediamo, lo vediamo tutti i giorni -, che non torna indietro a vivere bene e vivere meglio in una forma socialmente condivisa, anche perché nessuno di noi è senza la condivisione.

Non si fa capitale senza il lavoro del corpo, non si costituisce ricchezza. Allora questo denaro che non torna indietro, questo denaro che si capitalizza e diventa il fine, come se il fine fosse costruire bastoni e non usare bastoni per un ritorno dell’uso nel corpo vivente.

Questo è il punto delicato che forse non è tanto criticabile nei contenuti in sé. Forse possiamo guardarli con maggiore modestia dicendo che forse noi non capiamo ciò che gli strumenti della tecnologia attuale produrranno nel giro dei decenni e dei secoli.

Abbiamo perso degli usi che forse non dovevamo perdere, perché non li abbiamo persi per un reale potenziamento, perché anche le parole sono strumenti alienanti perché escono dal corpo vivente e ritornano affetti da un cattivo spiritualismo - e io divento incompetente in parole.

Il problema è quanto le parole educano, tirano fuori, le mie umane possibilità che sono qui localizzate nella mia vita e in quella di tutti gli altri con me. Una economia che non fa questo, una politica che non fa questo, una tecnologia che non fa questo è pericolosa.

Va contrastata con una forte idea di ritorno nella domanda di cosa è umano. Va tenuta aperta tale domanda, che cosa è umano oggi, anche se non è più l’“agricoltura”, non è più l’“allevamento” – di cui parlava Hadjadj - o non è questa cosa soltanto. Anche se non è la famiglia tradizionale europea e tantissime cose, ma è l’umano come possibilità perché è in cammino con le sue macchine. Come le sue macchine possono essere la tentazione di Mefistofele, [così le] sue macchine possono essere la resurrezione di Faust, la possibilità che Faust se la cavi - e infatti se l’è cavata. 

F. HADJADJ: Una macchina non può battere un giocatore di poker. Per battere un giocatore serve che ce ne siano due, un altro giocatore che vince: la macchina non gioca.

C’è un equivoco tra ciò che fa il giocatore e ciò che fa la macchina ed è una specie di antropomorfismo che ci fa dire che la macchina ha sconfitto il giocatore. Ci si sbaglia sull’intelligenza artificiale, non c’è niente di più stupido di un computer ma niente è un miglior simulatore, un computer può simulare l’intelligenza meglio di un uomo.

Sono due cose diverse essere intelligente e simulare l’intelligenza. Il modo migliore per simulare l’intelligenza è di avere una risposta a tutto. Sartre dà questa definizione di imbecille: è quello che sa rispondere a qualsiasi domanda.

Google è l’imbecillità stessa. L’intelligenza è saper perdere i propri mezzi, essere intelligente è avere la capacità di essere messi in discussione è essere messi in questione fino a perdere la propria autorità sulla questione stessa in modo tale che il fondo dell’intelligenza sta sempre la lode, la meraviglia e la supplica.

Questo non potrà mai esistere nell’intelligenza artificiale. In fin dei conti se crediamo nell’intelligenza artificiale è che abbiamo già sottomesso la nostra intelligenza alla logica macchine, il vero pericolo è l’artificializzazione della nostra intelligenza. Il fatto che l’algoritmo diventi il modello in questo argomento si può sviluppare una certa terminologia che di fronte ai dati della realtà l’intelligenza ha la capacità di riconoscere in questi dati un dono ed è infatti questa capacità che definisce l’intelligenza in profondità. È la stessa capacità che definisce la mano.

Come si può dire che le scimmie non hanno la mano visto che sono quadrumani? Perché la mano umana non è un organismo per prendere ma è un organo di recettività e infatti questa recettività che è in gioco quando si saluta. Lo sforzo di prendere è sempre superato dalla recettività nell’atto di accarezzare.

Dunque l’intelligenza riconosce il dono nel dato. Heidegger diceva alla fine della sua vita questo gioco di parole che “pensare è ringraziare”.

Per il computer per quanto sia potente il suo software di machine learning, un dato è sempre un dato. E i dati corrispondono all’ignoranza radicale del dono. Per questo non si può parlare in profondità di intelligenza artificiale ma di una simulazione di intelligenza attraverso algoritmi che gestiscono i big data il cui funzionamento non ha nulla a che fare con l’intelligenza, è sempre questione di correlazioni statistiche a partire da un enorme base di dati ora che noi pensando ci basta una sola esperienza e che andiamo a fondo scavando in questa esperienza fino al dono originale

A. CASPANI: Un’ultima domanda che secondo me è molto preziosa dato il contesto in cui viviamo. Noi viviamo in un’epoca che sul piano educativo dice che la grande novità oggi è la digitalizzazione della scuola, è l’informatizzazione della scuola. Ho in mente anche tanti esempi di scuole che si fanno propaganda dicendo che forniscono un tablet a ogni allievo. Ma al di là dell’aspetto specifico, il problema educativo in questa società tecnologica dove il calcolatore simula l’intelligenza ma non è l’intelligenza umana, come può essere impostato il problema educativo? Tenendo conto che la caratteristica dell’umano è quella di fare esperienza, fare riflessione critica sul dato, dove nella parola “critica” c’è tutto il senso non soltanto di presa di distacco, ma di accettazione del mistero e dell’apertura all’infinito che c’è nel dato. In cosa può consistere un progetto educativo che tenga conto del contesto in cui siamo inseriti, ma che nello stesso tempo non sia vittima di questa tecnologizzazione verso cui è così facile cadere? 

C. SINI: Confesso che non credo che ci sia una soluzione. La cosa andrà avanti come è stato detto, con un colpo alla botte e un colpo al cerchio. Quanti convegni ho fatto sull’informare e formare! Non c’è niente da fare.

Da quando si è costituita per ragioni profondissime e condivisibili la scuola pubblica e l’educazione del cittadino - che ha ragioni profonde, storiche, economiche – [è così]. Gli illuministi cosa potevano fare? Lasciare i contadini analfabeti? Nel momento in cui non c’era più quella sapienza che veniva prima ricordata, quel mondo lì era finito.

Allora noi dobbiamo renderci conto che il problema della formazione non si risolve per decreto legge e non si risolve con teorie pedagogiche perché è più profondo, riguarda tutta l’evoluzione complessiva del nostro mondo, investe tutte le altre culture.

Siccome ho partecipato a un dialogo con un grande studioso di sanscrito il quale mi spiegava che questi testi, che poi erano orali, non si possono - dicono i grandi maestri che poi hanno cominciato a commentarli- non si possono intendere, se poi non te li trasmette un maestro.

Noi quindi facciamo quello che possiamo dall’Ottocento in avanti. Li studiamo, ma è chiaro che facciamo molta fatica e comunque sia è tutta una roba di testa. Una bella esperienza, ma non è più quel processo formativo che si poteva fare soli in quanto introdotti, iniziati da un maestro.

Le culture antiche sono fatte così. Le culture moderne non possono essere fatte così: mettiamo un maestro accanto a ogni studente? E siamo così ricchi da avere tanti maestri? I maestri sono rari, rarissimi.

E allora c’è una discrepanza inevitabile tra come la scuola istruisce e si giova di strumenti più o meno efficaci - io non penso che sia [bene] a priori respingere che gli studenti usino il computer in classe, francamente non lo so, credo che molto dipenda dall’uso che ne fai, da come lo usi – [e la realtà].

D’altronde loro non fanno altro: avete visto sull’autobus sono tutti incantati dal cellulare, giovani e vecchi, è un mondo incredibile per uno che ha ottantatré anni e che non accende mai il suo telefonino, io mi guardo attorno smarrito ma immagino, perché l’abbiamo letto nei grandi comici e nei grandi scrittori di commedie, per un ateniese del V-IV secolo, vedere uno che leggeva era da sganasciarsi dalle risate, era un matto e noi siamo di fronte a fenomeni molto simili.

Credo che non ci sia niente da fare, alcuni nostri giovani trovano i loro maestri e alcuni tra i nostri contemporanei sono ancora capaci di essere maestri. Cercarli in un’aula di scuola o universitaria è demenziale perché se noi avessimo tutte queste migliaia di maestri saremmo superiori ad Atene.

Non è possibile, quindi abbassiamo le pretese. Siamo più sensati, formuliamo programmi di informazione, acculturazione, capacità tecnica nel manovrare la lingua e gli strumenti, conoscenza della cultura.

Insegniamo ad essere più prudente a chi si inorgoglisce di saper fare queste cose e soprattutto diciamo sempre ai giovani: «Guarda che questo bisogna farlo, guarda che non hai capito niente e praticamente non sai niente». Questo è il coraggio che bisogna avere.

Provate ad avere una classe americana. Andare a dire: “Non ti illudere, ma non è colpa tua se non si capisce la Divina Commedia in qualche lezione”. Durante la settimana c’è un’ora di lezione e alla fine si portano sei canti. Questa è una devastazione della Divina Commedia e poi qualcuno la odia, però qualcuno se ne appassiona.

Ci vuole una grande pazienza e buon senso, buona volontà e levare di mezzo tutte le questioni personali, trovarsi con i ragazzi in un’aula e dire cosa si fa. Vedere come si può navigare nel programma. L’esperienza, l’incontro è una cosa importantissima. Si può ancora fare qualcosa.

Io non escluderei che questo non possa essere un gioco con i computer, un modo di saperli usare bene, di non credere che sia un massimo imbecille, perché ha tutte le risposte. Questo si può dire ai ragazzi, se tu hai capito che cosa è formazione, se hai capito che tu per primo non sei stato abbastanza formato e se sei anche cosciente di un compito sociale preciso che è quello di prendere questi ragazzi e di avvicinarli ad una tradizione, a una cultura, a una storia, a dargli degli strumenti. Poi si fa quello che si può.

F. HADJADJ: Mi piacciono molto gli ultimi commenti che sono stati fatti, per esempio il passaggio dal maestro al mezzo pedagogico e questa saponetta (il cellulare) che non si osa portare sotto la doccia.

Oggi si lavora al 5G, questo vuol dire che si potranno scaricare venti GB al secondo. Questo per esempio vuol dire 100 LP in formato MP3, vuol dire tutta una biblioteca in un secondo.

Il problema è che il tempo di ascolto della musica e il tempo di lettura della biblioteca non diminuiscono quindi questo non serve assolutamente a nulla.

Quello che succede in realtà è che, al contrario, con questo metodo si impedisce di leggere perché bisogna stare esposti sempre al flusso dell’informazione, talmente ricca che sono necessari algoritmi per filtrarla e questo ci impedisce il raccoglimento della lettura.

Leggere non è informarsi ma è raccogliere. Più si cerca di sviluppare un metodo di lettura rapida, meno si riesce a leggere una poesia. L’aforisma di Woody Allen è lampante: «Ho fatto un corso di lettura veloce. Ho letto “Guerra e Pace” di Tolstoj. Parla della Russia». Esso raffigura ironicamente il tipo di intelligenza che svilupperà il 5G.

Dunque la questione della digitalizzazione dell’insegnamento lascia da parte il fatto che il tempo della lettura è incompressibile, e per leggere bene non c’è niente di meglio di un libro, e un libro stampato con i vecchi caratteri tipografici.

Dunque ci sono stati degli studi cognitivi che hanno dimostrato che leggere un libro stampato nel metodo antico favorisce l’apprendimento meglio di un libro stampato con metodo offset.

Perché ci sono delle piccole variazioni tra le lettere che fanno sì che l’attenzione è sollecitata dal libro stesso. Al contrario, col carattere molto levigato della stampa offset dobbiamo fare lo sforzo per stare attenti.

Nello stesso tempo però sono favorevole ad una vera digitalizzazione, cioè fare qualcosa con le dita: è il senso della parola “digitalizzazione” - mi sorprende che lo si sia dimenticato.

È come la parola tecnica, o la parola economia, che sono state usurpate. Penso che Carlo Sini dica qualcosa di molto vero sulla pazienza, ma io non sono moralizzatore come lui. Perché lui ha detto che bisogna fare appello alla pazienza dei giovani - uno schema volontarista, di esortazione morale.

Ma la questione che io pongo è: «Qual è il dispositivo tecnico che ci invita alla pazienza?» Io per questo penso che nelle scuole più intellettuali bisogna ristabilire il lavoro manuale. E niente ci insegna di più la pazienza che il lavoro agricolo. 

A. CASPANI: Bene, mi sembra che possiamo sintetizzare anche quest’ultimo intervento dicendo che in fondo il vero imbecille non è tanto Google quanto l’adulto o il giovane che pensa di trovare tramite Google tutte le risposte. E mi sembra importante concludere dicendo che stasera abbiamo scoperto o riscoperto che si può attraversare la problematica della tecnologia senza contrastarla ma riscoprendo che al fondo quello che è decisivo non è tanto l’informatizzazione, la digitalizzazione nel senso degli strumenti quanto riscoprendo questo mondo attraverso dei maestri, dei filosofi. Perché la filosofia è decisiva, mi sembra sia emerso in modo netto, la filosofia non può essere in ritirata davanti a questo mondo ma anzi è l’unica dimensione che può aiutare a comprenderlo più profondamente e anche a viverlo con simpatia e in modo piacevole, come hanno mostrato i nostri amici stasera. Grazie.