Monsignor Fisichella: due interventi sulla via pulchritudinis. Perché non esiste verità senza bellezza e bellezza senza verità e bontà

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 13 /04 /2025 - 17:29 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito due interventi di mons. Rino Fisichella sulla via pulchritudinis. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Arte e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (13/4/2025)

1/ Arte, forma di evangelizzazione, di Rino Fisichella. Catechesi di monsignor Rino Fisichella nella Giornata di spiritualità per gli artisti nel segno di Padre Pio pronunciata in San Giovanni Rotondo, il 5 settembre 2022 

Dal link https://www.famigliacristiana.it/articolo/rino-fisichella--giornata-di-spiritualita-artisti-sportivi-comunicazione.aspx

"Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell'ammirazione".

Questa espressione di Paolo VI a conclusione del concilio Vaticano II può condensare l'interrogativo che provoca il teologo a ritrovare la via pulchritudinis come forma privilegiata per l'evangelizzazione.

L'umanità ha bisogno di bellezza perché questa è la fonte dell'amore che suscita sempre in ogni tempo e in ogni latitudine l'agire personale come principio di esistenza. Il tema proposto si snoda su due coordinate che si intrecciano costantemente fino a costituire una sola direzione: l'esigenza dell'uomo e la natura della Chiesa.

In ogni persona è racchiuso quel desiderio inestinguibile di amore che ha bisogno necessariamente di esplodere e di ritrovarsi esplicitato nel momento in cui incontra la bellezza. Per usare le parole di Agostino potremmo dire: "Movet quidem corporis pulchritudo, sed intus quaeritur amoris vicissitudo"

La Chiesa, luogo in cui si realizza la bellezza

La Chiesa è stata voluta dal suo Signore come la mediazione perenne attraverso cui la bellezza del suo Vangelo raggiungesse ogni persona nella sua cultura e nel suo tempo come annuncio di amore che salva. Nessuno dei due può fare meno dell'altro. Sempre per usare le parole di Paolo VI: "Da lungo tempo la Chiesa ha fatto un'alleanza... tanto feconda" che non può essere spezzata.

La Chiesa non può non incontrarsi con la bellezza, e questa non può non trovare il suo campo più fecondo di espressione che nei contenuti della fede. Dimenticare questo orizzonte fecondo di evangelizzazione equivarrebbe a eclissare secoli della nostra storia che hanno generato le più alte forme della bellezza nei diversi ambiti della cultura: la poesia e la letteratura hanno trovato nei libri sacri il cuore pulsante della loro narrazione; la freddezza del marmo e della pietra è stata trasformata in calore, dando voce alle svariate forme architettoniche delle nostre cattedrali e alle sculture che riproducono la nostra spiritualità; uomini e donne di teatro, di danza e di cinema hanno reso manifesti con la loro recitazione i misteri della nostra fede; i colori nelle mani di artisti credenti lasciano ancora oggi carichi di meraviglia per la bellezza che traspare dai loro dipinti.

Come se tutto questo non bastasse, la bellezza è stata a fondamento della nostra liturgia per evocare a ogni credente la realtà suprema dell'incontro con il mistero di Dio. La bellezza, dunque, resiste al logorio del tempo e impedisce a chi annuncia il Vangelo di rinchiudersi in forme stereotipe e obsolete per provocare a trovare linguaggi sempre nuovi in grado di rendere vivo il mistero della salvezza.

Insomma, come direbbe volentieri Crispino Valenziano: «La bellezza non è l'effetto dell'arte umana, ma il riflesso della gloria divina che si rivela e che l'uomo deve prima percepire per poterla poi artisticamente rappresentare».

Il genio dell'artista, il ruolo dell'uomo dinanzi al Creato

Niente e nessuno potranno mai esaurire la carica di meraviglia che si prova dinanzi alla bellezza. La genialità dell'artista se da una parte mostra la grandezza dell'uomo dinanzi all'intero creato; dall'altro, rende evidente la sua peculiare condizione di poter gioire intimamente di quanto egli stesso crea.

Solo lui può imprimere nella materia in maniera indelebile, il mistero dell'esistenza che gli consente di ritrarre il mondo, se stesso e il trascendente, lasciando che l'opera vada oltre la sua stessa esistenza personale.

Ciò che lui crea sopravvive e permane come segno della sua tensione trascendente. L'arte, in tutte le sue manifestazioni, permette di dare voce all'esperienza della bellezza come forma originaria dell'animo umano e come principio di trasformazione della stessa esistenza personale. La bellezza svela l'uomo all'uomo e gli rende nota nello stesso tempo l'enigmaticità e la grandezza del suo essere nel mondo.

Ritengo, in questo contesto, che la via della bellezza possa essere una strada da percorrere per restituire speranza ai tanti che ancora sentono il desiderio, la nostalgia e l'esigenza della fede. La via pulchritudinis, d'altronde, non è competitiva con altre espressioni peculiari dell'evangelizzazione; un suo recupero, piuttosto, potrebbe far emergere la necessaria provocazione per cogliere l'essenza del mistero e il fascino che da esso emana.

Non è superfluo in questo contesto, riprendere l'interrogativo di Ippolit che rivolgendosi al principe Myskin in tono di sfida e con l'ironia che lo caratterizzava gli chiedeva: "È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza? Signori miei - gridò improvvisamente rivolgendosi a tutti - il principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza! Ed io, invece, affermo che ha di quei pensieri frivoli perché è innamorato. Signori, il principe è innamorato; me ne sono convinto definitivamente non appena lo vidi entrare qui or ora... Quale bellezza salverà il mondo?... Siete un cristiano fervente voi? Kolja dice che voi stesso vi attribuite il nome di cristiano".

Una vita senza bellezza è solo decadimento

Come si può notare, se non ci si ferma alla inflazionata espressione, ci si ritrova con profonde considerazioni: “Pensieri frivoli” sono classificati da Ippolit la bellezza, l'amore e la fede; eppure, sembra che lui non abbia altra soluzione da proporre a se stesso se non quella di annegare le sue giornate nel vino.

Dinanzi all'ubriacatura generalizzata del mondo contemporaneo, possiamo pensare che la "bellezza" potrà salvare la Chiesa e restituire forza speculativa alla teologia? Alla stessa stregua potremmo domandarci: il mondo e la Chiesa saranno in grado di salvare la bellezza? Se guardiamo con disillusione al presente, è facile scorgere un uomo ripiegato su se stesso, e spesso incapace di dare voce alla bellezza.

Quanto si sta verificando sotto i nostri occhi, soprattutto nelle metropoli, sembra essere piuttosto il degrado, conseguente alla debolezza del pensiero, che rende opaca la bellezza ereditata, impedendo di produrre nuova bellezza. Una simile situazione porta solo decadimento della cultura e della vita sociale e personale.

Tornano con tutta la loro carica di lungimiranza le parole di un maestro dei decenni passati, Hans Urs von Balthasar. Nella sua opera Herrlichkeit, che fin dal titolo identifica nella "gloria" il principio del rapimento che la bellezza offre, si attarda sulla condizione del mondo moderno privo della bellezza: "In un mondo senza bellezza - anche se gli uomini non riescono a fare a meno di questa parola e l'hanno continuamente sulle labbra, equivocandone il senso - in un mondo che forse non ne è privo, ma che non è più in grado di vederla e di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione e l'uomo resta perplesso e si chiede perché non dovrebbe preferire piuttosto il male. Anche questo, infatti, costituisce una possibilità perfino più eccitante... In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti a favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica".

La pastorale della bellezza secondo von Balthasar

Drammatico, ma purtroppo vero. Banalizzare la bellezza o renderla solo un effetto effimero, porta con sé conseguenze deleterie. Non si può neppure considerare ovvia la conclusione di Balthasar quando si rivolge ai teologi: "La bellezza è l'ultima parola che l'intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto. È la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di comprendersi e che ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli affari per abbandonarlo alla sua cupidigia e alla sua tristezza. È la bellezza che non è più amata e custodita neppure dalla religione. La bellezza alla quale non osiamo più credere e di cui abbiamo fatto di tutto per potercene liberare a cuor leggero".

Una triste considerazione che dovrebbe scuotere con forza la mente dei credenti per restituire loro la responsabilità di essere annunciatori della bellezza, e fare della bellezza lo strumento del loro annuncio di Cristo al mondo di oggi. Le considerazioni critiche di von Balthasar permangono come una provocazione attuale che tocca in primo luogo la teologia e per conseguenza la pastorale perché non "rinunci, coscientemente o incoscientemente, alla dimensione estetica, per debolezza, per dimenticanza o per una falsa scientificità. Essa sarebbe costretta a sacrificare buona parte, se non la migliore di se stessa".

La bellezza è stato il veicolo migliore per comunicare la nostra fede

Il cristianesimo, come si sa, fin dalle sue origini si è incontrato con la bellezza. Questa è stata per noi la via privilegiata nel corso dei secoli per esprimere e rappresentare visivamente la verità della fede, l'evocazione del mistero, e la bontà della nostra testimonianza. In qualsiasi cultura è stato annunciato il Vangelo di Gesù Cristo, là si è data voce alla bellezza per rendere evidente il messaggio delle sacre Scritture e mostrare il riflesso del mistero celebrato nella liturgia.

La bellezza è stato il veicolo migliore per comunicare ciò che è contenuto peculiare della nostra fede: il Vangelo, cioè la bella notizia della salvezza realizzata dal mistero dell'amore di Gesù Cristo. Non senza fatica, il cristianesimo ha compreso, a differenza di altre religioni, che poiché il Figlio di Dio aveva assunto la natura umana, allora la si poteva anche rappresentare e mostrarne la bellezza che portava con sé.

L'arte si è posta al servizio di questo principio perché ha compreso che ogni via estetica doveva necessariamente contenere in sé il religioso come esperienza ultima e fondativa. Insomma, la bellezza comunica meglio di altre forme il mistero della fede. Il Signore, infatti, viene compreso e celebrato nella bellezza; non come una scelta di comodo, ma come necessità imprescindibile, e metodo coerente per cogliere con coerenza e profondità il mistero che racchiude in sé. D'altronde, quale linguaggio potrebbe essere capace di esprimere al meglio il mistero "nascosto nei secoli ed ora rivelato" (Rm 16,25)?

Filosofi e teologi hanno fatto a gara per mantenere fermo nelle loro mani lo scettro del primato; eppure, la disputa tra loro non prendeva in considerazione un terzo contendente: l'artista. Nello stesso tempo poeta, filosofo e teologo, egli è stato l'artefice più coerente del linguaggio umano quando ha preteso di voler "esprimere" Dio. Il suo genio è in grado di allargare le maglie di quella gabbia in cui il linguaggio dell'uomo è da sempre rinchiuso, soprattutto quando intraprende la strada per esprimere ciò che va oltre il limite dell'esperienza personale.

Per questo motivo il cristianesimo deve esprimersi con la bellezza e interloquire con l'arte; non potrebbe permettersi di interrompere questa relazione perché verrebbe a privarsi della via privilegiata per presentare il contenuto fondante della fede. Il mistero, dunque, si coniuga con la bellezza oppure rischia di non essere percepito nella sua essenza perché incapace di suscitare amore. Viene di nuovo in aiuto Agostino: “Divenuti simili a lui, potremo forse venir meno? potremo forse volgerci altrove? Stiamone certi, o fratelli! La lode e l'amore di Dio non ci sazieranno mai completamente. Se ti stancassi d'amare, verresti meno anche nella lode; ma, se è vero che l'amore sarà eterno, poiché la bellezza di lui sarà inesauribile, allora (non temere!) nulla ti impedirà di lodare per sempre colui che per sempre potrai amare?”

Dovremo essere capaci, pertanto, di coniugare la bellezza del mistero con il mistero della bellezza, per avere una visione più limpida della fede, dei suoi contenuti, e per essere efficaci nell'opera di evangelizzazione. D'altronde, se si dovessero togliere dai musei i capolavori di arte ispirati dalla fede, cosa resterebbe se non chilometri di lunghi corridoi vuoti; se si eliminasse la musica suscitata dal mistero divino, avremmo solo tonnellate di spartiti in bianco; e se si escludessero dalle biblioteche tutte le opere di letteratura cristiana, avremmo la triste visione di scaffali impolverati.

Insomma, le nostre cattedrali, le chiese e una gran parte della produzione artistica di quasi due millenni sono la sintesi più invidiabile della fecondità del rapporto tra fede e bellezza nel compito di annunciare e trasmettere la Parola di Dio.

Sorge inevitabile l'interrogativo: come possiamo noi oggi essere fedeli trasmettitori di questa feconda tradizione che ha suscitato e trasmesso la fede? Tornano alla mente le parole lucide del filosofo quando scrive: "La religione è la linfa vitale della cultura. Fornisce un repertorio di simboli, storie e dottrine che ci rendono capaci di parlare del nostro destino. Va a formare, attraverso i testi sacri e la liturgia, il punto di riferimento costante al quale possono fare ritorno il poeta e il critico, dà forma al linguaggio del credente comune, così come quello dei poeti, che si trovano davanti alle sempre nuove condizioni di vita come conseguenze della conoscenza, e alla vita in un mondo in decadenza.

Riscoprire la nostra religione non significa liberarsi delle istituzioni temporali, non significa negare la storia e la corruzione in modo da contemplare le verità senza tempo. Al contrario, significa entrare più profondamente nella storia, in modo da trovare nella mera transitorietà delle cose l'impronta e il segno di ciò che non passa mai...

Il tentativo di riscoprire una tradizione a cui appartenere, che dia senso e significato al linguaggio, è il tentativo di trovare una tradizione di pensiero, di azione, di fedeltà storica che dia senso e significato alla comunità... Il nostro compito è riscoprire il mondo che ci ha resi come siamo, vedere noi stessi come parte di qualcosa di più grande, la cui sopravvivenza dipende da noi e che può ancora vivere in noi"

Se lo sguardo si pone più direttamente sull'arte prodotta dal cristianesimo altrettanti considerazioni potrebbero essere fatte. Con ragione scrive Timothy Verdon:

"Sembra che più si affina il gusto per la bellezza e più si creano situazioni che la negano..."

"All'inizio del terzo millennio, abbiamo bisogno di capire chi siamo, chi eravamo ieri, chi volgiamo essere domani. In questo momento di difficili situazioni vogliamo interrogare il passato, cercando un senso nella storia, domandando se ci possa essere continuità tra passato e futuro. E in una cultura, come quella odierna, sensibile all'immagine -che, anzi, affida alle immagini la comunicazione dei suoi messaggi morali e sociali più importanti - il ruolo dell'arte sacra torna fondamentale. Credenti e non credenti rimangono affascinati dal patrimonio di pittura, scultura e architettura generato dai cristiani nei secoli, non solo per la bellezza formale delle opere ma perché in esse si trovano faccia a faccia con temi rispondenti a urgenti domande attuali"

Viviamo in questi anni una condizione paradossale che sembra rendere più difficile l'evangelizzazione attraverso la via pulchritudinis. Sembra che più si affina il gusto per la bellezza e maggiormente si costatano situazioni che la negano rendendo il nostro annuncio retorico.

Molte nostre città sono un vero museo all'aperto dove è possibile gustare la ricchezza del genio architettonico che nel corso dei secoli ha realizzato qualcosa di unico. Sentiamo forte la responsabilità per custodirlo e trasmetterlo alle generazioni future per mostrare loro la cultura di cui siamo nello stesso tempo figli e padri, e che vogliamo condividere con loro.

Nello stesso tempo, tuttavia, tocchiamo con mano il decadere del senso della bellezza nelle diverse espressioni della vita quotidiana. È successo, purtroppo, che in alcuni casi si è voluto imporre un modello di bellezza in netta discontinuità con la Tradizione, con il risultato di non permettere la comprensione dell'armonia e dello sviluppo dinamico che la bellezza possiede. Grave errore, perché l'opera d'arte appartiene a un insieme, a un tutto e volerne assolutizzare una sola parte la inserisce in un isolamento insignificante.

La bellezza, che da sempre affascina e crea una peculiare forma di contemplazione che spinge all'amore, potrebbe scomparire lentamente dal nostro mondo, col pericolo che si cada preda della disperazione come prospettava Paolo VI. Se questo dovesse disgraziatamente avvenire, il vuoto sarebbe enorme e non potrebbe essere sostituito da nulla. Dove viene meno la bellezza, là viene a mancare l'amore, e con esso il senso della vita e la capacità di generare.

Se la forza di attrazione peculiare della bellezza viene meno, allora si diventa incapaci di creare cultura e la vita personale e sociale diventa insipida. La posta in gioco è talmente grande che merita una riflessione comune e un'assunzione di responsabilità partecipata.

La bellezza consente di superare la frammentarietà che soprattutto oggi domina sovrana nella nostra cultura, incapace di cogliere l'unità e il fondamento del sapere. I nostri occhi sembra che abbiano perso la loro forza e come ommatidi di insetti si coglie solo il quantitativo sufficiente per dare risposta alle domande immediate senza essere più capaci di porre l'interrogativo di fondo che chiede di dare all'esistenza una risposta carica di senso.

Per paradossale che possa sembrare mentre cerchiamo l'intelligenza delle sculture antiche e con esse della civiltà che le ha prodotte, oggi per i nati negli ultimi due decenni che costituiscono la "generazione digitale". la contemplazione sembra fermarsi alla bellezza dell'Ipad, dell'ultimo modello di cellulare o di PC.

Le file che si vedono all'uscita di un nuovo strumento tecnico non sono più distinguibili dalle stesse file di turisti che vogliono entrare al Louvre, ai Musei Vaticani o al Prado. Il desiderio dell'attesa, per alcuni versi è identico. L'ansia per la bellezza muove gli uni e gli altri con altrettanto desiderio di contemplazione dell'opera d'arte.

Nessuno tra di noi si illuda di poter emarginare questa forma di bellezza come secondaria e del tutto irrilevante. Equivarrebbe a compiere una rottura con intere generazioni di persone che vivono di questa nuova cultura che si impone senza troppa lentezza come forma di conoscenza e di comportamenti che modificano quanto altre generazioni hanno coltivato e vissuto.

Non è lontano il tempo in cui si apriranno nuovi musei dove queste generazioni sfileranno per guardare l'evolversi della cultura e le forme che essa ha assunto nel corso dei decenni. La sorpresa e lo stupore che infonde un ritratto di Leonardo o un paesaggio di Rembrandt, saranno suscitati dal primo e antiquato modello di Ipad di Steve Jobs. Potranno modificarsi i contenuti e gli oggetti della contemplazione, ma la bellezza che ne traspare, dovunque si trovi, suscita sempre stupore e meraviglia.

Avviene cosi che, da una parte, la meraviglia provoca ad interrogare; l'intelletto si sente mosso a conoscere sempre di più e la dinamica del pensiero cresce e coglie frammenti di verità. Dall'altra, lo stupore provoca una condizione di serenità e di pace che abilita a vivere la forza della contemplazione.

La bellezza in questo modo, crea una condizione paradossale: essa si muove tra la dinamica dell'intelletto e la quiete della contemplazione. Essa evidenzia che la possibilità di cogliere il vero è reale e abilita a riflettere sulla relazione con la bontà che alimenta ogni forma di contemplazione. Insomma, la bellezza si presenta come principio e forma per cogliere il vero e il bene in un inizio sempre nuovo che non conosce fine, perché suscita desiderio costante di conoscenza e offre frutti di serenità. Come restituire alla bellezza la sua forza per esprimere il mistero e il suo fascino per attrarre alla contemplazione? Con ragione il pensiero antico poteva definire la bellezza come: id cuius ipsa apprehensio placet; cioè la bellezza suscita la serenità della contemplazione. Dinanzi ad essa l'animo trova la quiete e in essa si rifugia per ammirare con occhi differenti se stesso e il cosmo che lo circonda. Non è un caso che Agostino, mosso dall'inquietudine, può scrivere nelle sue Confessioni: "Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai! Si, perché tu eri dentro di me e io fuori. Li ti cercavo"

La bellezza permette all'uomo di amare

Espressione che è indice di un principio a cui riferirsi: la bellezza trova posto nell'intimo dove giace la verità. Si può cogliere, insomma, la bellezza nella misura in cui l'animo percepisce la verità, e viceversa, si coglie la verità quando la si cerca nella sua bellezza. Ritorna ancora una volta l'esigenza di coniugare in unità bellezza, verità e bontà come elementi costitutivi della conoscenza personale e dell'annuncio cristiano; senza questa prospettiva tutto cade nel frammento e diventa privo di senso.

La bellezza, infatti, ricerca la forma, la proporzione, per consentire alla realtà di esprimersi nella sua globalità rimandando sempre oltre la forma stessa per cogliere quanto essa esprime. In una parola, la bellezza permette all'uomo di amare; lo rapisce, cioè, in uno spazio superiore dove gli è possibile donare tutto se stesso, perché comprende di trovare in modo definitivo la risposta alla domanda di senso della sua esistenza personale.

Nell'amore, infatti, si condensa tutta la vita; la serenità e la felicità che scaturiscono dalla contemplazione della bellezza giungono finalmente a compimento. Penso, in modo più diretto, a come la liturgia potrebbe essere favorita se la via della bellezza ispirasse ulteriormente la sua evocazione del mistero e la visibilità della salvezza presente e operante.

La bellezza della chiesa, della musica e del canto, delle vesti liturgiche, della gestualità del sacerdote, dei segni sacramentali, dell'icona, del silenzio... Se si avesse la forza della fede, e si accedesse alla conoscenza della Tradizione che ha creato e dato senso e significato ai testi e ai segni liturgici, la bellezza si imporrebbe da sé senza alcun bisogno di eccessi di personalismi che impediscono di cogliere la verità e la bontà presente nell'atto liturgico. Si pensi solo alla bellezza del silenzio.

La valenza che il silenzio possiede per rapire nella contemplazione è indiscussa. Con molta probabilità, questo sarà possibile nella misura in cui saremo ancora capaci di annunciare la bellezza della fede in Gesù Cristo; solo così infatti, la forza dell'annuncio diventa provocazione per l'intelligenza e per la sensibilità dell'uomo che ha nostalgia di Dio.

La fede, pertanto, potrà ancora suscitare il desiderio della contemplazione per restituire la gioia e la serenità, se sarà capace di permettere l'incontro con la bellezza. La bellezza non tramonta, ma ha bisogno di persone che siano capaci di ringiovanire ogni giorno il suo volto, coscienti della responsabilità che si possiede di annunciare ancora oggi con lo stesso entusiasmo la bellezza del volto di Gesù di Nazareth, vero Dio e vero uomo, risposta ultima alla domanda di senso del nostro contemporaneo.

La visione di Agostino diventa l'orizzonte su cui porre questa grande sfida: "Godremo, fratelli, di una visione mai contemplata dagli occhi, mai udita dalle orecchie, mai immaginata dalla fantasia: una visione che supererà tutte le bellezze terrene, quella dell'oro, dell'argento, dei boschi e dei campi, del mare e del cielo, del sole e della luna, delle stelle e degli angeli. La ragione è questa: che essa è la fonte di ogni altra bellezza".

Custodire la bellezza e annunciare il Vangelo con la bellezza, pertanto, è la responsabilità che appartiene alla nostra generazione come una strada maestra per andare oltre la crisi, visibile nella stanchezza e debolezza del pensiero e della fede, e recuperare forza creativa per restituire allo sguardo la semplicità della contemplazione.

2/ La via pulchritudinis per la nuova evangelizzazione, di Rino Fisichella 

Dal link https://www.chiesadegliartisti.it/porta-infinito/2012/fisichella.pdf

Superamento dell’oblio

La via della bella è una strada maestra per la nuova evangelizzazione. Il cristianesimo ha fatto della bellezza, nel corso dei suoi duemila anni, il percorso per esprimere la bella notizia del Vangelo di Gesù Cristo. Permangono nel nostro mondo alcuni interrogativi che non sono affatto secondari: Come riportare Dio all'uomo di oggi? Cosa dovrà fare il credente perché il messaggio cristiano sia accettato dai suoi contemporanei? Come potrà la teologia presentare la credibilità del kerigma senza tradire il kerigma stesso? C'è una via d'uscita tra l'estrinsecismo di Scilla e l'immanentismo di Cariddi?

Mi è obbligatoria, a questo punto, una nota biografica. All’inizio dei miei studi teologici mi sono incontrato con un grande teologo che sarebbe diventato il mio maestro, Hans Urs von Balthasar. Nelle prime pagine della sua opera Herrlichkeit, scriveva così: “La parola con la quale, noi diamo inizio ad una sequela di studi teologici, è una parola con la quale l'uomo filosofico non inizierà mai, ma con la quale piuttosto porrà fine alle sue riflessioni; una parola inoltre che non ha mai posseduto nel concerto delle scienze esatte un posto e una voce durevoli e garantiti; una parola che quando è stata scelta come tema da parte di queste scienze sembra tradire nel consesso di questo indaffaratissimi specialisti, un dilettante stravagante e ozioso; una parola infine dalla quale nell'epoca moderna, mediante energiche delimitazioni di frontiere, hanno preso le loro distanze sia la religione che, in particolare la teologia: in breve, una parola anacronistica per la filosofia, la scienza e la teologia... La nostra parola iniziale si chiama bellezza è l'ultima parola che l'intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che coronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita neppure dalla religione ma che, come maschera strappata al suo volto mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini. Essa è la bellezza alla quale non osiamo più credere e di cui abbiamo fatto un'apparenza per potercene liberare a cuor leggero. Essa è la bellezza infine che esige (come è oggi dimostrato) per lo meno altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e della bontà, essa non si lascia ostracizzare e separare da queste sue due sorelle senza trascinarle con sé in una vendetta misteriosa”.

Parole dure, eppure vere, che descrivono lo stato attuale di una riflessione che ha spesso dimenticato le proprie radici e la propria identità per gettarsi tra le braccia di mode effimere senza possibilità di vera speculazione. È stato questo uno dei motivi che mi ha avvicinato non poco all’estetica teologica. Confesso che quando nel 2011 mi sono trovato nella Sagrada Familia a Barcellona per partecipare con Benedetto XVI alla consacrazione della chiesa di Gaudí, quella pagina di von Balthasar mi è tornata alla mente e, ho pensato, potrebbe essere riscritta perché in effetti la bellezza ritornava di nuovo a parlare oltre i confini dei credenti. Ecco perché ho pensato che essa dovesse diventare l’icona della nuova evangelizzazione.

È successo, infatti, che in alcuni momenti si è voluto imporre un modello di bellezza in netta discontinuità con la tradizione, con il risultato di non permettere la comprensione dell’armonia e dello sviluppo dinamico che la bellezza possiede. Grave errore, perché l’opera d’arte appartiene a un insieme, a un tutto e volerne assolutizzare una sola parte la inserisce in un isolamento insignificante. La bellezza, che da sempre affascina e crea una peculiare forma di contemplazione che spinge all’amore, potrebbe scomparire lentamente dal nostro mondo, col pericolo che questo cada preda della disperazione. Se questo dovesse disgraziatamente avvenire, il vuoto sarebbe enorme e non potrebbe essere sostituito da nulla. Dove viene meno la bellezza, là viene a mancare l'amore e con esso il senso della vita e la capacità di generare. Viviamo un tempo, che ha inflazionato il termine. La bellezza ricorre con sempre maggior frequenza nei nostri discorsi; eppure, sembra che non siamo più in grado di vederla e di realizzarla. Se la bellezza, infatti, si esaurisce nella corporeità e non è più in grado di suscitare il genio per affermarne l'opera che perdura negli anni, allora si cade nell'effimero e di conseguenza si perde anche il senso della verità e della bontà. Se la loro forza di attrazione viene meno, allora diventiamo incapaci di creare cultura; la vita personale e sociale, per conseguenza, diventa insipida. Rischio troppo grande da correre per non vedere la posta in gioco.

L’originalità del cristianesimo

Uno dei termini più espressivi del Nuovo Testamento ci sembra essere quello di είκών, "immagine" o, come si usa spesso oggi, icona. Conosciamo il divieto dell'Antico Testamento per ogni raffigurazione di Dio. Vi è in quel comando quasi una ripugnanza nel pensare che lo si possa perfino raffigurare. Le parole severe che troviamo nel libro dell'Esodo non sono solo normative di quel momento; costituiscono un codice a cui Israele si dovrà attenere per sempre (Es 20,4). La cosa contrasta in modo radicale con il testo di Paolo dove, parlando di Gesù afferma che: "Egli è l'immagine del Dio invisibile" (Col 1,15). L'irriducibilità del cristianesimo nel contesto delle religioni monoteiste trova qui uno dei suoi punti di contrasto insanabili. Nello stesso tempo, comunque, l'originalità del cristianesimo evidenzia da questa prospettiva uno dei suoi tratti che lo contraddistinguono nell'intera storia delle religioni. Che la divinità non si possa vedere è uno dei tratti comuni alle religioni e certamente alle religioni monoteiste. Sia l'ebraismo che l'islam non cedono su questo aspetto. La trascendenza di Dio è tale che non solo non si può vedere né raffigurare, ma il cui nome non può essere neppure pronunciato. Il mistero dell'incarnazione di Dio spezza questo cerchio e immette nella storia per la prima e unica volta ciò che l'uomo attendeva per poter approdare a un rapporto con Dio che fosse coerente con la sua stessa natura. L'espressione di Paolo ai Colossesi, comunque, permane con la sua carica di interrogativo profondo: come si può essere "immagine" di qualcosa che è invisibile? La risposta la fornisce Gesù stesso nel vangelo di Giovanni quando a Filippo che chiedeva di vedere finalmente il Padre, risponde: "Chi vede me vede il Padre". Solo nella misura in cui si prende in seria considerazione questa dimensione si comprende lo scandalo che il cristianesimo ha rappresentato fin dalle origini. La sua pretesa di far vedere Dio, di farlo ascoltare e toccare con mano e di giungere perfino a proclamare la sua morte in croce si scontrava non solo con il giudaismo ma anche con le diverse forme di pensiero con cui veniva a contatto. Contro queste forme, il cristianesimo ha voluto imprimere con forza il valore della rappresentazione artistica del mistero. Le icone più antiche che vengono conservate al monastero di santa Caterina sul monte Sinai risalgono al VI sec. e attestano la convinzione della fede che nelle immagini si può riproporre il mistero creduto, celebrato e per questo contemplato. Ciò che l'arte rappresenta non è solo un elemento ornamentale quanto, piuttosto, la descrizione di un'esperienza di fede che merita di essere raccontata e partecipata. Il cristianesimo, quindi, nasce alla luce della bellezza. Da ogni parte lo si voglia guardare, riporta sempre con forza e insistenza al punto di partenza: la bellezza della rivelazione.

Se Dio, dunque, si lascia vedere e contemplare, allora la prima chiamata in causa è l'arte. Lo compresero da subito i cristiani. Si hanno testimonianze fin dal I sec., ma un testo di Eusebio è particolarmente significativo in proposito. Per la prima volta, forse, viene data testimonianza scritta della rappresentazione di Gesù. Per gli storici, la Storia ecclesiastica di Eusebio risale al 303 circa, ciò significa che ci si inoltra realmente agli albori della fede: "Non ritengo giusto omettere un racconto degno di essere ricordato anche a quanti verranno dopo di noi. Di là (da Cesarea) si diceva, infatti, che provenisse la donna sofferente di emorragia che, come abbiamo appreso dai vangeli, fu liberata dal suo male dal Salvatore nostro e nella città se ne mostrava la casa, ed esistevano ancora mirabili monumenti della benevolenza del Salvatore verso di lei. Su di un'alta pietra davanti alla porta della sua casa c'era infatti il bassorilievo in bronzo di una donna, inginocchiata e con le mani protese in atteggiamento di supplica, mentre di fronte a questa ve n'era un altro, dello stesso materiale, raffigurante un uomo in piedi che avvolto splendidamente in un manto tendeva la mano alla donna; ai suoi piedi, sul monumento stesso, spuntava uno strano tipo di erba che arrivava fino al bordo del mantello di bronzo ed era un antidoto contro i malanni di ogni sorta. Questa scultura si diceva che rappresentasse l'immagine di Gesù ed esisteva ancora ai nostri giorni, così che l'abbiamo vista di persona noi stessi quando ci recammo in quella città. E non vi è niente di straordinario nel fatto che un tempo i pagani beneficiati dal Salvatore nostro abbiano fatto questo, poiché abbiamo saputo che anche dei suoi apostoli Pietro e Paolo e di Cristo stesso si conoscevano immagini in dipinti, com'è naturale, perché gli antichi erano soliti onorarli in questo modo come salvatore, secondo l'uso pagano esistente tra loro".

La chiave di lettura di Eusebio è particolarmente interessante. Non solo attesta di avere lui stesso visto la rappresentazione che era stata forgiata tempo prima; ma anche che la cosa era "naturale" ed era stata realizzata anche per gli apostoli.

La lotta iconoclasta (726-843) è indice di una reale pressione in cui si venne a trovare il cristianesimo tra le strette dell'ebraismo e dell'islam. Non a caso, è Bisanzio il terreno privilegiato della contesa. È in questa ottica che si esprime il secondo concilio di Nicea (787) quando mette fine alla lotta iconoclasta, affermando che il mistero dell'incarnazione di Dio impone che lo si possa rappresentare, perché "l'onore reso all'immagine rinvia a colui che rappresenta: e chi adora l'immagine adora la sostanza di chi vi è dipinto" (DS 601).

Bellezza e contemplazione

Per sua stessa natura, l'arte evoca il mistero e permette che lo si contempli a partire dalla bellezza. "Was aber schön ist, selig scheint es in ihm selbst" (Ciò che è bello appare beato in se stesso), così si conclude una poesia di Mörike, riportando in versi la lunga riflessione filosofica che vede il bello come ciò che attrae e pone in contemplazione (id cuius ipsa apprehensio placet).

Con questa dimensione dovrebbe confrontarsi sempre il cristianesimo, la teologia e la fede in ogni momento della sua esistenza. Comprendere il contenuto della fede, d'altronde, non è altro che entrare progressivamente nella bellezza del mistero che si professa e, a partire da lì cercarne di dare profonda intelligenza. È per questo che fino ai nostri giorni, la Chiesa non ha cessato di sostenere gli artisti e di chiedere il loro aiuto. Acquistano un particolare significato, quindi, le parole con le quali il concilio Vaticano II si rivolgeva a loro:

"Ora a voi tutti, artisti che siete innamorati della bellezza e che per essa avete lavorato: poeti e uomini di lettere, pittori, scultori, architetti, musicisti, gente di teatro e cineasti... A voi tutti la Chiesa del Concilio dice con la nostra voce: se voi siete gli amici della vera arte, voi siete nostri amici! Da lungo tempo la Chiesa ha fatto alleanza con voi. Voi avete edificato e decorato i suoi templi, celebrato i suoi dogmi, arricchito la sua liturgia. L’avete aiutata a tradurre il suo messaggio divino nel linguaggio delle forme e delle figure, a rendere comprensibile il mondo invisibile. Oggi come ieri la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce: non lasciate che si rompa un’alleanza tanto feconda! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo! Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione. E questo grazie alle vostre mani... Che queste mani siano pure e disinteressate! Ricordatevi che siete i custodi della bellezza nel mondo: questo basti ad affrancarvi dai gusti effimeri e senza veri valori, a liberarvi dalla ricerca di espressioni stravaganti o malsane. Siate sempre e dovunque degni del vostro ideale".

In questo contesto, non sarà inutile riprendere tra le mani la pagina dell’Idiota. Ricordiamo il dialogo che Dostoevskij mette sulle labbra di Ippolit, il quale rivolgendosi al principe Myskin, malato di tisi e moribondo lo apostrofa così: “È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza? Signori miei - gridò improvvisamente rivolgendosi a tutti - il principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza! Ed io, invece, affermo che ha di quei pensieri frivoli perché è innamorato. Signori, il principe è innamorato; me ne sono convinto definitivamente non appena lo vidi entrare qui or ora… Quale bellezza salverà il mondo?... Siete un cristiano fervente voi? Kolja dice che voi stesso vi attribuite il nome di cristiano” (L’idiota, parte III cap. V). Anche l’ateo Ippolit è costretto a mettere in relazione bellezza e amore e riferirle al cristianesimo; certo, per lui sono “pensieri frivoli”, ma lui non ha altra soluzione da proporre a se stesso che annegare le sue giornate nel vino! Pittura, scultura, architettura, musica, letteratura… tutto ciò che l'uomo può produrre per esprimere la bellezza del creato sarà sempre un inno che viene rivolto al Creatore e alla vita che ha immesso in tutto ciò che usciva dalle sue mani. L'arte non fa altro che tentare di riprodurre la bellezza di Dio e della sua creazione; in questo sforzo titanico solo pochi hanno il dono di poter percepire il senso che si nasconde e trovano le capacità per poterlo esprimere. La Chiesa non potrà mai essere sufficientemente grata agli artisti per questo loro impegno che ogni volta rappresenta una sfida con cui loro per primi devono confrontarsi.

È sempre con particolare emozione che si può leggere l'epigrafe posta sulla tomba di Raffaello: "…timuit magna rerum parens quo sospice vinci et moriendo mori"; e non è senza aria di tristezza che in un luogo nascosto sul pavimento di santa Maria Maggiore si può vedere la tomba di Bernini. L'uno e l'altro hanno creato opere immortali: il primo ha avuto perfino l'invidia della natura mentre per il secondo non si è trovato soluzione migliore di una piccola lapide invisibile!

La Chiesa ha bisogno della bellezza perché solo in questo modo diventa evidente la bontà di quanto crede. È sempre von Balthasar che ci riporta a questa convinzione quando scrive: "In un mondo senza bellezza – anche se gli uomini non riescono a fare a meno di questa parola e l'hanno continuamente sulle labbra, equivocandone il senso - in un mondo che non ne è forse privo, ma che non è più in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l'evidenza del suo dover-essere adempiuto; e l'uomo resta perplesso di fronte ad esso e si chiede perché non deve piuttosto preferire il male". Ancora una volta il pensiero del teologo sa cogliere con lungimiranza la condizione in cui vivono molti dei nostri giovani contemporanei: esclusi dalla possibilità di contemplare la bellezza si rinchiudono in sale che intontiscono per il chiasso dei decibel e scelgono la via del male come rimedio per dimenticare la gioia della vita.

Per ritornare al presente In un tempo come il nostro in cui abbiamo bisogno di capire chi siamo e chi vogliamo essere domani, proprio per le difficili situazioni in cui ci si trova, è importante interrogare il passato e capire chi eravamo. Dobbiamo diventare una generazione che è capace di vera tradizione, dove la trasmissione originale del patrimonio del passato, vissuto secondo lo spirito del nostro tempo, consente di scoprire la continuità che è feconda e non la discontinuità che diventa sterile. L'arte che si mette al servizio del sacro dovrebbe trovarci capaci di grandi sacrifici per realizzare opere che durano nel tempo per attestare la fede di sempre. Quest'arte dovrebbe anche oggi, come lo fu nel passato, esprimere l'unità del mistero della salvezza: dalla creazione all'escatologia passando per l'incarnazione, tutto dovrebbe trovare spazio nell'arte contemporanea. Il significato della luce come quello della pietra, la scelta delle immagini e dei materiali dovrebbe concorrere a far entrare il credente nel mistero che è chiamato a celebrare e non farlo sentire uno straniero in casa propria (Gaudí).

L'arte cristiana dovrebbe esprimersi dinamicamente in uno sviluppo continuo senza rottura e discontinuità con la ricchezza precedente. Ammetto che a stento riesco a comprendere la rottura che nel periodo moderno e contemporaneo qualche scuola ha voluto creare con il periodo precedente. Mi diventerebbe ancora più incomprensibile doverlo verificare nell'arte cristiana. Sarebbe come una violenza alla sua stessa natura, chiamata a svilupparsi dinamicamente senza alterazione alcuna. Per questo il valore dell'arte sacra torna fondamentale. Abbiamo un patrimonio di letteratura, poesia, pittura, scultura e architettura che ancora continua ad affascinare il nostro contemporaneo e consente a noi credenti di essere fedeli annunciatori di una bellezza che non conosce tramonto. Si tolgano i capolavori di arte sacra dai musei, resterebbero chilometri di lunghi corridoi vuoti; si tolga la musica sacra e avremmo tonnellate di spartiti in bianco; si eliminino dalle biblioteche tutte le opere di letteratura cristiana, avremmo solamente una triste visione di scaffali impolverati. Insomma, le nostre cattedrali, le chiese e una gran parte della produzione artistica di quasi due millenni sono la sintesi più invidiabile della fecondità del rapporto tra fede e bellezza nel compito di trasmettere la Parola di Dio.

Già nell’anno 406, il vescovo S. Paolino da Nola, vero anticipatore della via pulchritudinis come forma per l’annuncio della verità cristiana, poteva scrivere: “Unica arte abbiamo, la fede; è Cristo, la poesia”!