Riflettendo su Anders Nygren, Eros e agape, e la problematicità delle sue tesi che corrispondono ad una visione oppositiva non fedele né alle Scritture, né alla fede cattolica (da Benedetto XVI e Raniero Cantalamessa)
Riprendiamo sul nostro sito due testi, uno di papa Benedetto XVI ed uno di Raniero Cantalamessa. Entrambi riflettono – il primo indirettamente, il secondo esplicitamente -, sulle tesi di Anders Nygren, Eros e agape. La nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni, Bologna, Il Mulino, 1971 (edizione originale svedese, Stoccolma 1930), ma anche sulla visione moderna e post-moderna dell’amore, criticandola e mostrandone i limiti teologici ed esistenziali. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educare all’affettività, Sacra Scrittura e Cristianesimo.
Il Centro culturale Gli scritti (13/4/2025)

1/ Da Deus caritas est di papa Benedetto XVI
«Eros» e «agape» – differenza e unità
3. All'amore tra uomo e donna, che non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo s'impone all'essere umano, l'antica Grecia ha dato il nome di eros. Diciamo già in anticipo che l'Antico Testamento greco usa solo due volte la parola eros, mentre il Nuovo Testamento non la usa mai: delle tre parole greche relative all'amore — eros, philia (amore di amicizia) e agape — gli scritti neotestamentari privilegiano l'ultima, che nel linguaggio greco era piuttosto messa ai margini. Quanto all'amore di amicizia (philia), esso viene ripreso e approfondito nel Vangelo di Giovanni per esprimere il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli. La messa in disparte della parola eros, insieme alla nuova visione dell'amore che si esprime attraverso la parola agape, denota indubbiamente nella novità del cristianesimo qualcosa di essenziale, proprio a riguardo della comprensione dell'amore. Nella critica al cristianesimo che si è sviluppata con crescente radicalità a partire dall'illuminismo, questa novità è stata valutata in modo assolutamente negativo. Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche, avrebbe dato da bere del veleno all'eros, che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio[1]. Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una percezione molto diffusa: la Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino?
4. Ma è veramente così? Il cristianesimo ha davvero distrutto l'eros? Guardiamo al mondo pre-cristiano. I greci — senz'altro in analogia con altre culture — hanno visto nell'eros innanzitutto l'ebbrezza, la sopraffazione della ragione da parte di una «pazzia divina» che strappa l'uomo alla limitatezza della sua esistenza e, in questo essere sconvolto da una potenza divina, gli fa sperimentare la più alta beatitudine. Tutte le altre potenze tra il cielo e la terra appaiono, così, d'importanza secondaria: «Omnia vincit amor», afferma Virgilio nelle Bucoliche — l'amore vince tutto — e aggiunge: «et nos cedamus amori» — cediamo anche noi all'amore[2]. Nelle religioni questo atteggiamento si è tradotto nei culti della fertilità, ai quali appartiene la prostituzione «sacra» che fioriva in molti templi. L'eros venne quindi celebrato come forza divina, come comunione col Divino.
A questa forma di religione, che contrasta come potentissima tentazione con la fede nell'unico Dio, l'Antico Testamento si è opposto con massima fermezza, combattendola come perversione della religiosità. Con ciò però non ha per nulla rifiutato l'eros come tale, ma ha dichiarato guerra al suo stravolgimento distruttore, poiché la falsa divinizzazione dell'eros, che qui avviene, lo priva della sua dignità, lo disumanizza. Infatti, nel tempio, le prostitute, che devono donare l'ebbrezza del Divino, non vengono trattate come esseri umani e persone, ma servono soltanto come strumenti per suscitare la «pazzia divina»: in realtà, esse non sono dee, ma persone umane di cui si abusa. Per questo l'eros ebbro ed indisciplinato non è ascesa, «estasi» verso il Divino, ma caduta, degradazione dell'uomo. Così diventa evidente che l'eros ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare all'uomo non il piacere di un istante, ma un certo pregustamento del vertice dell'esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende.
5. Due cose emergono chiaramente da questo rapido sguardo alla concezione dell'eros nella storia e nel presente. Innanzitutto che tra l'amore e il Divino esiste una qualche relazione: l'amore promette infinità, eternità — una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere. Ma al contempo è apparso che la via per tale traguardo non sta semplicemente nel lasciarsi sopraffare dall'istinto. Sono necessarie purificazioni e maturazioni, che passano anche attraverso la strada della rinuncia. Questo non è rifiuto dell'eros, non è il suo «avvelenamento», ma la sua guarigione in vista della sua vera grandezza.
Ciò dipende innanzitutto dalla costituzione dell'essere umano, che è composto di corpo e di anima. L'uomo diventa veramente sé stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità; la sfida dell'eros può dirsi veramente superata, quando questa unificazione è riuscita. Se l'uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità. E se, d'altra parte, egli rinnega lo spirito e quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde ugualmente la sua grandezza. L'epicureo Gassendi, scherzando, si rivolgeva a Cartesio col saluto: «O Anima!». E Cartesio replicava dicendo: «O Carne!»[3]. Ma non sono né lo spirito né il corpo da soli ad amare: è l'uomo, la persona, che ama come creatura unitaria, di cui fanno parte corpo e anima. Solo quando ambedue si fondono veramente in unità, l'uomo diventa pienamente sé stesso. Solo in questo modo l'amore — l'eros — può maturare fino alla sua vera grandezza.
Oggi non di rado si rimprovera al cristianesimo del passato di esser stato avversario della corporeità; di fatto, tendenze in questo senso ci sono sempre state. Ma il modo di esaltare il corpo, a cui noi oggi assistiamo, è ingannevole. L'eros degradato a puro «sesso» diventa merce, una semplice «cosa» che si può comprare e vendere, anzi, l'uomo stesso diventa merce. In realtà, questo non è proprio il grande sì dell'uomo al suo corpo. Al contrario, egli ora considera il corpo e la sessualità come la parte soltanto materiale di sé da adoperare e sfruttare con calcolo. Una parte, peraltro, che egli non vede come un ambito della sua libertà, bensì come un qualcosa che, a modo suo, tenta di rendere insieme piacevole ed innocuo. In realtà, ci troviamo di fronte ad una degradazione del corpo umano, che non è più integrato nel tutto della libertà della nostra esistenza, non è più espressione viva della totalità del nostro essere, ma viene come respinto nel campo puramente biologico. L'apparente esaltazione del corpo può ben presto convertirsi in odio verso la corporeità. La fede cristiana, al contrario, ha considerato l'uomo sempre come essere uni-duale, nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda sperimentando proprio così ambedue una nuova nobiltà. Sì, l'eros vuole sollevarci «in estasi» verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni.
6. Come dobbiamo configurarci concretamente questo cammino di ascesa e di purificazione? Come deve essere vissuto l'amore, perché si realizzi pienamente la sua promessa umana e divina? Una prima indicazione importante la possiamo trovare nel Cantico dei Cantici, uno dei libri dell'Antico Testamento ben noto ai mistici. Secondo l'interpretazione oggi prevalente, le poesie contenute in questo libro sono originariamente canti d'amore, forse previsti per una festa di nozze israelitica, nella quale dovevano esaltare l'amore coniugale. In tale contesto è molto istruttivo il fatto che, nel corso del libro, si trovano due parole diverse per indicare l'«amore». Dapprima vi è la parola «dodim» — un plurale che esprime l'amore ancora insicuro, in una situazione di ricerca indeterminata. Questa parola viene poi sostituita dalla parola «ahabà», che nella traduzione greca dell'Antico Testamento è resa col termine di simile suono «agape» che, come abbiamo visto, diventò l'espressione caratteristica per la concezione biblica dell'amore. In opposizione all'amore indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo esprime l'esperienza dell'amore che diventa ora veramente scoperta dell'altro, superando il carattere egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l'amore diventa cura dell'altro e per l'altro. Non cerca più sé stesso, l'immersione nell'ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell'amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca.
Fa parte degli sviluppi dell'amore verso livelli più alti, verso le sue intime purificazioni, che esso cerchi ora la definitività, e ciò in un duplice senso: nel senso dell'esclusività — «solo quest'unica persona» — e nel senso del «per sempre». L'amore comprende la totalità dell'esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo: l'amore mira all'eternità. Sì, amore è «estasi», ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall'io chiuso in sé stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio: «Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà» (Lc 17, 33), dice Gesù — una sua affermazione che si ritrova nei Vangeli in diverse varianti (cfr. Mt 10, 39; 16, 25; Mc 8, 35; Lc 9, 24; Gv 12, 25). Gesù con ciò descrive il suo personale cammino, che attraverso la croce lo conduce alla resurrezione: il cammino del chicco di grano che cade nella terra e muore e così porta molto frutto. Partendo dal centro del suo sacrificio personale e dell'amore che in esso giunge al suo compimento, egli con queste parole descrive anche l'essenza dell'amore e dell'esistenza umana in genere.
7. Le nostre riflessioni, inizialmente piuttosto filosofiche, sull'essenza dell'amore ci hanno ora condotto per interiore dinamica fino alla fede biblica. All'inizio si è posta la questione se i diversi, anzi opposti, significati della parola amore sottintendessero una qualche unità profonda o se invece dovessero restare slegati, l'uno accanto all'altro. Soprattutto, però, è emersa la questione se il messaggio sull'amore, a noi annunciato dalla Bibbia e dalla Tradizione della Chiesa, avesse qualcosa a che fare con la comune esperienza umana dell'amore o non si opponesse piuttosto ad essa. A tal proposito, ci siamo imbattuti nelle due parole fondamentali: eros come termine per significare l'amore «mondano» e agape come espressione per l'amore fondato sulla fede e da essa plasmato. Le due concezioni vengono spesso contrapposte come amore «ascendente» e amore «discendente». Vi sono altre classificazioni affini, come per esempio la distinzione tra amore possessivo e amore oblativo (amor concupiscentiae – amor benevolentiae), alla quale a volte viene aggiunto anche l'amore che mira al proprio tornaconto.
Nel dibattito filosofico e teologico queste distinzioni spesso sono state radicalizzate fino al punto di porle tra loro in contrapposizione: tipicamente cristiano sarebbe l'amore discendente, oblativo, l'agape appunto; la cultura non cristiana, invece, soprattutto quella greca, sarebbe caratterizzata dall'amore ascendente, bramoso e possessivo, cioè dall'eros. Se si volesse portare all'estremo questa antitesi, l'essenza del cristianesimo risulterebbe disarticolata dalle fondamentali relazioni vitali dell'esistere umano e costituirebbe un mondo a sé, da ritenere forse ammirevole, ma decisamente tagliato fuori dal complesso dell'esistenza umana. In realtà eros e agape — amore ascendente e amore discendente — non si lasciano mai separare completamente l'uno dall'altro. Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell'unica realtà dell'amore, tanto più si realizza la vera natura dell'amore in genere. Anche se l'eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente — fascinazione per la grande promessa di felicità — nell'avvicinarsi poi all'altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell'altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà «esserci per» l'altro. Così il momento dell'agape si inserisce in esso; altrimenti l'eros decade e perde anche la sua stessa natura. D'altra parte, l'uomo non può neanche vivere esclusivamente nell'amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono. Certo, l'uomo può — come ci dice il Signore — diventare sorgente dalla quale sgorgano fiumi di acqua viva (cfr. Gv 7, 37-38). Ma per divenire una tale sorgente, egli stesso deve bere, sempre di nuovo, a quella prima, originaria sorgente che è Gesù Cristo, dal cui cuore trafitto scaturisce l'amore di Dio (cfr. Gv 19, 34).
I Padri hanno visto simboleggiata in vari modi, nella narrazione della scala di Giacobbe, questa connessione inscindibile tra ascesa e discesa, tra l'eros che cerca Dio e l'agape che trasmette il dono ricevuto. In quel testo biblico si riferisce che il patriarca Giacobbe in sogno vide, sopra la pietra che gli serviva da guanciale, una scala che giungeva fino al cielo, sulla quale salivano e scendevano gli angeli di Dio (cfr. Gn 28, 12; Gv 1, 51). Colpisce in modo particolare l'interpretazione che il Papa Gregorio Magno dà di questa visione nella sua Regola pastorale. Il pastore buono, egli dice, deve essere radicato nella contemplazione. Soltanto in questo modo, infatti, gli sarà possibile accogliere le necessità degli altri nel suo intimo, cosicché diventino sue: «per pietatis viscera in se infirmitatem caeterorum transferat»[4]. San Gregorio, in questo contesto, fa riferimento a san Paolo che vien rapito in alto fin nei più grandi misteri di Dio e proprio così, quando ne discende, è in grado di farsi tutto a tutti (cfr. 2 Cor 12, 2-4; 1 Cor 9, 22). Inoltre indica l'esempio di Mosè che sempre di nuovo entra nella tenda sacra restando in dialogo con Dio per poter così, a partire da Dio, essere a disposizione del suo popolo. «Dentro [la tenda] rapito in alto mediante la contemplazione, si lascia fuori [della tenda] incalzare dal peso dei sofferenti: intus in contemplationem rapitur, foris infirmantium negotiis urgetur»[5].
8. Abbiamo così trovato una prima risposta, ancora piuttosto generica, alle due domande suesposte: in fondo l'«amore» è un'unica realtà, seppur con diverse dimensioni; di volta in volta, l'una o l'altra dimensione può emergere maggiormente. Dove però le due dimensioni si distaccano completamente l'una dall'altra, si profila una caricatura o in ogni caso una forma riduttiva dell'amore. E abbiamo anche visto sinteticamente che la fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto a quell'originario fenomeno umano che è l'amore, ma accetta tutto l'uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni. Questa novità della fede biblica si manifesta soprattutto in due punti, che meritano di essere sottolineati: l'immagine di Dio e l'immagine dell'uomo.
La novità della fede biblica
9. Vi è anzitutto la nuova immagine di Dio. Nelle culture che circondano il mondo della Bibbia, l'immagine di dio e degli dei rimane, alla fin fine, poco chiara e in sé contraddittoria. Nel cammino della fede biblica diventa invece sempre più chiaro ed univoco ciò che la preghiera fondamentale di Israele, lo Shema, riassume nelle parole: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo» (Dt 6, 4). Esiste un solo Dio, che è il Creatore del cielo e della terra e perciò è anche il Dio di tutti gli uomini. Due fatti in questa precisazione sono singolari: che veramente tutti gli altri dei non sono Dio e che tutta la realtà nella quale viviamo risale a Dio, è creata da Lui. Certamente, l'idea di una creazione esiste anche altrove, ma solo qui risulta assolutamente chiaro che non un dio qualsiasi, ma l'unico vero Dio, Egli stesso, è l'autore dell'intera realtà; essa proviene dalla potenza della sua Parola creatrice. Ciò significa che questa sua creatura gli è cara, perché appunto da Lui stesso è stata voluta, da Lui «fatta». E così appare ora il secondo elemento importante: questo Dio ama l'uomo. La potenza divina che Aristotele, al culmine della filosofia greca, cercò di cogliere mediante la riflessione, è sì per ogni essere oggetto del desiderio e dell'amore — come realtà amata questa divinità muove il mondo[6] —, ma essa stessa non ha bisogno di niente e non ama, soltanto viene amata. L'unico Dio in cui Israele crede, invece, ama personalmente. Il suo amore, inoltre, è un amore elettivo: tra tutti i popoli Egli sceglie Israele e lo ama — con lo scopo però di guarire, proprio in tal modo, l'intera umanità. Egli ama, e questo suo amore può essere qualificato senz'altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape[7].
Soprattutto i profeti Osea ed Ezechiele hanno descritto questa passione di Dio per il suo popolo con ardite immagini erotiche. Il rapporto di Dio con Israele viene illustrato mediante le metafore del fidanzamento e del matrimonio; di conseguenza, l'idolatria è adulterio e prostituzione. Con ciò si accenna concretamente — come abbiamo visto — ai culti della fertilità con il loro abuso dell'eros, ma al contempo viene anche descritto il rapporto di fedeltà tra Israele e il suo Dio. La storia d'amore di Dio con Israele consiste, in profondità, nel fatto che Egli dona la Torah, apre cioè gli occhi a Israele sulla vera natura dell'uomo e gli indica la strada del vero umanesimo. Tale storia consiste nel fatto che l'uomo, vivendo nella fedeltà all'unico Dio, sperimenta sé stesso come colui che è amato da Dio e scopre la gioia nella verità, nella giustizia — la gioia in Dio che diventa la sua essenziale felicità: «Chi altri avrò per me in cielo? Fuori di te nulla bramo sulla terra... Il mio bene è stare vicino a Dio» (Sal 73 [72], 25. 28).
10. L'eros di Dio per l'uomo — come abbiamo detto — è insieme totalmente agape. Non soltanto perché viene donato del tutto gratuitamente, senza alcun merito precedente, ma anche perché è amore che perdona. Soprattutto Osea ci mostra la dimensione dell'agape nell'amore di Dio per l'uomo, che supera di gran lunga l'aspetto della gratuità. Israele ha commesso «adulterio», ha rotto l'Alleanza; Dio dovrebbe giudicarlo e ripudiarlo. Proprio qui si rivela però che Dio è Dio e non uomo: «Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? ... Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all'ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te» (Os 11, 8-9). L'amore appassionato di Dio per il suo popolo — per l'uomo — è nello stesso tempo un amore che perdona. Esso è talmente grande da rivolgere Dio contro sé stesso, il suo amore contro la sua giustizia. Il cristiano vede, in questo, già profilarsi velatamente il mistero della Croce: Dio ama tanto l'uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore.
L'aspetto filosofico e storico-religioso da rilevare in questa visione della Bibbia sta nel fatto che, da una parte, ci troviamo di fronte ad un'immagine strettamente metafisica di Dio: Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma questo principio creativo di tutte le cose — il Logos, la ragione primordiale — è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore. In questo modo l'eros è nobilitato al massimo, ma contemporaneamente così purificato da fondersi con l'agape. Da ciò possiamo comprendere che la ricezione del Cantico dei Cantici nel canone della Sacra Scrittura sia stata spiegata ben presto nel senso che quei canti d'amore descrivono, in fondo, il rapporto di Dio con l'uomo e dell'uomo con Dio. In questo modo il Cantico dei Cantici è diventato, nella letteratura cristiana come in quella giudaica, una sorgente di conoscenza e di esperienza mistica, in cui si esprime l'essenza della fede biblica: sì, esiste una unificazione dell'uomo con Dio — il sogno originario dell'uomo –, ma questa unificazione non è un fondersi insieme, un affondare nell'oceano anonimo del Divino; è unità che crea amore, in cui entrambi — Dio e l'uomo — restano se stessi e tuttavia diventano pienamente una cosa sola: «Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito», dice san Paolo (1 Cor 6, 17).
11. La prima novità della fede biblica consiste, come abbiamo visto, nell'immagine di Dio; la seconda, con essa essenzialmente connessa, la troviamo nell'immagine dell'uomo. Il racconto biblico della creazione parla della solitudine del primo uomo, Adamo, al quale Dio vuole affiancare un aiuto. Fra tutte le creature, nessuna può essere per l'uomo quell'aiuto di cui ha bisogno, sebbene a tutte le bestie selvatiche e a tutti gli uccelli egli abbia dato un nome, integrandoli così nel contesto della sua vita. Allora, da una costola dell'uomo, Dio plasma la donna. Ora Adamo trova l'aiuto di cui ha bisogno: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa» (Gn 2, 23). È possibile vedere sullo sfondo di questo racconto concezioni quali appaiono, per esempio, anche nel mito riferito da Platone, secondo cui l'uomo originariamente era sferico, perché completo in sé stesso ed autosufficiente. Ma, come punizione per la sua superbia, venne da Zeus dimezzato, così che ora sempre anela all'altra sua metà ed è in cammino verso di essa per ritrovare la sua interezza[8]. Nel racconto biblico non si parla di punizione; l'idea però che l'uomo sia in qualche modo incompleto, costituzionalmente in cammino per trovare nell'altro la parte integrante per la sua interezza, l'idea cioè che egli solo nella comunione con l'altro sesso possa diventare «completo», è senz'altro presente. E così il racconto biblico si conclude con una profezia su Adamo: «Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gn 2, 24).
Due sono qui gli aspetti importanti: l'eros è come radicato nella natura stessa dell'uomo; Adamo è in ricerca e «abbandona suo padre e sua madre» per trovare la donna; solo nel loro insieme rappresentano l'interezza dell'umanità, diventano «una sola carne». Non meno importante è il secondo aspetto: in un orientamento fondato nella creazione, l'eros rimanda l'uomo al matrimonio, a un legame caratterizzato da unicità e definitività; così, e solo così, si realizza la sua intima destinazione. All'immagine del Dio monoteistico corrisponde il matrimonio monogamico. Il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l'icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura dell'amore umano. Questo stretto nesso tra eros e matrimonio nella Bibbia quasi non trova paralleli nella letteratura al di fuori di essa.
2/ Le due facce dell'amore: eros e agape, di Raniero Cantalamessa
Prima predica di Quaresima, venerdì, 25 marzo 2011, di padre Raniero Cantalamessa
Il tema delle meditazioni quaresimali è “Al di sopra di tutto vi sia la carità” (Colossesi 3, 14).
1. Le due facce dell’amore
Con le prediche di questa Quaresima vorrei continuare nello sforzo, iniziato in Avvento, di portare un piccolo contributo in vista della rievangelizzazione dell’occidente secolarizzato che costituisce in questo momento la preoccupazione principale di tutta la Chiesa e in particolare del Santo Padre Benedetto XVI.
C’è un ambito in cui la secolarizzazione agisce in modo particolarmente diffuso e nefasto, ed è l’ambito dell’amore. La secolarizzazione dell’amore consiste nello staccare l’amore umano, in tutte le sue forme, da Dio, riducendolo a qualcosa di puramente “profano”, in cui Dio è “di troppo” e anzi dà fastidio.
Ma il tema dell’amore non è importante solo per l’evangelizzazione, cioè nei rapporti con il mondo; lo è anche, e prima di tutto, per la vita interna della Chiesa, per la santificazione dei suoi membri. È la prospettiva in cui si colloca l’enciclica “Deus caritas est” del Santo Padre Benedetto XVI e in cui ci collochiamo anche noi in queste riflessioni.
L’amore soffre di una nefasta separazione non solo nella mentalità del mondo secolarizzato, ma anche, dal versante opposto, tra i credenti e in particolare tra le anime consacrate. Semplificando al massimo, potremmo formulare così la situazione: nel mondo troviamo un eros senza agape; tra i credenti troviamo spesso una agape senza eros.
L’eros senza agape è un amore romantico, più spesso passionale, fino alla violenza. Un amore di conquista che riduce fatalmente l’altro a oggetto del proprio piacere e ignora ogni dimensione di sacrificio, di fedeltà e di donazione di sé. Non occorre insistere nella descrizione di questo amore perché si tratta di una realtà che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi, propagandata com’è in maniera martellante da romanzi, film, fiction televisive, internet, riviste cosiddette “rosa”. È quello che il linguaggio comune intende, ormai, con la parola “amore”.
Più utile per noi è capire cosa si intende per agape senza eros. In musica esiste una distinzione che ci può aiutare a farci un’idea: quella tra il jazz caldo e il jazz freddo. Ho letto da qualche parte questa caratterizzazione dei due generi, anche se so che non è l’unica possibile. Il jazz caldo (hot) è il jazz appassionato, ardente, espressivo, fatto di slanci, di sentimenti e quindi di impennate e di improvvisazioni originali. Il jazz freddo (cool) è quello che si ha quando si passa al professionismo: i sentimenti diventano ripetitivi, all’estro si sostituisce la tecnica, alla spontaneità il virtuosismo.
Stando a questa distinzione, l’agape senza eros ci appare come un “amore freddo”, un amare “con la cima dei capelli”, senza partecipazione di tutto l’essere, più per imposizione della volontà che per intimo slancio del cuore. Un calarsi dentro uno stampo precostituito, anziché crearsene uno proprio irripetibile, come irripetibile è ogni essere umano davanti a Dio. Gli atti di amore rivolti a Dio somigliano a quelli di certi innamorati sprovveduti che scrivono all’amata lettere copiate da un prontuario.
Se l’amore mondano è un corpo senz’anima, l’amore religioso così praticato è un’anima senza corpo.
L’essere umano non è un angelo, cioè un puro spirito; è anima e corpo sostanzialmente uniti: tutto quello che fa, compreso amare, deve riflettere questa sua struttura. Se la componente legata al tempo e alla corporeità, viene sistematicamente negata o repressa, l’esito sarà duplice: o si tira avanti stancamente, per senso del dovere, per difesa della propria immagine, oppure si cercano compensazioni più o meno lecite, fino ai dolorosissimi casi che stanno affliggendo la Chiesa. Al fondo di molte deviazioni morali di anime consacrate, non lo si può ignorare, c’è una distorta e contorta concezione dell’amore.
Abbiamo dunque un duplice motivo e una duplice urgenza di riscoprire l’amore nella sua originaria unità. L’amore vero e integrale è una perla racchiusa dentro due valve che sono l’eros e l’agape. Non si possono separare queste due dimensioni dell’amore senza distruggerlo, come non si possono separare tra loro idrogeno e ossigeno senza privarsi con ciò stesso dell’acqua.
2. La tesi dell’incompatibilità tra i due amori
La riconciliazione più importante tra le due dimensioni dell’amore è quella pratica che avviene nella vita delle persone, ma proprio perché essa sia resa possibile è necessario cominciare con il riconciliare tra loro eros e agape anche teoricamente, nella dottrina. Questo ci consentirà tra l’altro di conoscere finalmente cosa si intende con questi due termini tanto spesso usati e fraintesi.
L’importanza della questione nasce dal fatto che esiste un’opera che ha reso popolare in tutto il mondo cristiano la tesi opposta della inconciliabilità delle due forme di amore. Si tratta del libro del teologo luterano svedese Anders Nygren, intitolato Eros e agape[9]. Possiamo riassumere il suo pensiero in questi termini. Eros e agape designano due movimenti opposti: il primo indica ascensione e salita dell’uomo a Dio e al divino come al proprio bene e alla propria origine; l’altra, l‘agape, indica la discesa di Dio all’uomo con l’incarnazione e la croce di Cristo, e quindi la salvezza offerta all’uomo senza merito e senza risposta da parte sua, che non sia la sola fede. Il Nuovo Testamento ha fatto una scelta precisa, usando, per esprimere l’amore, il termine agape e rifiutando sistematicamente il termine eros.
San Paolo è quello che con più purezza ha raccolto e formulato questa dottrina dell’amore. Dopo di lui, sempre secondo la tesi di Nygren, tale antitesi radicale è andata persa quasi subito per dar luogo a tentativi di sintesi. Appena il cristianesimo entra in contatto culturale con il mondo greco e la visione platonica, già con Origene, c’è una rivalutazione dell’eros, come movimento ascensionale dell’anima verso il bene e verso il divino, come attrazione universale esercitata dalla bellezza e dal divino. In questa linea, lo Pseudo Dionigi Areopagita scriverà che “Dio è eros”[10], sostituendo questo termine a quello di agape nella celebre frase di Giovanni (1 Gv 4,10).
In occidente una sintesi analoga è operata da Agostino con la sua dottrina della caritas intesa sì come dottrina dell’amore discendente e gratuito di Dio per l’uomo (nessuno ha parlato della “grazia” in maniera più forte di lui!), ma anche come anelito dell’uomo al bene e a Dio. Sua è l’affermazione: “Ci hai fatto per te, o Dio, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”[11]; sua è anche l’immagine dell’amore come di un peso che l’attira l’anima, come per forza di gravità, verso Dio, come al luogo del proprio riposo e del proprio piacere[12].
Tutto questo, per Nygren, inserisce un elemento di amore di sé, del proprio bene, quindi di egoismo, che distrugge la pura gratuità della grazia; è una ricaduta nell’illusione pagana di far consistere la salvezza in una ascesa a Dio, anziché nella gratuita e immotivata discesa di Dio verso di noi.
Prigionieri di questa impossibile sintesi tra eros e agape, tra amore di Dio e amore di sé, restano, per Nygren, san Bernardo quando definisce il grado supremo dell’amore di Dio come un “amare Dio per se stesso” e un “amare se stesso per Dio”[13], san Bonaventura con il suo ascensionale “Itinerario della mente a Dio”, come pure san Tommaso d’Aquino che definisce l’amore di Dio effuso nel cuore del battezzato (cf. Rom 5,5) come “l’amore con cui Dio ci ama e con cui fa sì che noi amiamo lui” (amor quo ipse nos diligit et quo ipse nos dilectores sui facit)[14].
Questo infatti verrebbe a dire che l’uomo, amato da Dio, può a sua volta, amare Dio, dargli qualcosa di suo, ciò che distruggerebbe l’assoluta gratuità dell’amore di Dio. Sul piano esistenziale la stessa deviazione, secondo Nygren, si ha con la mistica cattolica. L’amore dei mistici, con la sua fortissima carica di eros, altro non è, per lui, che un amore sensuale sublimato, un tentativo di stabilire con Dio un rapporto di presuntuosa reciprocità in amore.
Chi ha rotto l’ambiguità e riportato alla luce la netta antitesi paolina è stato, secondo l’autore, Lutero. Fondando la giustificazione sulla sola fede egli non ha escluso la carità dal momento fondante della vita cristiana, come gli rimprovera la teologia cattolica; ha piuttosto liberato la carità, l’agape, dall’elemento spurio dell’eros. Alla formula della “sola fede”, con esclusione delle opere, corrisponderebbe, in Lutero, la formula della “sola agape”, con esclusione dell’eros.
Non sta a me qui stabilire se l’autore ha interpretato correttamente su questo punto il pensiero di Lutero che – va detto - non ha mai posto il problema in termini di contrasto tra eros e agape, come ha fatto invece tra fede e opere.
È significativo tuttavia il fatto che anche Karl Barth, in un capitolo della sua “Dommatica ecclesiale”, arriva allo stesso risultato di Nygren di un contrasto insanabile tra eros e agape: “Dove entra in scena l’amore cristiano – egli scrive –, ha inizio immediatamente il conflitto con l’altro amore e questo conflitto non ha più fine”[15]. Io dico che se questo non è luteranesimo, è però certamente teologia dialettica, teologia dell’aut-aut, dell’antitesi, non della sintesi.
Il contraccolpo di questa operazione è la radicale mondanizzazione e secolarizzazione dell’eros. Mentre infatti una certa teologia estrometteva l’eros dall’agape, la cultura secolare era ben felice, da parte sua, di estromettere l’agape dall’eros, cioè ogni riferimento a Dio e alla grazia dall’amore umano. Freud ha fornito a ciò una giustificazione teorica, riducendo l’amore a eros e l’eros a libido, a pura pulsione sessuale che lotta contro ogni repressione e inibizione. È lo stadio a cui è ridotto oggi l’amore in molte manifestazioni della vita e della cultura, soprattutto nel mondo dello spettacolo.
Due anni fa mi trovavo a Madrid. Nei giornali non si faceva che parlare di una certa mostra d’arte in atto nella città, intitolata “Le lacrime dell’eros”. Era una mostra di opere artistiche a sfondo erotico - quadri, disegni, sculture – che intendeva mettere in luce l’inscindibile legame che c’è, nell’esperienza dell’uomo moderno, tra eros e thanatos, tra amore e morte. Alla stessa costatazione si arriva, leggendo la raccolta di poesie “I fiori del male di Baudelaire” o “Una stagione all’inferno” di Rimbaud. L’amore che per sua natura dovrebbe portare alla vita, porta invece ormai alla morte.
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3. Ritorno alla sintesi
Se non possiamo cambiare di colpo l’idea d’amore che ha il mondo, possiamo però correggere la visione teologica che, senza volerlo, la favorisce e la legittima. È quello che ha fatto in maniera esemplare il Santo Padre Benedetto XVI con l’enciclica “Deus caritas est”. Egli riafferma la sintesi cattolica tradizionale esprimendola con in termini moderni. “Eros e agape, vi si legge, – amore ascendente e amore discendente – non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro […]. La fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto a quell'originario fenomeno umano che è l'amore, ma accetta tutto l'uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni” (nr. 7-8). Eros e agape sono uniti alla fonte stesa dell’amore che è Dio: “Egli ama - continua il testo dell’enciclica - e questo suo amore può essere qualificato senz’altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape” (nr. 9).
Si capisce l’accoglienza insolitamente favorevole che questo documento pontificio ha incontrato anche negli ambienti laici più aperti e responsabili. Essa da una speranza al mondo. Corregge l’immagine di una fede che tocca il mondo in tangente, senza penetrarvi dentro, con l’immagine evangelica del lievito che fa fermentare la massa; sostituisce all’idea di un regno di Dio venuto a “giudicare” il mondo, quella di un regno di Dio venuto a “salvare” il mondo, a cominciare dall’eros che ne è la forza dominante.
Alla visione tradizionale, propria sia della teologia cattolica che di quella ortodossa, si può apportare, credo, una conferma anche dal punto di vista dell’esegesi. Quelli che sostengono la tesi dell’incompatibilità tra eros e agape si basano sul fatto che il Nuovo Testamento evita accuratamente - e, a quanto pare, volutamente - il termine eros, usando al suo posto sempre e solo agape (a parte qualche raro uso del termine philia, che indica l’amore di amicizia).
Il fatto è vero, ma non sono vere le conclusioni che si traggono da esso. Si suppone che gli autori del NT siano al corrente sia del senso che il termine eros aveva nel linguaggio comune – l’eros cosiddetto “volgare” – sia il senso elevato e filosofico che aveva, per esempio, in Platone, il cosiddetto eros “nobile”.
Nell’accezione popolare, eros indicava più o meno quello che indica anche oggi quando si parla di erotismo o di film erotici, cioè il soddisfacimento dell’istinto sessuale, un degradarsi piuttosto che innalzarsi. Nell’accezione nobile esso indicava l’amore per la bellezza, la forza che tiene insieme il mondo e spinge tutti gli esseri all’unità, cioè quel movimento di ascesa verso il divino che i teologi dialettici ritengono incompatibile con il movimento di discesa del divino verso l’uomo.
È difficile sostenere che gli autori del Nuovo Testamento, rivolgendosi a persone semplici e di nessuna cultura, intendessero metterli in guardia dall’eros di Platone. Essi evitarono il termine eros per lo stesso motivo per cui un predicatore evita oggi il termine erotico o, se lo usa, lo fa solo in senso negativo. Il motivo è che, allora come adesso, la parola evoca l’amore nella sua espressione più egoistica e sensuale[16]. Il sospetto dei primi cristiani nei confronti dell’eros era ulteriormente aggravato dal ruolo che esso svolgeva negli sfrenati culti dionisiaci.
Appena il cristianesimo entra in contatto e in dialogo con la cultura greca del tempo, cade immediatamente, abbiamo già visto, ogni preclusione nei confronti dell’eros. Esso viene usato spesso, negli autori greci, come sinonimo di agape ed è impiegato per indicare l’amore di Dio per l’uomo, come pure l’amore dell’uomo per Dio, l’amore per le virtù e per ogni cosa bella. Basta ormai, per convincersene, un semplice sguardo al “Lessico Patristico Greco” del Lampe[17]. Quello di Nygren e di Barth è dunque un sistema costruito su una falsa applicazione dell’argomento cosiddetto “ex silentio”.
4. Un eros per i consacrati
Il riscatto dell’eros aiuta anzitutto gli innamorati umani e gli sposi cristiani, mostrando la bellezza e la dignità dell’amore che li unisce. Aiuta i giovani a sperimentare il fascino dell’altro sesso non come qualcosa di torbido, da vivere al riparo da Dio, ma al contrario come un dono del Creatore per la loro gioia, se vissuto nell’ordine da lui voluto. A questa funzione positiva dell’eros sull’amore umano accenna anche il papa nella sua enciclica, quando parla del cammino di purificazione dell’eros che porta dall’attrazione momentanea al “per sempre” del matrimonio (nr. 4-5).
Ma il riscatto dell’eros deve aiutare anche noi consacrati, uomini e donne. Ho accennato all’inizio al pericolo che corrono le anime religiose, che è quello di un amore freddo, che non scende dalla mente al cuore. Un sole invernale che illumina ma non riscalda. Se eros significa slancio, desiderio, attrazione, non dobbiamo avere paura dei sentimenti, né tanto meno disprezzarli e reprimerli. Quando si tratta dell’amore di Dio – ha scritto Guglielmo di St. Thierry – il sentimento di affetto (affectio) è anch’esso grazia; non è infatti la natura che ci può infondere un tale sentimento[18].
I salmi sono pieni di questo anelito del cuore a Dio: “A te, Signore, innalzo l’anima mia…”, “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente”.”: “Presta dunque attenzione - dice l’autore della “Nube della non conoscenza” - a questo meraviglioso lavoro della grazia nella tua anima. Esso non è altro che un impulso improvviso che sorge senza alcun preavviso e punta direttamente a Dio, come una scintilla che si sprigiona dal fuoco... Colpisci questa fitta nube della non conoscenza con la freccia acuminata del desiderio d'amore e non muoverti di lì, qualunque cosa capiti”[19]. È sufficiente, per fare ciò, un pensiero, un moto del cuore, una giaculatoria.
Ma tutto ciò non ci basta e Dio lo sa meglio di noi. Noi siamo creature, viviamo nel tempo e in un corpo; abbiamo bisogno di uno schermo su cui proiettare il nostro amore che non sia soltanto “la nube della non conoscenza”, cioè il velo di oscurità dietro cui si nasconde il Dio che nessuno ha mai visto e che abita in una luce inaccessibile…
La risposta che si dà a questa domanda, la conosciamo bene: proprio per questo Dio ci ha dato il prossimo da amare! “Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e il suo amore diventa perfetto in noi… Chi non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4, 12 20). Ma dobbiamo stare attenti a non saltare un anello decisivo. Prima del fratello che si vede c’è un altro che pure si vede e si tocca: c’è il Dio fatto carne, c’è Gesù Cristo! Tra Dio e il prossimo c’è ormai il Verbo fatto carne che ha riunito i due estremi in una sola persona. È in lui ormai che trova il suo fondamento lo stesso amore del prossimo: “L’avete fatto a me”.
Cosa significa tutto questo per l’amore di Dio? Che l’oggetto primario del nostro eros, della nostra ricerca, desiderio, attrazione, passione, deve essere il Cristo. “Al Salvatore è preordinato l’amore umano fin dal principio, come a suo modello e fine, quasi uno scrigno così grande e così largo da poter accogliere Dio […]. Il desiderio dell’anima va unicamente al Cristo. Qui è il luogo del suo riposo, poiché lui solo è il bene, la verità e tutto ciò che ispira amore”[20]. Questo non significa restringere l’orizzonte dell’amore cristiano da Dio a Cristo; significa amare Dio nella maniera in cui egli vuole essere amato. “Il Padre vi ama perché voi mi amate” (Gv 16, 27). Non si tratta di un amore mediato, quasi per procura, per cui chi ama Gesù “è come se” amasse il Padre. No, Gesù è un mediatore immediato; amando lui si ama, ipso facto, anche il Padre. “Chi vede me, vede il Padre”, chi ama me ama il Padre.
È vero che neppure Cristo si vede, ma c’è; è risorto, è vivo, ci è accanto, più realmente di quanto lo sposo più innamorato sia accanto alla sposa. È qui il punto cruciale: pensare a Cristo non come a una persona del passato, ma come il Signore risorto e vivente, con cui posso parlare, che posso anche baciare se lo voglio, sicuro che il mio bacio non termina sulla carta o sul legno di un crocifisso, ma su un volto e su delle labbra di carne viva (anche se spiritualizzata), felici di raccogliere il mio bacio.
La bellezza e la pienezza della vita consacrata dipende dalla qualità del nostro amore per Cristo. Solo esso è capace di difendere dagli sbandamenti del cuore. Gesù è l’uomo perfetto; in lui si trovano, a un grado infinitamente superiore, tutte quelle qualità e attenzioni che un uomo cerca in una donna e una donna nell’uomo. Il suo amore non ci sottrae necessariamente al richiamo delle creature e in particolare all’attrazione dell’altro sesso (questa fa parte della nostra natura che egli ha creato e non vuole distruggere); ci dà però la forza di vincere queste attrazioni con una attrazione più forte. “Casto – scrive san Giovanni Climaco – è colui che scaccia l’eros con l’Eros”[21].
Distrugge forse, tutto questo, la gratuità dell’agape, pretendendo di dare a Dio qualcosa in cambio del suo cuore? Annulla la grazia? Nient’affatto, anzi la esalta. Che cosa infatti, in questo modo, diamo a Dio se non quello che abbiamo ricevuto da lui? “Noi amiamo perché egli ci ha amato per primo” (1 Gv 4, 19). L’amore che diamo a Cristo è il suo stesso amore per noi che gli rimandiamo, come fa l’eco con la voce.
Dov’è allora la novità e la bellezza di questo amore che chiamiamo eros? L’eco rimanda a Dio il suo stesso amore, ma arricchito, colorato o profumato della nostra libertà. Ed è tutto quello che lui vuole. La nostra libertà lo ripaga di tutto. Non solo, ma cosa inaudita, scrive il Cabasilas, “ricevendo da noi il dono dell’amore in cambio di tutto quello che ci ha dato, si ritiene nostro debitore”[22]. La tesi che contrappone eros e agape si basa su un’altra ben nota contrapposizione, quella tra grazia e libertà, e anzi sulla negazione stessa della libertà nell’uomo decaduto (sul “servo arbitrio”).
Io ho provato a immaginare, Venerabili Padri e fratelli, cosa direbbe Gesù risorto, se, come faceva nella vita terrena quando entrava di sabato in una sinagoga, adesso venisse a sedersi qui al posto mio e ci spiegasse di persona qual è l’amore che egli desidera da noi. Voglio condividere con voi, con semplicità, quello che penso ci direbbe; ci servirà per fare il nostro esame di coscienza sull’amore:
L’amore ardente:
È mettere me sempre al primo posto.
È cercare di piacermi in ogni momento.
È confrontare i tuoi desideri con il mio desiderio.
È vivere davanti a me come amico, confidente, sposo ed esserne felice.
È essere inquieto se pensi di stare un po' lontano da me.
È essere pieno di felicità quando sono con te.
È essere disposto a grandi sacrifici pur di non perdermi.
È preferire di vivere povero e sconosciuto con me, piuttosto che ricco e famoso senza di me.
È parlarmi come all'amico più caro in ogni momento possibile.
È affidarti a me guardando al tuo futuro.
È desiderare perderti in me come meta della tua esistenza.
Se sembra anche voi, come sembra a me, di essere lontanissimi da questo traguardo, non ci scoraggiamo. Abbiamo uno che può aiutarci a raggiungerlo se glielo chiediamo. Ripetiamo con fede allo Spirito Santo: Veni, Sancte Spiritus, reple tuorum corda fidelium et tui amoris in eis ignem accende: Vieni, Spirito Santo, riempi il cuore dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore.
[1] Cfr. Jenseits von Gut und Böse, IV, 168.
[2] X, 69.
[3] Cfr. R. Descartes, Œuvres, a cura di V. Cousin, vol. 12, Parigi 1824, pp. 95ss.
[4] II, 5: SCh 381, 196.
[5] Ibid., 198.
[6] Cfr. Metafisica, XII, 7.
[7] Cfr. Pseudo Dionigi Areopagita che, nel suo Sui nomi divini, IV, 12-14: PG 3, 709-713, chiama Dio nello stesso tempo eros e agape.
[8] Cfr. Il Convito, XIV-XV, 189c-192d.
[9] Edizione originale svedese, Stoccolma 1930, trad. ital. Eros e agape. La nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni, Bologna, Il Mulino, 1971.
[10] Pseudo-Dionigi Areopagita, I nomi divini, IV,12 (PG, 3, 709 ss.).
[11] S. Agostino, Confessioni I, 1.
[12] Commento al vangelo di Giovanni, 26, 4-5.
[13] Cf. S. Bernardo, De diligendo Deo, IX,26 – X,27.
[14] S. Tommaso d’Aquino, Commento alla Lettera ai Romani, cap. V, lez.1, n. 392-293; cf. S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni, 9, 9.
[15] K. Barth, Dommatica ecclesiale, IV, 2, 832-852; trad. ital. K. Barth, Dommatica ecclesiale, antologia a cura di H. Gollwitzer, Bologna, Il Mulino 1968, pp. 199-225.
[16] Il senso che i primi cristiani alla parola eros si deduce chiaramente dal noto testo di S. Ignazio d’Antiochia, Lettera ai Romani, 7,2: “Il mio amore (eros) è stato crocifisso e non c’è in me fuoco di passione…non mi attirano il nutrimento di corruzione e i piaceri di questa vita”. “Il mio eros” non indica qui Gesù crocifisso, ma “l’amore di me stesso”, l’attaccamento ai piaceri terreni, nella linea del paolino “Sono stato crocifisso con Cristo, non vivo più io” (Gal 2, 19 s.).
[17] Cf. G.W.H. Lampe, A Patristic Greek Lexicon, Oxford 1961, pp. 550.
[18] Guglielmo di St. Thierry, Meditazioni, XII, 29 (SCh 324, p. 210).
[19] Anonimo, La nube della non conoscenza, Ed. Áncora, Milano, 1981, pp. 136.140.
[20] N. Cabasilas, Vita in Cristo, II,9 (PG 88, 560-561).
[21] S. Giovanni Climaco, La scala del paradiso, XV,98 (PG 88,880).
[22] N. Cabasilas, Vita in Cristo, VI, 4.