«Assecondando il culto dell’individuo autonomo e performante, che vuole liberarsi da ogni legame naturale, affettivo, culturale e spirituale (salvo poi ritrovarsi sempre più solo, fragile e vuoto), la sofferenza viene interpretata come un difetto di funzionamento, un deficit organico. Pertanto, la cura viene concepita come intervento tecnico atto a riparare il difetto. Senza un riferimento più ampio, la psicoterapia rischia di trasformarsi in una alcova protettiva che culla e rassicura il paziente senza mai metterlo davvero in discussione. Egli è esortato a pensare sempre di più a sé stesso, a proseguire nella sua corsa individualistica, mentre il terapeuta fornisce, a pagamento, quel sostegno affettivo che il paziente non è più in grado di dare e ricevere dagli altri. L’incapacità di iscrivere la vita del singolo all’interno di un orizzonte sociale più ampio e la perdita della fiducia nel mondo esterno ed il rifiuto di donarsi agli altri rivelano una chiusura affettiva profonda, che è madre dell’angoscia, del controllo esasperato». Comunità di cura e psicologia politica. La salute mentale è una questione collettiva, di Antonio Alcaro
Riprendiamo il testo di una relazione tenuta da Antonio Alcaro in apertura dell’incontro “Comunità di cura e psicologia politica. La salute mentale è una questione collettiva”, tenutosi in piazza dell’Immacolata - San Lorenzo il 10/10/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Psicoanalisi e psicologia.
Il Centro culturale Gli scritti (2/12/2024)
Da qualche tempo, in vari paesi del mondo, vengono lanciati segnali di allarme circa lo stato di salute mentale della popolazione. I dati epidemiologici indicano che le malattie mentali costituiscano il più importante fattore di rischio medico-sanitario ed hanno un enorme impatto socio-economico (più delle malattie cardio-vascolari, dei tumori e delle malattie infettive). La situazione è ancora più allarmante se consideriamo che le nuove generazioni (bambini ed adolescenti) sono i soggetti più colpiti.
Secondo la Commissione Europea, «prima della pandemia di Covid-19 i problemi di salute mentale colpivano già una persona su sei nell’Unione europea, pari a circa 84 milioni di cittadini, e la situazione è peggiorata con le crisi senza precedenti vissute negli ultimi anni». La CE sottolinea anche che «il costo dell’inazione è significativo, pari a 600 miliardi di euro ogni anno, una cifra che vale più del 4% del Pil Ue».
Le notizie dei giornali, i dossier e le opinioni degli esperti trovano corrispondenza in un diffuso sentimento generalizzato. Ci sentiamo cioè sempre più insicuri, fragili e affaticati, mentre percepiamo gli altri come sempre più ostili, minacciosi, inaffidabili ed alieni.
Dando voce a questo sentimento di disagio, nel 2023 il movimento degli studenti ha posto la questione del diritto alla Salute Mentale come un tema centrale dell’agenda politica. Nei documenti e nelle iniziative che hanno proposto, gli studenti hanno più volte riconosciuto l’emergenza psicologica che investe la loro generazione.
Cosa sta accadendo?
Cosa può aver determinato il diffondersi del disagio?
Come porvi rimedio?
Se diamo ascolto ai numerosi segnali di allarme, dovremmo innanzitutto riflettere sui valori e le abitudini di vita che caratterizzano la nostra società. Quando il malessere coinvolge fette così consistenti della popolazione, infatti, è miope e fuorviante ricondurre i problemi esclusivamente alle vicende personali e familiari, senza considerare che le vite dei singoli siano influenzate da una dimensione più ampia, che riguarda l’insieme della collettività umana, sempre più accomunata, peraltro, da un processo di omogeneizzazione culturale su scala globale.
La stessa CE ha sottolineato come la salute mentale sia necessariamente condizionata da «fattori esterni», come ad esempio «la nostra società, la nostra economia, il nostro ambiente ed anche lo stato delle cose del mondo intorno a noi».
Per fortuna, negli ultimi anni, non sono mancati i tentativi di cogliere il senso più profondo del disagio. Tuttavia, nonostante alcuni sforzi individuali, i professionisti del settore non hanno ancora preso sul serio la questione. Né tantomeno sono state anche solo immaginate delle strategie di intervento più mirate, in grado cioè di agire sulle cause del disagio e non solo sulle sue manifestazioni più apparenti.
Prendiamo ad esempio ciò che è accaduto in Italia quando, per far fronte all’impennata di richieste di aiuto psicologico, è stato introdotto il “Bonus psicologico”. Questa misura è espressione dell’assoluta mancanza di una progettualità, andando a finanziare in modo indifferenziato le psicoterapie private, che peraltro oggi tendono sempre più pericolosamente a svolgersi on-line. Di fronte alle carenze dei servizi pubblici, che avrebbero bisogno di personale ed altre risorse per organizzare gli interventi nei territori, si preferisce finanziare un mercato privato, spesso autoreferenziale e completamente slegato dai contesti in cui vivono i cittadini.
Oltre alle difficoltà del sistema pubblico, esiste forse un problema ancora più importante. Dobbiamo infatti considerare che gli strumenti di cura forniti dalla psichiatria e dalla psicologia clinica sono il prodotto delle medesime condizioni storiche, sociali e culturali dalle quali emerge il disagio. In effetti, tali strumenti esprimono in modo sempre più evidente una particolare visione della salute e della malattia, perfettamente funzionale allo spirito del tempo.
Assecondando il culto dell’individuo autonomo e performante, che vuole liberarsi da ogni legame naturale, affettivo, culturale e spirituale (salvo poi ritrovarsi sempre più solo, fragile, dipendente e vuoto), la sofferenza viene interpretata come un difetto di funzionamento, un deficit organico. Pertanto, la cura viene concepita come intervento tecnico atto a riparare il difetto o a limitarne il più possibile l’impatto, in modo da rispondere alle richieste della società.
Parallelamente si diffondono misure di contenimento dei “meno adatti” basati sul proliferare di diagnosi ultra-specializzate, percorsi differenziati che si attivano sin dalla prima infanzia, psicofarmaci e tanto altro ancora. Tali misure ostacolano la possibilità di dare un senso al disagio, di cogliere come la sofferenza non appartenga solo all’individuo, ma emerge da una ferita nella relazione tra la persona e gli altri esseri umani.
D’altro canto, la psicologia clinica dimentica spesso come qualsiasi relazione umana, tra un genitore ed un figlio, tra due partner, due amici o tra un paziente ed un terapeuta, si iscrive sempre dentro un ordine più ampio, che peraltro consente alla coppia di uscire da un legame simbiotico e di entrare propriamente all’interno di una comunità, di cui entrambi gli elementi della coppia fanno parte integrante.
Senza un riferimento più ampio, la stessa stanza di psicoterapia rischia di trasformarsi in una alcova protettiva che culla e rassicura il paziente senza mai metterlo davvero in discussione. Seduto nella stanza d’analisi, il paziente è spesso esortato a pensare sempre di più a sé stesso, a proseguire nella sua corsa individualistica, mentre il terapeuta fornisce, a pagamento, quel sostegno affettivo che il paziente non è più in grado di dare e ricevere dagli altri.
L’incapacità di iscrivere la vita del singolo all’interno di un orizzonte sociale più ampio è un tratto endemico della contemporaneità. La perdita della fiducia nel mondo esterno ed il rifiuto di donarsi agli altri rivelano una chiusura affettiva profonda, che è madre dell’angoscia, del controllo esasperato, e del bisogno continuo di proteggersi da tutto e tutti.
Per darne un’idea, basti riflettere sul modo con cui vengono cresciuti i figli. A casa, a scuola, nelle attività post-scolastiche, nei villaggi vacanze, ecc., i bambini non hanno mai la possibilità di essere liberi, vale a dire di muoversi e pensare senza l’asfissiante assistenza di genitori, insegnanti, preparatori, animatori e quant’altro. Non sanno più cosa significhi giocare spontaneamente, da soli o con i coetanei, in assenza di regole prestabilite da altri.
Il blocco dell’intenzionalità e della fiducia in un mondo sufficientemente buono trova una (amara) consolazione nelle mille forme di dipendenza: videogiochi, cellulari, dolci e bevande iperzuccherine, vestiti, gadget e poi, un po’ più avanti, droghe, alcool, gioco d’azzardo, fitness, iperlavoro, ecc…
È quindi molto probabile che il culto performativo e la dipendenza consumistica siano in realtà due facce della stessa medaglia. Entrambe rese possibili da una subdola quanto violenta manipolazione, che distrugge e mortifica le nostre risorse vitali e spirituali, convincendoci alla non-azione.
Anche perché, i meccanismi dell’oppressione non si esercitano più tanto attraverso imposizioni dirette, quanto attraverso una sottile persuasione che ci porta ad obbedire illudendoci di essere liberi. L’archetipo del dominio, oggi, non è il tiranno, almeno qui da noi, ma la strega che attira nella casa dei dolciumi per imprigionare chi si è lasciato sedurre.
Crescendo nel clima artificiale ed impersonale delle città, veniamo sedotti dall’illusione della grande madre-azienda, che promette di poter essere tutto ciò che si vuole senza l’aiuto degli altri. In questo modo, si finisce per perpetuare il male ostinatamente ed orgogliosamente, consegnandosi gradualmente all’angoscia o alla disperazione.
La manipolazione della grande madre-azienda è talmente subdola, che finisce per operare velatamente anche tra i suoi oppositori. È questo il caso dei nuovi movimenti sulla fluidità di genere, che partendo dalla sacrosanta lotta ad ogni discriminazione sessuale, finisce per avvalorare l’ipotesi che l’uomo sia un essere infinitamente manipolabile e che l’identità della persona sia qualcosa che si possa artificialmente fare e disfare a seconda dei capricci della volontà o delle mode del momento.
E non è forse un caso, da questo punto di vista, che all’interno della Facoltà di Psicologia, gli illustrissimi e reverendissimi sostenitori dell’ideologia gender, che fabbricano i dispositivi necessari per diffonderla e realizzarla, siano proprio gli stessi che costruiscono i Manuali di Diagnosi Psichiatrica attraverso cui il disagio mentale viene etichettato e controllato in modo funzionale agli attuali assetti di potere.
Parlare oggi di comunità di cura e di psicologia politica significa dunque ribellarsi ad un destino comune, cercando una indispensabile alleanza tra persone consapevoli, disposte a mettersi in gioco. Questo è, in effetti, l’obiettivo di questo incontro, che speriamo contribuisca a generare altre esperienze di confronto e nuove pratiche di cura.