Prosegue il dibattito sul perché la fede cristiana in Italia ha difficoltà a fare cultura 1/ Rocelli, direttrice del Festival Biblico di Vicenza: «Per creare mondi servono visione, competenze e studio». Un’intervista di Gianni Santamaria 2/ Riccardi: «Soltanto una fede pensata può risvegliare la passione». Un’intervista di Gianni Santamaria

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 09 /09 /2024 - 15:54 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire un’intervista di Gianni Santamaria, pubblicato il 22/7/2024, all’interno dei ben più numerosi interventi apparsi su Avvenire e in continuo accrescimento sulla questione del perché la fede oggi in Italia ha difficoltà a fare cultura. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Annuncio del vangelo (kerygma, evangelizzazione, primo/secondo annunzio) e Educazione, scuola e cultura; cfr. in particolare i precedenti articoli del dibattito su Avvenire già pubblicati al link Il dibattito su fede e cultura che da febbraio viene proposto dal quotidiano Avvenire. Alcune voci per discutere: Sequeri, Righetto, Petrosino, Possenti, Rondoni, Nembrini.

Il Centro culturale Gli scritti (9/9/2024)


Roberta Rocelli - Festival Biblico

Prosegue il dibattito su cattolicesimo e cultura, avviato da PierAngelo Sequeri e Roberto Righetto. Sono intervenuti Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini, Cosentino, Zanchi, Possenti, Alici, Ornaghi, Rondoni, Esposito, Sabatini, Cacciari, Nembrini, Gabellini, Vigini, Timossi, Colombo, De Simone, Arnone, Bruni, Postorino, Dionigi, Lupo, Pierangeli e Verbaro.

«Siamo in una faglia ormai piuttosto evidente tra un mondo consumato, finito, deteriorato e quella che è un’azione di worlding, cioè di creare mondi. È ciò a cui l’operatore culturale è chiamato con i suoi ospiti. Oggi la capacità immaginativa è non solo una fonte di speranza, ma anche di rigenerazione delle persone e della società». Roberta Rocelli, direttrice generale del Festival Biblico, indica gli ingredienti per costruire un festival, ma in genere uno spazio di proposta culturale efficace: una cornice solida, tanto «fiuto di quello che i tempi ci dicono», delle «mappe culturali e fisiche» con le quali orientarsi. Perché iniziative, anche di successo, soprattutto dopo la pandemia non possono solo vivere sull’onda della partecipazione dell’anno prima. Rocelli si aiuta con la lettura di libri di architettura e urbanistica per calare nello spazio le proposte. La sua riflessione può, dunque, aiutare a “mettere a terra” le tante visioni emerse nel dibattito di queste settimane in un progetto organico. È quello che lei fa di mestiere, essendo una project manager per la cultura che da otto anni cura l’evento nato dall’iniziativa della diocesi di Vicenza e della Società San Paolo e che coinvolge non solo le diocesi del Veneto, ma anche la piemontese Alba, Catania e Genova.

In 20 anni avete coinvolto decine di migliaia di persone.

«Le medie di partecipazione sono state più alte fino al 2020 prima della pandemia. Poi come per tutti gli eventi culturali, la partecipazione è diminuita. E ci siamo anche resi conto che in quello che offrivamo c’era un surplus rispetto ai bisogni delle persone. Se poi si considerava l’offerta culturale complessiva, diventava una bulimia da eventi».

Dunque avete mirato l’offerta...

«Abbiamo puntato sulla profondità, la riflessività e la qualità, evitando di sovrapporre centinaia di avvenimenti. Questo ha portato all’idea di diventare “stagione culturale”. Cioè di rimanere accesi tutto l’anno con format nuovi. Oltre al periodo tipico per noi, che è maggio, con gli appuntamenti dal vivo, abbiamo realizzato due edizioni di podcast, per ragionare con i metodi di oggi sulle Sacre Scritture come uno dei codici che ci aiuta a leggere la contemporaneità. Questo anche in villeggiatura, con un week end “fuori porta”, espressione un po’ vintage, per uscire dalle città che aderiscono al progetto e andare in luoghi sottostimati turisticamente. Infine, le ultime due iniziative di quest’anno».

Quali sono?

«La “Scuola del pensare”, un laboratorio nato per fare formazione attiva al pensiero critico non attraverso lezioni frontali ma attraverso workshop, esercizi e perfino giochi, condotti da un esperto. Perché abbiamo visto che particolarmente in questo periodo il pensiero critico va un po’ in crash. Come cittadini facciamo fatica ad argomentare, a raccogliere informazioni per formaci un’idea. Ma soprattutto non riusciamo a dirimere la questione su quale informazione sia leale e quale sleale. Per cui fare scorta di qualche tecnica di pensiero critico può aiutare».

Soprattutto in tempi in cui l’IA pone sfide inedite al concetto di verità…

«Proprio sull’IA verte la seconda esperienza: il Festival Biblico in versione tech. L’IA è sul tavolo della discussione per mille motivi e noi ci siamo inventati un week end, tra il 9 e il 10 novembre, in cui a dialogare saranno intelligenze umane e intelligenze artificiali. Non tanto per mostrare la bontà, o la pericolosità, dell’una o dell’altra, quanto per dare una fotografia dello stato reale delle cose e così aiutare il pubblico a esercitare, ancora una volta, il proprio pensiero critico».

Questo del Biblico è un modello che può essere esportato anche ad altri ambiti?

«Nel nostro gruppo di lavoro partiamo dall’orizzonte di un “welfare culturale”. Parliamo delle Sacre scritture, ma potrebbe essere un’altra disciplina o questione. Prenderle dal verso della cultura consente alle persone di radunarsi, di confrontarsi, di argomentare con libertà, di sapere che non c’è una risposta giusta o una domanda più opportuna di un’altra. Ma una dimensione è divenuta sempre più importante dalla pandemia in avanti: la salute mentale».

La salute mentale?

«Mediamente non stiamo così bene, siamo affaticati, vulnerabili, un po’ più fragili rispetto al sistema economico-sociale. E abbiamo motivi rilevanti per esserlo. La cultura, come esperienza e anche come consumo, può permettere di prevenire alcune fragilità sulla scorta di una consapevolezza maggiore delle cose. Partecipando a esperienze come il Festival Biblico, o altre, ci si attrezza per capire meglio il mondo e averne un po’ meno paura. Dalla geopolitica a questioni rilevanti di psicologia sociale, che ci dicono come stanno porzioni della società, il format culturale aiuta, perché è uno spazio sufficientemente libero, ospitale e inclusivo».

È possibile valutare queste ricadute sulle persone?

«È difficilissimo. Perché le persone, in generale, oggi funzionano in modalità “mordi e fuggi”, per esperienze che collassano sul presente. Quello che acquisiscono, però, lo possono riapplicare, in termini di reticoli di conoscenza, chissà quando e in tutt’altro contesto, senza nemmeno rendersi conto che ciò viene a galla dall’esperienza fatta, ad esempio, al Festival Biblico. Voglio dire che la ricaduta nelle relazioni, nella famiglia, sul lavoro, può non essere immediata. Non ci sono binari prestabiliti».

Sono anche modi per confrontarsi con chi è portatore di visioni a volte alternative alla fede. Come ha vissuto il confronto?

«Noi diciamo sempre che il Festival è una buona scusa per creare relazioni tra vari mondi. È l’esito di un confronto che avviene prima. E pian piano scopri che non è tra visioni diverse, tra credenti e non credenti, ma tra soggetti che culturalmente operano in una società stratificata, complessa, odiosamente difficile a volte».

Può quindi essere una buona prassi?

«Sì. Per una parrocchia, un ufficio diocesano, una grande diocesi, qualsiasi altra struttura. Ma richiede delle competenze, del tempo e una notevole fatica manageriale».

C’è una certa timidezza, perfino un complesso di inferiorità, dei cattolici nell’approcciarsi alle proposte “laiche”?

«Quello che col tempo mi è diventato chiaro è che più approfondisco una questione e capisco di cosa voglio parlare al mio pubblico, più strutturo un programma serio e autorevole. Di conseguenza non devo temere nessuno e mi confronto alla pari con altre proposte altrettanto serie. Inoltre negli anni abbiamo molto lavorato a costruire una cornice ordinata: nomi chiari, testi chiari, trasparenza nel rintracciare e usare le risorse economiche, una comunicazione nitida. E questo si riflette sulla comprensione da parte del pubblico. Noi operatori della cultura a volte pensiamo a ciò che più ci piace, che vorremmo noi, e ci inganniamo. Soprattutto dopo la pandemia, poi, non dobbiamo affidarci al dato storico della partecipazione, che in pochi mesi può saltare per aria. Piuttosto dobbiamo fiutare i tempi, che sono in continua scadenza. E sono ibridi».

Come comprenderli?

«Un dato della mia esperienza personale. Leggo molti libri di architettura e urbanistica. Perché il dove faccio le cose e il come “metto a terra” l’esperienza fisica influisce su come le persone riescono a vivere il contenuto. Queste “mappe” culturali e fisiche vanno a braccetto e contano più della partecipazione dell’anno prima. Anche se, poi, le ricerche del Censis, quelle dell’Istat o il Libro bianco di Confcommercio sui consumi culturali, uscito pochi giorni fa, sono certamente importanti per noi».

Quali le linee di azione possibili per il futuro?

«Siamo in una faglia ormai piuttosto evidente tra un mondo consumato, finito, deteriorato e quella che è un’azione di worlding, cioè di creare mondi. È ciò a cui l’operatore culturale è chiamato con i suoi ospiti. Oggi la capacità immaginativa è non solo una fonte di speranza ma anche di rigenerazione delle persone e della società. Solo che questa azione va condotta con metodo e va ripetuta molte volte per questi tempi a venire. Perché dobbiamo sperimentare, esercitarci a quello che verrà e che ancora non sappiamo».

2/ Riccardi: «Soltanto una fede pensata può risvegliare la passione». Un’intervista di Gianni Santamaria 

Riprendiamo da Avvenire un’intervista di Gianni Santamaria, pubblicato il 28/7/2024, all’interno dei ben più numerosi interventi apparsi su Avvenire e in continuo accrescimento sulla questione del perché la fede oggi in Italia ha difficoltà a fare cultura. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Annuncio del vangelo (kerygma, evangelizzazione, primo/secondo annunzio) e Educazione, scuola e cultura; cfr. in particolare i precedenti articoli del dibattito su Avvenire già pubblicati al link Il dibattito su fede e cultura che da febbraio viene proposto dal quotidiano Avvenire. Alcune voci per discutere: Sequeri, Righetto, Petrosino, Possenti, Rondoni, Nembrini. Sul rapporto fra la comunità di Sant’Egidio e la cultura anche accademica, con numerosi membri della Comunità che divengono docenti universitari, giornalisti e scrittori, cfr. I 50 anni della comunità di Sant’Egidio: lavorare contemporaneamente nel campo della cultura e nell’incontro con i poveri. La testimonianza di una duplice indicazione importante per tutti, di Giovanni Amico.

Il Centro culturale Gli scritti (9/9/2024)


Andrea Riccardi - Imagoeconomica

Risvegliare fede e passione, senza le quali nessuna vera iniziativa culturale è possibile. E senza le quali ci si può solo limitare a gestire l’esistente di istituzioni benemerite, ma che rischiano di non incidere. È la necessità che sottolinea Andrea Riccardi, storico, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, già ministro e oggi presidente della Società “Dante Alighieri”, ragionando su come «la fede pensata» può interagire con la cultura contemporanea, affinché il cattolicesimo non resti «rannicchiato negli angoli della vita della città».

C’è stata finora una certa timidezza nel rapportarsi con la cultura laica?

«Non si può più ragionare nei termini con cui si ragionava in passato. Ricordo padre Sorge che scriveva di cultura cattolica, cultura laica, cultura comunista. Del resto, erano mondi culturali che funzionavano e avevano la loro proiezione anche nel reclutamento del personale universitario. Oggi penso ci sia un fenomeno mondiale: la deculturazione della religione e dei fenomeni religiosi. La vedo diffusa in quei movimenti neopentecostali ed evangelicali, che sono diventati parte importante del cristianesimo contemporaneo e della sua comunicazione. E che sono assolutamente disinteressati a confrontarsi con i temi della cultura, intesa in termini di storia, futuro, realtà, dibattito, libri. Sono arroccati in una comunicazione tutta di tipo sentimentale».

E i cattolici?

«Questo fenomeno di deculturazione riguarda anche i cattolici. Ma non in maniera così definitiva. Torno sempre a quell’intuizione di Giovanni Paolo II che diceva: “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”. Mi colpisce che questa frase sia stata ripresa a Buenos Aires dal cardinale Bergoglio, il quale non è mai stato un “citatore” di maniera di Wojtyla. Ma su questa intuizione wojtyliana ha insistito molto: la fede che diventa cultura».

A cosa guardare?

«Nella grande storia del cristianesimo abbiamo assistito proprio a questa fede vissuta del popolo di Dio che si è fatta cultura alta e cultura di popolo: rimeditazione della storia, produzione di arte, dibattito con altre forme di pensiero e via dicendo. In questo senso la fragilità dell’espressione odierna della cultura cattolica – non direi della cultura cattolica in sé, che poterebbe sembrare così qualcosa di organico – nasce dalla fragilità della fede vissuta, anzi dalla fragilità delle nostre comunità e dalla rinuncia a dire una parola di rilievo».

Non per niente lei ha di recente scritto un libro che si intitola La Chiesa brucia...

«Sono partito dall’incendio della basilica di Notre Dame proprio per parlare della crisi della Chiesa in Europa. È un fenomeno d’infragilimento su cui si deve riflettere. Inoltre, la fragilità della cultura stessa che - dicevamo - nasce dallo scarso interesse per il mondo, che non si vuole cambiare e con cui non si vuole interloquire. Quando si fa cultura ci si interessa del mondo presente, passato e futuro. Ci si misura con la storia. Naturalmente il cattolicesimo possiede ancora importanti istituzioni culturali, però mi chiedo con quale criterio vengano gestite e come partecipino al flusso di un cristianesimo che si sveglia e si confronta».

Qual è il problema di fondo?

«Secondo me è la passione con cui si vivono la fede e si partecipa alla storia umana. Tale passione genera pensieri lunghi, ma anche confronti e dialoghi intensi. Se non c’è questo, ci sono solo delle istituzioni che funzionano, dei posti da occupare in consigli di amministrazione o a livello apicale. Per questo ci sono sempre cattolici pronti al “servizio”. Se non c’è questo, soprattutto c’è un cattolicesimo rannicchiato negli angoli della vita della città. È inutile esortare i cattolici a fare cultura, se non si suscita questa grande passione. Un testo scritto tanti anni fa dal grande studioso benedettino Jean Leclercq - che secondo me ha ispirato il famoso discorso sulla cultura pronunciato da Benedetto XVI al Collège des Bernardins - parla di “amore delle lettere e desiderio di Dio”. È un testo di grande importanza che riguarda la cultura medievale, e rivela la connessione profonda tra la ricerca di Dio e il fare cultura. Il tema della cultura si lega alla passione con cui le comunità cristiane e i singoli cristiani stanno vivendo la realtà e la ricerca di Dio».

Oggi però non siamo più nel Medioevo di Dante, fatto di un connubio tra teologia e lettere. Oggi domina il connubio tra tecnologia e social. Che porta distanza sociale. Quali luoghi sperimentare per un dialogo?

«Non diamo all’idea di cultura una dimensione organicistica. Questa esigenza di una riflessione culturale è una sfida del pensiero, della ricostruzione della storia. E nasce dal profondo della dinamica della vita e della comunità cristiana. Nasce dal confronto con un mondo complesso e caotico, in cui tutti, nel nostro piccolo, abbiamo l’esigenza di decifrare da dove veniamo e che sta accadendo attorno a noi. Paolo VI nella Popolorum progressio fa un’affermazione importante, che è molto attuale: “Il mondo soffre per mancanza di pensiero”. Qualche anno fa papa Francesco affermò: “Il mondo soffoca per mancanza di dialogo”. C’è bisogno di cultura, dibattito, ricerca, dialogo… Proprio di fronte alle frontiere sconfinate del mondo globale, delle nuove scienze e tecnologie. Paolo VI, in quel testo lanciava un’idea, che non fu raccolta, ma interessante: “Noi convochiamo gli uomini di riflessione e di pensiero, cattolici, cristiani, quelli che onorano Dio, che sono assetati di assoluto, di giustizia e di verità: tutti gli uomini di buona volontà”. Un sogno lontano. Oggi però di fronte a questo mondo dell’io, fragile e fluido, in cui oggi sono una cosa, domani un’altra, come di fronte agli sconfinati orizzonti del mondo, c’è necessità di “una fede pensata”, non un sistema chiuso, ma una bussola di speranza che non tema la mobilità del nostro tempo. È un’espressione densa del mio vecchio amico Pietro Rossano, vescovo, uomo di dialogo con le religioni e grande intellettuale, che proprio parlava di una “fede pensata”. C’è bisogno di pensare la fede e, me lo lasci dire da storico, c’è bisogno di cultura storica. Perché se è vero che non è un dogma che la storia sia magistra vitae, è altrettanto vero che oggi spesso ci aggiriamo nella storia come gattini ciechi, senza sapere cosa sia successo prima, ma anche a quello che sta per succedere. Pensiamo alla guerra e alla riabilitazione della cultura del conflitto. Sta morendo la generazione che ha vissuto la Seconda guerra mondiale, i testimoni della Shoah, ed eccoci davanti a un mondo che sta smarrendo la cultura della pace».

In questo dibattito il latinista Ivano Dionigi ha evocato una latitanza, se non proprio un tradimento alla Julien Benda, degli intellettuali, che vengono meno al loro ruolo di testimoni piuttosto che di notai dell’esistente. Cosa devono riscoprire gli intellettuali, in particolare cattolici?

«Dionigi ha ragione. Secondo me il vero problema è il basso livello di passione delle comunità cristiane. Io ho detto “la Chiesa brucia”, ma forse il problema di oggi è il freddo delle nostre chiese. Perché ogni operazione culturale nasce da una grande passione e diciamo anche dalla grande passione scatenata dalla fede. La cultura è capire, è provare a cambiare, è sapere da dove si viene. E allora il vero problema è risvegliare fede e passione, dalle quali nasce la ricerca».