Stefania, Francesco e quegli incontri che accendono la vita. La donna che mi ha messo al mondo si innamorò di mio padre e decise di lasciare il suo fidanzato. Una “colpa” di cui non si perdonò mai, finché su un letto d'ospedale mi ritrovai a ripararla..., di Maurizio Patriciello

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 09 /09 /2024 - 15:46 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire un articolo di Maurizio Patriciello, pubblicato il 21/8/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educare all’affettività e Vita.

Il Centro culturale Gli scritti (9/9/2024)


Mamma Stefania e papà Raffaele, i genitori di don Maurizio Patriciello.

Continua la rassegna di ritratti di persone che hanno lasciato un’orma di bene nella vita di don Maurizio Patriciello e di cui il parroco di Caivano ha deciso di scrivere su Avvenire.it: non necessariamente volti illustri, ma tutti capaci di donargli una riserva di speranza.

Ce l’aveva sempre raccontato. Era stata, per diversi anni, fidanzata con Francesco; tutto era pronto per le nozze, i documenti, i mobili e i confetti. La vita scorreva serena nel piccolo centro in provincia di Napoli, dove era nata e viveva con la famiglia.

Non aveva grilli per la testa, non aveva mai viaggiato, a scuola era andata solo qualche anno. Lavorava, come quasi tutte le sue amiche, in uno stabilimento tessile a pochi passi da casa. Lo amava o, forse, credeva, aveva creduto, di amarlo. Non lo so.

So solo che quando raccontava la sua storia – e lo faceva senza imbarazzo alcuno - ci teneva a sottolineare che fino a “quella mattina” era convinta di compiere quel passo. “Quella mattina”, quando, per puro caso, incontrò lui, Raffaele. E se ne innamorò perdutamente. Un sentimento, un’emozione, una confusione, una passione che non aveva mai provato prima.

Mio padre - lo dicevano tutti - era veramente bello. Veniva da un paese vicino. Alto, rossiccio, burlone, buffone, forte come una quercia. Giovanissimo, spensierato, allegro. Un foulard rosso sgargiante al collo, inforcava, fischiettando, una vecchia bicicletta. Un dandy in versione povera. Un’apparizione fugace. Poi l’adone scomparve alla velocità del lampo. Il tempo di scatenare un uragano. Un angelo o un demonio?

Stefania, la donna che mi ha messo al mondo, ebbe paura di sé stessa. In un istante, tutte le sue certezze erano volate via. I dubbi - che, forse, chissà, già bussavano alla porta - la sconvolsero. Prepotenti, le portarono via la pace. I preparativi per il matrimonio, intanto, continuavano. Francesco le voleva sinceramente bene. I nonni erano contenti. Il giorno della celebrazione, fissato. L’abito pronto. Con chi si confidò? A chi chiese aiuto? Chi avrebbe potuto capire il tormento del suo cuore? Papà non le aveva detto niente. Era solo apparso, inaspettatamente, “quella mattina” nella sua vita. E gliela aveva scombussolata. I giorni scorrevano veloci.

Fu decisa: «Sto sbagliando tutto. Non voglio, non posso sposarmi». La nonna pensò che fosse impazzita. Chiedeva spiegazioni. Niente da fare, si era chiusa in un mutismo esasperato. D’altronde, che cosa le avrebbe potuto dire se nemmeno lei sapeva interpretare quella tempesta che la devastava? Corse, la nonna, a confessarsi dal caro don Arcangelo. «Chiarastella - le disse il mio antico confratello illuminato - lasciala libera, non intrometterti in queste cose. Se non se la sente, non la costringere. Saresti responsabile della sua infelicità». La buona vecchina si convinse.

Ebbe un coraggio non comune, la mia mamma. Una sera, seduti attorno al tavolo, con la testa bassa, si fece forza e, farfugliando, mise al corrente il fidanzato: «Ciccio, siamo troppo giovani… non me la sento di sposarmi». Imbarazzo. Silenzi. Domande. Monosillabi. Tensione. Ciccio: «Non capisco… è successo qualcosa? Ma va bene lo stesso… non ci sono problemi. Dovrò parlarne a casa… Vuoi che rimandiamo? E a quando?».

Poverino, non aveva capito. O, forse, non voleva capire. Non era questione di tempo. Non si trattava di rimandare il matrimonio a una data da stabilire.

Subentrò l’orgoglio. Il giovanotto riccioluto se ne andò sbattendo la porta. Volò anche qualche parola di offesa che non fu raccolta. Pensò che si sarebbe ravveduta. Attese. Invano.

Raffaele, quel ventenne sconosciuto, senza saperlo, le aveva rapito il cuore. Lo avrebbe rivisto? Sarebbe ritornato a far visita ai suoi parenti? Una cosa, la mamma, ci teneva a sottolineare: non aveva giocato sporco. Raffaele “quella mattina” non le aveva proposto niente. Anzi, forse nemmeno si era accorto di quella ragazza dai lunghi capelli corvini, magra come un chiodo.

Il miracolo accadde. Ritornò. La notò. Le parlò. Se ne innamorò. Si fidanzarono. Il paese era in subbuglio. Lei al settimo cielo. I commenti si sprecarono. Le invidie delle coetanee, lo scandalo degli anziani, l’imbarazzo dei nonni. L’aria era pesante.

Si sposarono. Furono felici. Donarono la vita ai miei fratelli e a me. Per Francesco ebbe sempre e solamente parole di affetto e di comprensione. Fino alla morte si portò dentro un sottile senso di colpa, nella piena consapevolezza di aver fatto la cosa giusta. Sapeva di avergli fatto male e ne soffriva.

S’incontrarono qualche volta. Lei avrebbe voluto salutarlo, parlargli; lui non glielo permise mai. «Ha ragione – diceva – ha ragione. Era tutto pronto. Mi voleva bene, anch’io gli volevo bene, ma - aggiungeva sorniona- l’amore è un’altra cosa». Il giorno delle sue esequie – morì presto la mia mamma - fu visto in un angolo nascosto della piazza fino a quando il carro funebre imboccò la via del camposanto.

Passano gli anni. Ultimo di cinque figli, infermiere, lavoro in ospedale. Dovrò fare il turno di notte. Arrivo. Controllo le consegne. Passo in rassegna le cartelle. Letto numero 5, nuovo ricovero, Francesco Crispino. Il nome è quello. Possibile? Vado a dare una sbirciata. È lui. Lo riconosco, una volta mio fratello me lo ha indicato da lontano.

Voglio parlargli. Ho, nei suoi confronti, un debito da saldare. Quest’uomo mi appartiene. Da sempre sento di volergli bene. Gli gironzolo intorno. Non dorme. Credo che sia nervoso, forse preoccupato per la malattia che lo affligge. Passeggia per il largo corridoio. Va a sedersi su una panchina. Manca poco alla mezzanotte. Gli seggo accanto. Parliamo. Passa il tempo. Sono emozionato, mi viene difficile, ma so di doverlo fare.

Prendo il coraggio a due mani: «Francesco, io vi conosco». «Davvero? E come fate? Come vi chiamate? Di che paese siete, dottore?», «Io sono di Frattaminore. Sono certo che anche voi mi conoscere. Io… io sono il figlio di Stefania». «Stefania? Stefania, chi?» domanda, sgranando gli occhi. Deciso: «Stefania, a nnammurata vost» gli dico, sorridendo e scandendo le parole nella nostra madre lingua. La vostra fidanzata.

Sobbalza. «Io volevo dirvi che mia mamma vi ha sempre stimato… sempre voluto bene. Non ci ha nascosto niente della vostra bella storia d’amore. Tante volte avrebbe voluto parlarvi… io voglio solo dirvi grazie ...». Ascolta, commosso. Sono commosso anch’io. Mi fa una tenerezza immensa, quest’uomo buono che ha tanto amato la mia mamma. Poi inizia a raccontare quel tempo in cui fu felice con lei.

Fino a quando, all’improvviso, non capì più niente. Incredibile, dopo tanti anni, gli stessi ricordi, le stesse emozioni, vissuti, ovviamente, dal lato opposto. Non una virgola di meno. È proprio tardi. Ci salutiamo. Lo abbraccio. Ho l’impressione che aspettasse da sempre questo momento.

Non vedo l’ora di ritornare a lavorare qualche sera dopo. Con passo svelto mi avvicino alla sua stanza. Strano, il letto numero 5 è vuoto. Corro a controllare le cartelle. Alle ore 15, Francesco Crispino è morto.