La pizza. Italiana, sì, ma anche molto semitica. L’etimologia della parola ‘pizza’ ha diviso gli accademici. Nei primi anni duemila, due studiosi hanno avanzato un’ipotesi etimologica che si fonda non solo sulle leggi linguistiche e fonetiche, ma anche sulla storia, la geografia e l’antropologia, di Maria Costanza Boldrini
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Maria Costanza Boldrini scritto per il sito Una parola al giorno (https://unaparolaalgiorno.it/articoli/le-famiglie-delle-parole/la-pizza-italiana-si-ma-anche-molto-semitica-35 ) l’8/6/2020. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (9/9/2024)
La pizza napoletana, patrimonio dell’umanità, simbolo del nostro meraviglioso paese e della nostra tradizione gastronomica in tutto il mondo, caposaldo dell’italianità… o forse no?Per carità, lungi dal voler scalfire il suo status di principessa dello stivale, desideriamo piuttosto portarvi alla scoperta di un’ipotesi etimologica della pizza molto interessante, che è stata sviluppata negli anni 2000 da due studiosi, i professori Mario Alinei ed Ephraim Nissan.
In principio era tedesca, ma forse no.
Negli anni ’70 la stimata filologa Giovanna Princi Braccini pubblicò un articolo in cui avanzava l’ipotesi dell’origine germanica della pizza. La sua dissertazione convinse a tal punto l’ambiente accademico che per decenni si ritenne la quaestio dell’etimologia della pizza un ‘caso chiuso’, fino a che un eminente studioso germanofono, Johannes Kramer, non rimise tutto in discussione.
Kramer affermò che la tesi di un’origine germanica della pizza ignorava a piè pari l’evidenza antropologica ma, soprattutto, geografica: se in Italia esiste la pizza napoletana, ci sono anche delle ricette regionali che hanno avuto minor fama, come la pinza romagnola, la pitta calabra e molte altre varianti sul tema. Inoltre, non va dimenticato che anche al di fuori dell’Italia ci sono vaste zone in cui un nome e un cibo similari, cioè una vivanda a base di pasta lievitata di forma tonda o ovale sono ben diffusi, e tutte queste aree gravitano intorno al Mar Mediterraneo.
La latitudine diminuisce
Da qui prende inizio la tesi di Alinei e Nissan. Sottolineando il fatto che la pizza, per esser considerata il piatto famoso in tutto il mondo, necessita dell’aggettivo ‘napoletana’, essi ricordano che in molte parti d’Italia, come ad esempio Le Marche e il Lazio (in generale il centro), la parola pizza indica meramente una focaccia di pasta salata: “[…] in Italia, quindi, nelle aree dove pizza e varianti significano ‘focaccia’, la pizza è prima di tutto un tipo speciale di pane, e solo secondariamente un piatto principale.”
Alinei e Nissan osservano che ‘versioni’ della pizza mancano sia nel latino classico che nel greco antico. Ma, se si considera dunque la Grecia come blocco di partenza, si riscontra che nel greco moderno esiste la parola pita, anche trascritta come pitta. È una focaccia di pane, di solito la si apre in due e la si farcisce con companatico: carne, verdure etc. I greci la considerano un’eredità lasciata loro dai turchi. Risalendo lungo la catena dei Balcani arriviamo in Albania, dove troviamo la pite, una sorta di focaccia ovale; nella zona serbo-croata, invece, c’è di nuovo la parola pita, solo che stavolta è fatta di pasta fillo e farcita.
Mamma li turchi!
Ma se quindi i greci moderni dicono di dovere la loro pita ai turchi, significa che essa ha origine in Anatolia? In effetti i turchi hanno la pide, e non è peregrino affermare che l’occidente abbia fatto conoscenza di questo pane grazie ai vari döner kebab che si sono diffusi in Europa soprattutto negli anni 2000. L’indagine di Alinei e Nissan, comunque, non si ferma in Turchia, ma continua, espandendo il campo verso le terre vicine, quelle della zona araba levantina, cioè la zona della Siria, del Libano, della Giordania, della Palestina – Israele.
Si osserva che in quella parte di mondo arabo esiste una focaccia chiamata pita, appunto, che è bassa, tondeggiante, bianca ed è un tipo di pane, dunque, un alimento quotidiano. Può esser farcita o usata per raccogliere salse e intingoli, come il famoso hummus, una crema deliziosa a base di ceci, olio d’oliva, succo di limone, sale, erbe e salsa di sesamo, molto apprezzata in tutto il levante ma resa nota a livello internazionale dalla passione, quasi proverbiale, degli israeliani per questo cibo.
La cosa e il nome
Certo, anche altrove, nel mondo arabo, esiste la cosa, ma non ha lo stesso nome; ciò avviene ad esempio in Iraq, ultima terra arabofona prima dell’Iran, culla della lingua farsi. Questo serve a far comprendere quanto sia variegato il panorama linguistico dei paesi arabofoni, ricco di dialetti differenti che affondano le radici anche in lingue presenti sul territorio prima dell’invasione araba: un esempio molto importante è il Nord Africa, il Maghreb, soprattutto il Marocco, dove la componente berbera è preponderante sia nell’etnografia che nella linguistica. Da notare bene che in Nord Africa non esiste tradizionalmente né la cosa (disco di pasta di pane da farcire), né il nome (pita, pitta o varianti).
Il problema della 'p'
C’è però un problema: il fonema /p/ nell’arabo classico non esiste. Come spiegano Alinei e Nissan a proposito della parola pita diffusa nel Levante, infatti “Si tratta […] di un tipo di pane di solito associato col mondo arabo, sebbene, come stiamo per vedere, il termine pita sia fonologicamente estraneo all’arabo classico o letterario. Nel mondo arabo, infatti, il suo nome è percepito dalle persone colte (quelle cioè che hanno studiato l’arabo classico) come prestito lessicale. E questo perché, come è noto ai semitisti, l’allofono [p] è assente dal sistema fonologico dell’arabo classico. Come vedremo, solo nella fonologia semitica nord-occidentale [p] e [f] sono allofoni del fonema /p/.”
Ciò esclude dunque la derivazione della parola pita dall’arabo, ma allora, tenendo conto della geografia, della storia e dell’antropologia, bisognerebbe pensare alle popolazioni semitiche che occupavano la zona ben prima dell’invasione araba e che hanno lasciato un sostrato linguistico non indifferente, perché parlavano l’aramaico e il siriaco (anche conosciuto come aramaico medio). In queste due lingue, guarda guarda, ‘pane’ si dice rispettivamente pitta e pita.
In conclusione, il nome e la cosa hanno DNA semitico nord-occidentale e sono arrivati in Italia tramite il siriaco ed il greco-bizantino durante l’alto medioevo. Ecco spiegata l’assenza della pizza nel greco antico e nel latino classico!
Pasta, pizza e mandolino
La pizza napoletana cotta nel forno a legna, poi, è diventata un cibo apprezzatissimo, specialmente quella Margherita, il classico dei classici, chiamata così, pare, in onore della Regina Margherita, moglie di Umberto I, e che ha i colori della bandiera nazionale: il verde del basilico fresco, il bianco della mozzarella e il rosso del pomodoro. Sebbene la cosa sia dunque simbolo del nostro paese e della cucina partenopea soprattutto, il nome è il pro-pro-pronipote del pane aramaico.
Ed ora, dopo questo viaggio etimologico in compagnia di Alinei e Nissan, vi lasciamo cercare per tutta casa il volantino della pizzeria da asporto più vicina per telefonare e ordinare due belle Margherita per stasera alle otto.