1/ La cultura woke fa bene a rivelare ingiustizie commesse, ma il suo limite è quello di limitarsi a quelle che le fanno comodo, obliando le intolleranze dei propri “alleati di pensiero”. Breve nota de Gli scritti 2/ La cultura woke venata di gnosticismo condanna l’Occidente e sta con Hamas. La definizione dell’attacco del 7 ottobre data da Judith Butler, di Alfonso Lanzieri 3/ Colonialismo e lingua, gli esiti imprevedibili dell’ondata woke, di Raffaele Simone
1/ La cultura woke fa molto bene a rivelare le ingiustizie commesse, ma il suo enorme limite è quello di rivelare solo quelle che le fanno comodo e di diventare per questo ingiusta, intollerante e lesiva. Breve nota de Gli scritti
Riprendiamo sul nostro sito una nota de Gli scritti, pubblicata il 28/7/2024, a presentazione di due articoli tratti da Avvenire sulla cultura woke. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Laicità, ruolo del diritto e dei diritti umani e Filosofia contemporanea.
Il Centro culturale Gli scritti (28/7/2024)
1/ Woke: una questione importante
Woke (participio passato di Wake): svegliato, destato, illuminato, ritto in piedi.
Il termine deriva dal verbo “svegliarsi”, essere desti”, ma anche “drizzarsi in piedi”, cioè scattare contro le ingiustizie pregresse e attuali, contro le discriminazioni operate da culture e uomini fino a quel momento ritenuti rispettabili ed anzi quasi idolatrati. Woke anche da “tenere sotto osservazione” religioni, filosofie, visioni politiche e sociali, psicologie, sociologie, artisti e musicisti, letterati e gente comune, epoche intere della storia, anzi la storia nella sua totalità.
Tutto questo non può che essere accolto in benedizione, perché denunciare il male appartiene alla storia del bene ed è sacrosanto portare alla luce qualsivoglia lesione arrecata in altre epoche – come quella coloniale. È sacrosantoche si condanni chi ha ridotto popoli in schiavitù o ha cancellato culture, che si ponga in luce quando religioni o sistemi sociali laici hanno creato discriminazioni verso donne e omosessuali. È importante che venga posta in luce ogni forma di censura e di oscuramento, così come ogni atteggiamento violento e offensivo del passato e del presente.
Non c’è epoca che non sia tenuta a rileggere ogni volta di nuovo la storia e la cosiddetta “purificazione della memoria” dovrebbe essere atteggiamento costante di tutti e di ogni cultura.
2/ Una condizione di credibilità: che si sia woke verso tutto e tutti
Perché ciò sia onesto - e non discriminante e offensivo della verità e delle minoranze - deve essere però a 360°: solo una vera apertura di sguardo, che non abbia remora alcuna a denunciare le discriminazioni da qualsiasi parte siano venute e vengano, è adeguata e non fuorviante.
Una reale messa in discussione di ogni atteggiamento, senza favoritismi e senza primogeniture, , è necessaria anche per verificare le misure di giudizio e anche le risposte che si adottano. Ammesso e non concesso che una determinata posizione ritenuta discriminatoria comporti l’eliminazione di quell’autore dai testi scolastici e la sua cancellazione della memoria pubblica, ciò dovrebbe avere come controprova che gli stessi “provvedimenti” siano presi verso chiunque abbia avuto atteggiamenti simili, a qualsivoglia cultura, religione o posizione politica sia appartenga.
Il grande limite delle posizioni woke è che, invece, esse sono monotematiche quanto ad autori, gruppi e età storiche perseguite.
Si ponga mente, ad esempio, alle tematiche della conquista, dello schiavismo o dello sfruttamento.
È fondamentale riconoscere che è giusto condannare l’occidente – sia cristiano che laico - per questo. Ma perché si passa sotto silenzio la storia dell’Islam, prima arabo e poi turco? Perché si nasconde che qualsiasi nazione del passato e del presente ha interesse a dominare?
È evidente che si deve condannare ogni imperialismo, prima e dopo il colonialismo. Ma perché si nasconde che esistettero imperi in Africa prima dell’arrivo degli europei nel XVI secolo e che esistettero similmente imperi oppressivi degli Incas, dei Maya e degli Aztechi?
È giustissimo che si condannino - e che lo si faccia con studi adeguati - l’Inquisizione cattolica e le forme repressive della Riforma protestante luterana, calvinista, anglicana e puritana, ma perché tacere delle circa 40.000 condanne a morte per ghigliottina della rivoluzione francese – di cui 16.594 avvenute con “regolare” processo?
Si intende, insomma, cancellare dai libri scolastici la storia cristiana, ma anche la storia islamica, ma anche quella africana, così come la storia degli Incas e degli Aztechi, così come la Rivoluzione francese e l’illuminismo?
O si intende cancellare solo qualcosa e non altro, perché così fa piacere alla cultura woke, che ha i suoi figliocci e i suoi cocchi, o ha nemici che ha paura di combattere solo perché più intolleranti di quelli che abitualmente combatte?
Guai a non condannare l’ateismo o l’illuminismo francese o le grandi religioni o le culture primitive per i loro atteggiamenti violenti e per le guerre da essi provocate: questo è il banco di prova di una vera cultura woke che sia onesta.
Ma si pensi anche a singole personalità storiche che vengono poste in discussione, per certi aspetti giustamente, ma alla fin fine con un giudizio massimalista e semplificatorio: chi non sa che anche Darwin era razzista – si pensi solo ai suoi resoconti sugli uomini della Terra del Fuoco? O che anche Marx e Freud non erano indenni da fortissimi pregiudizi? O che lo sono parimenti artisti di arte contemporanea con le loro opere pagatissime nei Musei? Si intende, dunque, cancellare anche la memoria di Darwin, di Freud, di Marx o di artisti contemporanei notoriamente “immorali” e avidi di compenso? Oppure si adottano due pesi e due misure?
Ma si pensi alla grande questione dello schiavismo che è stato tragicamente cattolico, ma è stato anche protestante, anche islamico, anche africano contro altre tribù africane, è stato nazista, ma anche sovietico e comunista: cosa si intende fare dinanzi a crimini così gravi compiuti da tutti?
Una storiografia critica che avesse il coraggio di essere woke nelle università dinanzi alle guerre di conquiste di altre religioni e di altri ateismi e che intendesse parimenti combattere la mancanza di libertà della donna in culture di ispirazione atea o religiosa diversa da quella cristiana sarebbe veramente urgente, perché permetterebbe di destarsi ad una consapevolezza nuova delle ingiustizie compiute da tutti.
Ma la cultura woke è interessata veramente a discutere delle discriminazioni o intende solo fare politica di parte, tacendo delle discriminazioni - a volte gravissime, millenarie e ancora operanti - che non ha interesse a far emergere? (la discriminazione mondiale delle minoranze cristiane non è mai all’ordine del giorno delle agende woke; cfr. su questo Delle persecuzioni anti-cristiane nel mondo, la più grande, violenta ed estesa fobia che esista, e del buono uso di essa, di Andrea Lonardo).
3/ La pubblicità e i modelli occidentali di riferimento che generano oggi vera discriminazione
La cultura woke sembra poi dimenticare che gli stessi organismi internazionali – dall’ONU alla FAO – adottano politiche occidentaliste sulla sessualità, pretendendo di dettare norme morali e propri convincimenti alle nazioni africane. Un atteggiamento uniformante e occidentalizzante è tipico delle massime istituzioni internazionali che non sono interessate a dare spazio a culture locali per le quali non è concepibile una vita senza figli: quegli organismi vorrebbero, invece, imporre altre visioni sulla natalità e il matrimonio, legando l’assegnazione di aiuti umanitari all’adeguamento di mondi diversi alle visioni occidentali.
Qualsiasi studioso che abbia uno sguardo libero, si accorge che è la globalizzazione con le sue perversioni e non la missionarietà cristiana a discriminare le minoranze. Sono i detentori dei capitali economici - non più solo europei, ma anche arabi, indiani e cinesi a stravolgere le culture. Chi discrimina più di tutti, imponendo regimi globali e visioni universalistiche è la pubblicità. Si intende bandire – quanto potremmo essere d’accordo su questo! – un’intrusione delle grandi multinazionali dei diversi continenti nei diversi contesti culturali che si affacciano sulla scena internazionale?
4/ Un piccolo contributo raccolto da una grande tradizione: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”
Un piccolo contributo potrebbe, infine, essere accolto dalla tradizione cristiana – anche se, accogliendolo, si potrà sottacere che venga da essa, per non essere intolleranti verso altri che non la riconoscono formalmente, anche se ne conoscono bene la verità in materia.
Tale punto di vista – interessantissimo e anzi capitale – consiste precisamente nella consapevolezza che non vi sia essere umano che non abbia commesso peccati. Che non vi sia cultura e religione che non abbia in sé il germe del male. Che non vi sia età, epoca, etnia o intellighenzia di qualsivoglia epoca, che non sia attratta dal potere, che non cerchi di uniformare a sé i diversi, che non cerchi di accedere alle cariche di potere e promuovere i propri discepoli a preferenza degli altri, che non dia spazio a chi ha pensieri difformi dalla propria visione – si pensi solo al mondo della comunicazione e degli spettacoli quanto sarebbe disposti a spendere fondi per spettacoli di impostazioni altre. Chi è woke ha sponsor, ma gli altri?
Un cristiano chiamerebbe tale consapevolezza col nome di “peccato originale”, ma si può anche omettere il nome se tale riferimento disturba.
Si sappia, però, che se si indaga nella vita di ogni uomo e di ogni cultura, tutte le statue dovrebbero cadere, poiché non vi è nessuno che non abbia discriminato altri.
Si sappia che, se si decide di non studiare più i testi di qualsivoglia uomo, epoca e cultura che abbia discriminato, si dovranno cancellare da scuole e università tutti i periodi storici e tutti i filosofi e tutti i sociologi e tutti gli scienziati e tutti gli psicanalisti e tutto il clero e tutto il laicato di qualsivoglia religione, così come tutte le intellighenzie di qualsivoglia ateismo di ogni epoca, compresa l’attuale (cfr. su questo anche Abbattere statue contro il razzismo? Troppo facile e deresponsabilizzante, di Giovanni Amico).
Gesù ebbe a dire, nella sua saggezza, quella sì veramente super partes: “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra”. E tutti se ne andarono.
Quindi, una revisione critica di tutto il passato e il presente deve essere viva anche in questo secolo. Ma attenzione che tale revisione andrà poi condotta anche sullo stesso movimento woke, come sui movimenti ecologisti, LGBTQ+, sull’arte contemporanea e sul giornalismo, con criteri che sappiano vedere con onestà le azioni di ognuno.
5/ Il dualismo manicheo banalizzante e l’attenzione, invece, alla complessità
C’è infine una questione che le abbraccia tutte: quella del dualismo e del moralismo.
La cultura woke, se vorrà essere veramente non discriminante, dovrà superare il dualismo che caratterizza da sempre l’intellighenzia di sinistra e di destra che vede sempre “buoni” contro “cattivi”.
Chi conosce adeguatamente la storia e le scienze sa che chi è “oppresso” spesso è stato, in altre epoche, “oppressore” e che chi oggi “opprime” è stato “oppresso” in passato.
Non è facile ergersi a giudici della correttezza morale altrui, ma, nonostante questo, esistono da sempre gruppi moralisti che pretendono di essere gli unici a poter dare patenti di moralità agli altri – e per ciò stesso attestano l’importanza della morale.
Il dramma del moralismo non consiste nell’introdurre la morale nel giudizio storico – poiché tale fatto è invece positivo.
Il dramma del moralismo consiste, invece, nel dividere troppo semplicisticamente il fronte dei “buoni” e quello dei “cattivi”, dimenticando che passato e presente sono spesso molto più ambigui e contraddittori e che spesso si assommano colpe e meriti opposti. Oggi si evoca giustamente con la parola “complessità” l’analisi di cause diverse e complementari.
Si pensi, solo per fornire un esempio concreto, alla complessa questione israeliano-palestinese, dove proprio di recente, si è assistito all’uccisione di più 1000 civili da parte di Hamas e ad una reazione spropositata con un numero ancora più alto di morti nell’azione israeliana – ma si pensi anche alle cause storiche, dall’occupazione pagana operata dai romani con l’esilio ebraico all’invasione islamica del VII secolo, dalla dominazione turco-islamica durata secoli ai 29 anni di Mandato britannico, dalla guerra subito scatenata dagli arabi di tutti i paesi confinanti all’emergere del popolo palestinese che non esisteva come tale fino agli anni ’60, dalle sinistre europee schierate fino a quegli anni con Israele agli stessi schieramenti oggi posizionati sul fronte opposto.
Chi ha ragione, in un crescendo di violenze che dura da secoli, nei quali ogni parte ha commesso abusi e violenze molto ma molto gravi?
Chi potrebbe dire che qualcuna delle due parti non abbia responsabilità nell’attuale situazione?
Il dualismo moralista di chi sceglie una parte contro un’altra non è storicamente fondato e non aiuta al superamento dei problemi. Solo papa Francesco invita ad una posizione super partes che denunci chiunque usi violenza anche verbale e istilli odio.
Imparare il dialogo, la pazienza, riconoscere le opposte responsabilità e le rinunce che ognuno deve compiere per giungere a passi veri di pace e di non discriminazione sarà il cammino che dovrà percorrere il movimento woke se non vorrà essere ingiusto scegliendo quell’ingiustizia che gli piace di più e che gli fa più comodo e nascondendo l’ingiustizia di quello della propria parte (il grande Chesterton affermava sapientemente che talvolta occuparsi delle minoranze è uno dei modi più efficaci per essere anti-democratici: «Per quanto dicano di essere democratici, i giornali non si occupano che delle minoranze». Breve nota di Andrea Lonardo su di un brano di G.K. Chesterton sul giornalismo e sull’esibizione del male nei media).
Non il dualismo, ma un pensiero complesso che sa stare nella difficile ambivalenza della postmodernità è il compito che il pensiero woke dovrebbe prefiggersi per salvare non solo ciò che è grande del passato, pur nelle sue imperfezioni e colpevolezze, ma anche per saper abitare il presente senza usare mannaie e ghigliottine fisiche e culturali.
2/ La cultura woke venata di gnosticismo condanna l’Occidente e sta con Hamas. Fa discutere la definizione dell’attacco del 7 ottobre come «resistenza armata» data dalla filosofa Judith Butler. Secondo questa lettura, tutta la nostra società è basata su ingiustizie strutturali, di Alfonso Lanzieri
Riprendiamo da Avvenire un articolo di Alfonso Lanzieri, pubblicato l’8/3/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Laicità, ruolo del diritto e dei diritti umani e Filosofia contemporanea.
Il Centro culturale Gli scritti (28/7/2024)
Hanno fatto discutere le parole della filosofa Judith Butler pronunciate domenica scorsa in Francia, durante un incontro pubblico dedicato al conflitto israelo-palestinese. Secondo la famosa intellettuale americana, l’attacco brutale di Hamas a Israele dello scorso 7 ottobre 2023, non sarebbe classificabile né come terrorismo né come antisemitismo, bensì come «un atto di resistenza armata». Per la verità, tale posizione non appare come una novità. Anni fa, presso l’università di Berkeley, Butler si era spinta a dire che «Hamas e Hezbollah sono parte integrante della sinistra globale».
Se per carità ermeneutica possiamo affermare che tali parole potrebbero non costituire ipso facto una giustificazione della violenza, nondimeno una certa indulgenza che esse esprimono verso il terrorismo antisemita deve essere interrogata, anche perché non si tratta di un caso isolato, ma di una voce che rappresenta una tendenza più ampia. Più di un commentatore, infatti, ha osservato la medesima indulgenza in una parte della sinistra radicale: intellettuali, studenti, movimenti femministi e Lgbtq+, in questi mesi, hanno partecipato a manifestazioni alquanto reticenti verso i crimini di Hamas, condite talvolta da slogan perlomeno ambigui.
Questo fenomeno sembra riflettere una sorta di illusione collettiva che induce alcune persone a considerare i terroristi islamici come portatori di liberazione. In tale miraggio, pare essere impigliato quel mondo che, con una certa approssimazione dovuta alla necessaria brevità, indichiamo col termine-ombrello wokeness. Il punto è che, a parere di chi scrive, quanto fin qui descritto non è un momentaneo abbaglio intellettuale, ma la conseguenza di certe premesse culturali.
Col termine woke s’indicava originariamente l’atteggiamento di chi presta attenzione alle ingiustizie sociali, legate principalmente a questioni di genere e di etnia. Il significato poi, nell’elaborazione della sinistra universitaria americana più radicale, si è allargato e articolato fino a divenire una vera e propria visione del mondo. Secondo la prospettiva woke, la società sarebbe interamente costruita su un insieme di privilegi basati sul colore della pelle (bianco), sul sesso (patriarcato), sul luogo di nascita (colonialismo, imperialismo), sull’identità di genere (cisgender). Sia il passato che il presente sarebbero da leggere alla luce di tali ingiustizie strutturali, che abbiamo il compito di rimuovere con un minuzioso e intransigente lavoro di purificazione sociale. Il movimento woke, allora, può essere visto come una sorta di Internazionale degli oppressi, o forse sarebbe meglio dire intersezionale [termine proposto dall’attivista Kimberlé Crenshaw], dal momento che, come tiene a ribadire la dottrina, ogni individuo può entrare in diverse sezioni dell’oppressione - si pensi, ad esempio, a una donna di colore - entro architetture complesse di relazioni di potere.
Le ingiustizie strutturali sarebbero perpetrate anche grazie a ciò che possiamo definire “discorso disciplinare”. Lo stesso soggetto, infatti - come spiega ancora Butler - sarebbe un «effetto del potere», secondo il concetto foucaultiano di soggettivazione, inteso sia come sottomissione sia come costituzione del soggetto. Pertanto, sostiene Butler, non si dà nessuna costruzione del proprio sé, nessuna poíesis, al di fuori di una specifica modalità di assoggettamento, e quindi nessuna costruzione di sé al di fuori delle norme che orchestrano le forme possibili che un soggetto può assumere. Ciò vale pure per il sesso (oltre che per il genere): per l’influente filosofa americana, il sesso è un costrutto ideale che, per così dire, si materializza nel tempo attraverso la ripetizione forzata di norme regolative che passano dai discorsi e dai suoi interdetti. Il richiamo alla coppia concettuale natura-cultura per dirimere la questione, apprendiamo da Butler, è una strategia teoretica insufficiente, perché la stessa distinzione è istituita con un gesto preliminare che non riusciamo a pensare adeguatamente.
Non è nostro scopo discutere l’insieme di queste nozioni nel dettaglio né istituire il registro dei buoni maestri e dei cattivi maestri. Il punto è che nella battaglia delle idee spesso la cosa più importante non sono gli ingredienti ma le dosi. Basta farsi scappare un po’ la mano e l’interpretazione vagamente psicotica del reale è dietro l’angolo. Inforcati gli occhiali giusti, si può vedere all’opera il cosiddetto discorso disciplinare praticamente ovunque (accademia, giornali, libri di storia); il potere, diffuso in una microfisica di relazioni (non possesso di qualcuno, come insegna Foucault), pervade l’intero tessuto sociale e gli ambiti dell’apparato statale coi suoi dispositivi.
Se la ragnatela del potere ci avvolge da parte a parte, nascere significa cadervi dentro. Ma la nascita come caduta, degradazione, è un tipico tema dello gnosticismo. E infatti la filosofia woke è permeata di gnosticismo. Se per lo gnostico il mondo e quanto contiene sono un immenso inganno costruito da un dio maligno, e la missione dell’iniziato consiste nello smascherare la truffa grazie alla conoscenza liberatrice, analogamente per gli odierni “illuminati” dell’universo woke, la società tutta è solo matrice di oppressioni visibili e invisibili: si tratta di risvegliarsi a tale verità. Il filosofo Slavoj Žižek, in Guida perversa all’ideologia, ha sintetizzato bene il sentimento di cui sopra: «Quando indossi gli occhiali, intravedi una dittatura nella democrazia, l’ordine invisibile che sostiene la tua apparente libertà».
Tutto ciò si chiama anticosmismo, vale a dire la convinzione che questo mondo sia cattivo, che nello gnosticismo è accompagnato dall’antisomatismo, cioè la convinzione che il corpo sia cattivo: difatti, sia detto di passaggio, nella produzione di Judith Butler e altre voci simili, fa capolino un certo androginismo escatologico. Chiaramente, per l’universo woke, il cosmo fonte di sofferenza e angoscia per l’anima che vi è precipitata, non è più quello cui pensavano gli ellenisti, ma è rappresentato dal mondo forgiato dalla società occidentale, democratica-liberale, capitalistica, maschiocentrica ecc. È questo il mondo da cui evadere.
In tale preciso punto, a parere di chi scrive, può esserci una pericolosa zona di contatto spirituale tra parte della sinistra radicale e terrorismo fondamentalista, due galassie all’apparenza lontanissime. Tale intersezione è data in alcuni temi gnostici condivisi dalle due galassie: ossessione per purezza personale, spiritualismo, atteggiamento catastrofista, binarismo parossistico (l’universo è il teatro del confronto tra Bene e Male), necessità della rivoluzione per rivelare la corruzione radicale del mondo e instaurare la “società perfetta”. Secondo Laurent Murawiec, ad esempio, i terroristi di matrice islamica possono essere annoverati tra gli eredi dello gnosticismo, almeno per certe caratteristiche che li connotano. Nel suo libro The Mind of Jihad (2008), che all’uscita suscitò grande interesse assieme a critiche, Murawiec ha suggerito proprio che i movimenti escatologici settari tendono a generare comportamenti di natura simile e, in riferimento al terrorismo di matrice islamista, ha parlato di «un composto di culto gnostico, visione tribale, jihad islamica e terrore bolscevico».
Che si condividano o meno le analisi di Murawiec - qui citate come una delle voci di confronto possibile - l’essenziale cui fare attenzione è che per entrambi i fronti si dà il medesimo obiettivo polemico e lo stesso manicheismo: da una parte ci sarebbe il regno del male, rappresentato dalle società occidentali, all’apparenza libere e democratiche, ma in realtà ipocrite perché allestite su un sistema di oppressione sistematica ad intra e ad extra; dall’altra c’è l’Internazionale o Intersezionale degli oppressi, che unisce nella solidarietà vittimaria i soggetti più diversi, contro il cattivo demiurgo occidentale, liberale, ovviamente americano.
Come anticipato, dunque, una certa cedevolezza, quando non vera e propria simpatia, di una parte della sinistra radicale nei confronti della violenza terroristica potrebbe non essere un episodico deragliamento mentale o solo ideologismo veterocomunista, ma il frutto di un vulnus intellettuale più profondo. Sarebbe bene riflettervi, anche alla luce della tendenza fortemente antigiudaica dei più importanti sistemi gnostici e che, guarda caso, sembra palesarsi oggi con preoccupanti rigurgiti. Tutto ciò, giova chiarirlo, a prescindere dalle legittime critiche, anche molto dure, che si possono muovere all’azione del governo israeliano nel conflitto in corso a Gaza.
3/ Colonialismo e lingua, gli esiti imprevedibili dell’ondata woke. Da noi è arrivata per i femminili di professione e schwa. Diffusa in Francia, porta con sé istanze giuste e paradossi: autocensura preventiva e discriminazioni in nome della loro abolizione, di Raffaele Simone
Riprendiamo da Avvenire un articolo di Raffaele Simone, pubblicato 22/3/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Laicità, ruolo del diritto e dei diritti umani e Filosofia contemporanea.
Il Centro culturale Gli scritti (28/7/2024)
Una maschera della cultura Chokwe (Congo contenuto nella sezione “Persona. Masks of Africa” dell’Africa Museum di Bruxelles - Africa Museum di Bruxelles
L’abbiamo vista arrivare senza troppo farci caso, quando cominciammo a dire “operatore ecologico” invece di “spazzino”, “collaboratrice domestica” (o “colf”) invece di “donna di servizio” e simili. Siccome nei vecchi termini si avvertiva qualcosa di offensivo, tutti ci arrendemmo alle nuove forme, anche quelle un po’ bizzarre (come “collaboratore scolastico” al posto del classico “bidello”). La chiamavano politically correct.
Quelle sostituzioni lessicali apparentemente innocue erano in realtà il preannuncio silenzioso di un movimento che stava prendendo corpo negli Usa e che negli ultimi dieci o quindici anni, dopo aver dilagato nel Paese d’origine, si è propagato rapidamente in Francia e ha toccato le amate sponde.
Sto parlando della cultura woke, un intricato complesso di teorizzazioni e di pratiche elaborato dapprima dal movimento Black Live Matter, poi ripreso e sviluppato nei campus Usa, soprattutto nelle costose università dell’Ivy League (ne ha dato un’efficace sintesi Alfonso Lanzieri su Avvenire dell’8 marzo.)
Partito dall’idea di “risvegliare” gli afroamericani (woke vuol dire “sveglio, che tiene gli occhi aperti”) per spingerli a rivendicare i loro diritti, questo “pensiero” ha risucchiato via via un’amplissima rete di temi apparentemente slegati, in quanto incorporano elementi di discriminazione e violenza: genere, razza, colonialismo, diversi di ogni tipo, sessualità, migrazioni, minoranze, stereotipi, linguaggio, fede, educazione e cultura, arti, cinema, letteratura, aspetto fisico, alimentazione e così via.
Il movimento woke ha trovato i suoi leader e i suoi testi fondamentali, soprattutto negli Usa, e ha inevitabilmente finito per investire la sfera politica, dove spinge perché le sue richieste si traducano in norme di legge.
Ha alla base un’elementare tesi di filosofia della storia. Muovendo dall’idea che la Storia non è che l’oppressione che da millenni maggioranze violente esercitano su minoranze indifese, la tipica maggioranza oppressiva è identificata nel maschio bianco e, per estensione, nell’Occidente colonialista, schiavista, razzista e machista.
Lo schema è sintetizzato nella formula, centrale nel pensiero woke, del “privilegio bianco” (alla francese, della blanchité), inteso come peccato originale da snidare e mondare ovunque si trovi, anzitutto “lottando per essere meno bianchi” (formula del leader wokista Usa Ibram X. Kendi).
Ciò dà luogo alla caccia di “puri e impuri”, nella storia e nella vita d’oggi: una volta identificati, gli “impuri” vanno segnati a dito e indotti alla vergogna (da qui la formula name and shame “fa’ i nomi e svergogna”).
Penetrando nei diversi ambiti, il wokismo ha finora prodotto soprattutto cancellazioni e demolizioni, materiali e immateriali, dando forma all’atteggiamento noto come cancel culture.
Negli Usa sono stati espunti dai sillabi universitari testi e autori ritenuti portatori di discriminazioni (dai classici latini e greci, fino a Shakespeare, Mark Twain e tanti altri).
In più paesi sono state abbattute statue di uomini considerati indegni, come documenta Arnaldo Testi nel suo bel libro I fastidi della storia. Quale America raccontano i monumenti (il Mulino). La strage di monumenti si è estesa altrove: a Bristol ha colpito la statua dello schiavista settecentesco Edward Colston, negli Usa decine di effigi di Colombo, in Virginia quella del generale sudista Robert E. Lee, a New York quella di Theodor Roosevelt che, dinanzi al Museo di Storia naturale, cavalcava tronfio tra un nativo e un afroamericano appiedati... (Qualche domanda dovremmo farcela anche in Italia, dove in ogni città c’è un quartiere le cui strade ricordano vittorie-massacro nelle colonie africane, e non poche scuole elementari sono ancora intitolate alla maestra Rosa Maltoni Mussolini, il cui solo merito noto è di aver dato i natali a Benito).
Nelle sue diverse concentrazioni, il pensiero woke è penetrato anche nel mondo del simbolico, toccando ambiti del tutto inattesi. In alcune case editrici anglofone sono spuntati i sensitivity readers, cacciatori di contenuti ed espressioni offensive, senza risparmiare neanche i classici, da Agatha Christie a Roald Dahl a Joanne K. Rowling.
È ormai esplosa ovunque l’enorme questione della “giustizia patrimoniale” (prendo il termine da Bénédicte Savoy nel suo A qui appartient la beauté, uscito da La Découverte), cioè delle richieste di “restituzione” di oggetti d’arte rubati, anche col rischio di svuotare i musei occidentali. Accusati (non ingiustamente) di essersi alimentati per secoli con spoliazioni, ruberie e commerci illeciti, i grandi musei sono infatti messi in discussione alla radice. Il Metropolitan di New York ha corretto l’anno scorso l’impianto di varie sale, perché (ha spiegato il direttore, l’austriaco Max Hollein) «ciò che un tempo era motivo di fierezza, oggi è un marchio d’infamia da cancellare». La cancellazione è stata avviata in modo singolare: nella sezione dell’antichità classica, accanto a una statua arcaica come il Kouros greco (VI secolo a. C.), è stato posto il Mankaaka, idolo congolese ottocentesco, per suggerire affinità profonde.
Nella mostra parigina Miroir du monde, che a fine 2022 presentò i tesori delle raccolte d’arte applicata di Dresda, c’era una sezione sulla “formazione di stereotipi” (lo schiavo nero, il prigioniero sottomesso, la schiava lasciva), in cui con cartelli accanto alle opere il museo prendeva le distanze.
Ma non è facile cancellare la storia, e neanche rimetterla in ordine a forza di damnatio memoriae. La Francia cerca di togliersi d’impaccio ristrutturando lo smisurato Museo delle Colonie di Parigi Vincennes, dedicato nel 1931 alla sua missione “colonizzatrice e civilizzatrice”. Riaperto mesi fa col nome di “Museo dell’immigrazione”, espone oggetti che raccontano più i flussi migratori e i loro costi umani che il processo di colonizzazione da cui derivano. Ma riorganizzare non basta. Il grande edificio porta, incancellabili, un immenso bassorilievo all’esterno e all’interno un grande mosaico che rappresentano con incredibile candore le mille forme di sfruttamento che la Francia ha esercitato sulle risorse naturali e sugli esseri umani in mezzo mondo.
Non per caso è la Francia il paese europeo in cui la cultura woke crea più preoccupazione, diffusa com’è nel mondo accademico e intellettuale.
È lì che è nata la “scrittura inclusiva”, che sostituisce con un complesso sistema di interpunzione il dominante plurale maschile onnicomprensivo (per esempio, les étudiants “gli studenti [e le studentesse]”) e usa forme come professeure (con e finale femminile) e écrivaine (idem) al posto dei tradizionali (in verità grevi e ridicoli) femme professeur e femme écrivain. È lì che è nato il pronome iel, temeraria fusione di il “lui” e elle “lei”, per evitare discriminazioni verso i soggetti non binari.
Le dispute italiane sulle terminazioni dei femminili di professione (“presidente” o “presidenta”? “architetto” o “architetta”?) e sulla finale in schwa per eliminare i maschili plurali onnicomprensivi rifanno a modo loro quelle esperienze.
Se per queste rivendicazioni è facile prevedere breve fortuna, le cose vanno diversamente per altri temi woke.
Uno dei nodi più duri è il pensiero “decoloniale”, che punta a snidare e demolire «le strutture di razza, di genere, dell’eteropatriarcato e di classe […] costitutive e connesse con il capitalismo globale e la modernità occidentale». Prendo la citazione dal voluminoso lavoro di Walter D. Mignolo e Catherine E. Walsh, Decolonialità (appena uscito da Castelvecchi, pagine 400, euro 35,00), che dà un panorama delle pesanti impronte materiali e culturali lasciate dal colonialismo sul pianeta e dei modi per cancellarle.
Sebbene il volume provenga dagli Usa, è ancora la Francia il Paese in cui l’atteggiamento decoloniale è più aggressivo. Non a caso: le ceneri dell’imperialismo sono ancora calde, dalla segregazione delle banlieue alla proibizione del velo islamico, dalle scuole alle strade.
I motivi per riattizzarle non mancano. Mentre Macron, in segno di pace con le minoranze, con una cerimonia di insolita solennità, il 21 febbraio ha portato al Panthéon i resti di Missak Manouchian, eroe armeno della Resistenza caduto 70 anni fa, le atlete francesi non potranno portare il velo nei Giochi Olimpici, «perché la Francia è legata a uno stretto regime di laicità».
Nell’intreccio dei suoi moventi e temi, il wokismo finisce inaspettatamente per saldarsi con l’ondata contro l’Occidente en bloc che muove dalla Russia di Putin e dalla Palestina in fiamme. Incrocio singolare, ma dagli esiti imprevedibili e rischiosi.
In Francia, l’inquietudine si avverte da tutti i lati. Da destra il filosofo Jean-François Braunstein, che vede nel wokismo una fede fanatica (La religion woke è il titolo di un suo libro), teme che, nella ricerca aggressiva della purezza primeva, si possa arrivare (come qualche wokista radicale ha proposto) a “decolonizzare la matematica […] come disciplina troppo astratta e formale” e a mettere i “saperi indigeni” al posto della scienza moderna.
Da sinistra, nel recentissimo Quand il aura vingt ans (Fayard), la politologa Chloé Morin segnala che il wokismo, con le sue interdizioni e censure, è un globale rischio per la democrazia, soprattutto quella “universalista” alla francese.
In Italia, di questo tema sembrano essere in pochi ad accorgersi. Il diffondersi della cultura woke costringe di certo a puntare lo sguardo sulle insopportabili ingiustizie e discriminazioni di cui la storia pullula, nel materiale come nel simbolico, e ha acceso un faro spietato su molti ambiti trascurati.
Ma, in generale, se la ricerca di nuovi equilibri si manifesta come censura, autocensura (anche preventiva), discriminazioni in nome della lotta alla discriminazione e intimidazioni paralizzanti, sarà bene scrutare con cura il moto delle onde e cercar di capire dove possono arrivare.