Due casi di mancata integrazione del femminile: dove servirebbero dei “mediatori culturali” in realtà ci sono dei “traduttori” linguistici. È la difficoltà di valorizzare la donna agli occhi dei giovani migranti. Una nota di Giovanni Amico
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Immigrazione e integrazione.
Il Centro culturale Gli scritti (7/7/2024)
1/ Una maestra elementare racconta che i papà del Bangladesh e del Pakistan musulmani non la salutano nemmeno per strada. Sono abituati dalla loro cultura a non pensare bene di una donna che non sia sposata e che porti abiti all’occidentale.
Mi racconta che la situazione è molto difficile, perché tale atteggiamento è un segno chiaro di una mancata integrazione che potrebbe avere conseguenze.
Per quei papà è come se lei non esistesse e, anzi, chissà cosa essi insegnano ai figli su di lei e sui suoi costumi.
2/ Un’assistente sociale che lavora con adolescenti del Maghreb mi racconta che i “mediatori culturali “arabi che condividono con lei il lavoro – tutti maschi – la disprezzano e parlano male di lei dinanzi ai ragazzi.
Essi, cioè si limitano a tradurre in arabo quanto si dice in italiano, ma non sono sulla strada di una mediazione culturale: conservano cioè il disprezzo per la donna che parla ai maschi da sola e lo incoraggiano negli adolescenti.
Non “mediano” come dovrebbero, cioè non spiegano ai ragazzi che in Italia una donna sul lavoro ha le stesse responsabilità di un maschio e bisogna abituarsi a questo, bensì la osteggiano solo perché è donna.