Consalvi, un cardinale nel diluvio della Rivoluzione e di Napoleone. Escono in edizione completa e attendibile le memorie del cardinale segretario di Stato vaticano dal 1800 al 1823: sguardo disincantato su eventi drammatici, di Gianpaolo Romanato

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 07 /07 /2024 - 23:39 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire un articolo di Gianpaolo Romanato, pubblicato il 3/7/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Rivoluzione francese e L’Ottocento.

Il Centro culturale Gli scritti (7/7/2024)


Ritratto del cardinale Consalvi di Thomas Lawrence del 1819 - WikiCommons

Grazie al meticoloso lavoro di Roberto Regoli possiamo leggere finalmente in edizione attendibile e completa le Memorie (Il Prato, pagine 456, euro 38,00) del cardinale Ercole Consalvi, che fu segretario di Stato vaticano dal 1800 al 1806 e poi dal 1814 al 1823, negli anni più drammatici dello Stato pontificio, quelli della soppressione ad opera dei francesi e di Napoleone, e poi della Restaurazione dopo il congresso di Vienna

Tipica figura della Chiesa d’antico regime, Consalvi capisce che gli eventi rivoluzionari francesi hanno cambiato la storia e che a questi cambiamenti bisogna adeguarsi, mutando rotta, rinnovando il metodo di governo, adeguandosi al nuovo che sta nascendo. È un uomo del passato, ma capace di vedere lucidamente il futuro e la linea che occorreva adottare. Non è né nostalgico dei tempi che furono, né entusiasta di quelli che verranno.

È un indefesso lavoratore, un realista che valuta i mezzi disponibili sui fini da raggiungere e opera di conseguenza. Vale la pena di ricordare una sua frase, tante volte ripetuta: «La rivoluzione ha fatto nel politico e nel morale quello che fece il diluvio nel fisico, cambiando del tutto la faccia della terra».

E se era cambiata la faccia della terra, doveva cambiare la Chiesa che ci viveva, il suo modo di rapportarsi col mondo. Il tanto discusso concordato con Napoleone del 1801 nascerà da questa disincantata e realistica considerazione.

Nato a Roma nel 1757, Consalvi veniva da origini modeste, ma autorevoli protezioni gli garantirono un’ottima educazione e un brillante curriculum di studi, sufficiente ad assicuragli una posizione sicura nella carriera politico-amministrativa dello Stato pontificio. Aveva attitudini politiche più che ecclesiastiche, e infatti non prese mai gli ordini maggiori.

Fino alla fine dello Stato pontificio, e in qualche caso anche oltre, il mondo romano era pieno di queste figure, che a noi oggi appaiono strane e poco comprensibili: ecclesiastici senza essere sacerdoti, cardinali senza essere vescovi, uomini di Cesare più che di Dio. Ma tutta la documentazione e le testimonianze di cui disponiamo segnalano che era uomo serio, onesto, scrupoloso nell’adempimento dei suoi obblighi, illimitatamente fedele ai suoi doveri, alla figura dei pontefici e all’istituzione vaticana.

Questo gli permise di salire rapidamente la scala gerarchica fino alle posizioni più elevate, ma mantenendo sempre un tratto di autonomia e di distacco dalle vicende e dalle persone, una singolare libertà di giudizio - di cui queste memorie sono la miglior prova - su tutta la macchina amministrativa papale.

Di questa macchina, e del personale che la gestiva, non aveva un elevato concetto. Lo si ricava leggendo i continui riferimenti allo stile che si impose in tutta la sua carriera: non cercare le promozioni, non adulare nessuno per ottenerle, non accettare mai regali e favori, che inevitabilmente legano chi li riceve a chi li offre, non favorire parenti e amici, avere sempre di mira che chi amministra la cosa pubblica deve servirla e non servirsene.

Questa voluta insistenza fa pensare che nel piccolo mondo ecclesiastico vigesse invece una prassi opposta, fatta di clientele, favori, regalie, untuosità, favoritismi. Più brutalmente: di corruzione.

Addirittura tranchant il giudizio che scrive in una lettera del 1796, quando non era ancora al vertice della piramide vaticana: «Essi [il personale curiale] non hanno mai fatto 3 miglia più in là di Pontemolle [il Ponte Milvio], non hanno altre idee né altre nozioni che quelle che si racchiudono fra le nostre mura; non conoscono altro mondo che questo, e credono che tutto il mondo stia qui, e tutti pensino e vedano le cose come essi le vedono. Questo male è irrimediabile. Il papa solo è al caso di intendere bene queste verità. Ma nondimeno la sua età avanzata, il sistema adottato, o fattogli adottare, di non voler più la responsabilità e di lasciar fare alle congregazioni nelle materie di tal natura, rendono vane le speranze anche per la sua parte».

Neppure la figura del papa si salva da questa sconsolante valutazione dell’amministrazione papale. Chi la guidò per più di vent’anni la considerava una congrega di incapaci.

Viene in mente l’analogo giudizio, sia pure ingentilito dall’ironia, con cui Domenico Tardini, uno dei più autorevoli successori di Consalvi, ridimensionò la diplomazia pontificia. A chi gli faceva rilevare che era la migliore diplomazia del mondo rispose con un sorriso amaro: «Davvero? Figuriamoci allora in che stato devono essere le altre!».

È difficile per noi valutare la figura di Consalvi, come sospesa tra il vecchio che tramontava e il nuovo che irrompeva. Egli vedeva nella Chiesa essenzialmente un’istituzione politico-diplomatica, la cui forza derivava dall’essere Stato fra Stati. Senza la forza politica che le veniva dal possesso di un territorio, la Chiesa non avrebbe potuto esercitare neppure la sua forza spirituale. Di qui l’energia e gli sforzi che pose per ripristinare, dopo le due successive demolizioni dello Stato pontificio operate dai francesi, l’integrità territoriale dei vecchi possedimenti.

A questa convinzione - che cioè la libertà del Papato fosse necessariamente connessa a una qualche forma di possesso territoriale – la Santa Sede rimase tenacemente legata fino al 1870, e anche oltre. Solo con l’elezione di Pio X - ma ciò avverrà un secolo dopo, nel 1903 - questa convinzione si attenuò e prevalse l’idea che la compattezza dottrinale fosse più importante del possesso territoriale.

Di qui anche la fine, dopo l’estinzione dello Stato, delle figure, come appunto Consalvi, di ecclesiastici che giungevano al cardinalato senza essere sacerdoti. Ma dobbiamo riconoscere a quest’uomo raffinato nei modi e fermissimo sui principi, pur lontano dalla nostra sensibilità, il merito di avere salvato la Chiesa dal rischio incombente dell’estinzione.

Il gran momento per Consalvi si presentò nell’Abbazia di San Giorgio Maggiore di Venezia nell’anno 1800, quando le circostanze legate alle vicende rivoluzionarie lo obbligarono a svolgere qui, sotto l’interessata protezione asburgica, il conclave convocato per dare un successore a Pio VI. Fu l’unico conclave dell’età moderna che ebbe luogo fuori dagli Stati pontifici.

Eletto segretario del conclave dai pochi cardinali presenti (34 su 46), toccò a lui sbrigare i complicati adempimenti formali del momento. La sua descrizione dell’assise, che si prolungò per più di tre mesi, è impietosa: molti interessi, molte ambizioni, pesanti pressioni esterne, poca spiritualità. Scrive: «In conclave si formano partiti a causa della passione smoderata dell’amor proprio».

Alla fine, l’elezione di Barnaba Chiaramonti, che divenne Pio VII, fu una soluzione di compromesso per uscire dal gioco dei veti e controveti. Quale ruolo abbia avuto Consalvi nell’elezione non è del tutto chiaro, ma la scelta del nuovo papa di nominarlo segretario di Stato ed elevarlo al cardinalato conferma che fu, se non il perno, certo un accorto protagonista della soluzione.

Accorto anche nel rifiutare ogni vantaggio personale: «Non posso negare che potevo farmi d’oro in quella circostanza, se avessi voluto». Cominciò allora, a 43 anni, la grande carriera di Consalvi, che lo portò a brillare non solo nelle vicende ecclesiastiche ma anche nella grande storia europea. 

Concluse il concordato con Napoleone, resistette con fermezza e grande dignità alla prigionia, alle lusinghe e alle minacce dell’Imperatore, uscì vincente dal congresso di Vienna, riuscendo a ripristinare quasi per intero lo Stato pontificio secondo i vecchi confini, riformò e ammodernò l’amministrazione, anche se non gli riuscì che in minima parte la grande impresa dei codici sul modello francese, riforma che il concerto europeo riteneva indispensabile.

Tutto questo dovendo tenere sempre a bada il partito degli zelanti, i prelati reazionari che avrebbero voluto combattere col mondo intero per riportare indietro l’orologio della storia.

Si deve a lui insomma la creazione della figura del moderno segretario di Stato dei pontefici, il primo ministro vaticano, che da Rampolla a Gasparri a Casaroli ha improntato due secoli di storia della Santa Sede.