Marx può aspettare, di Marco Bellocchio. “L’impegno sociale non è sufficiente a vivere”, nella dichiarazione cinematografica del regista piacentino. Recensione di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 07 /07 /2024 - 23:48 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Cultura e Media e Cinema.

Il Centro culturale Gli scritti (7/7/2024)

Lo struggente film autobiografico Marx può aspettare (2021) narra la storia del fratello gemello di Marco Bellocchio, Camillo, e del suo suicidio.

Con un coraggio ed uno stile di verità inusuali, Marco Bellocchio ripete più volte: “Non mi ricordo”. Sono molte le volte in cui nel film qualcuno dei testimoni, degli altri fratelli o dei diversi vicini, chiamati a dire la loro, lascia emergere particolari, come la lettera scritta da Camillo prima di uccidersi, dinanzi ai quali egli ha il coraggio di ammettere di non ricordare: “quella lettera non ricordo di averla letta, né vista” – mentre egli dovette averne avuto conoscenza.

Camillo è vissuto e morto mentre tutti erano giustamente impegnati nelle proprie vite e avevano poco tempo da dedicargli. In fondo è ciò che avviene in ogni famiglia, in ogni amicizia, in ogni rapporto lavorativo, nei quali ci si accorge a volte troppo tardi che qualcuno avrebbe meritato maggiore attenzione per il dolore che portava e a cui accennava senza esagerarne, in apparenza, la presenza.

Tutti ripetono, giustamente, che non è questa disattenzione il motivo della morte di Camillo, ma pure emerge un senso diffuso di dispiacere, di riconoscimento che ognuno avrebbe potuto essere più vicino.

Sulla scena più volte appare la fede cattolica, soprattutto quella troppo bigotta della madre, che sopravvive nelle due sorelle, che ancora cercano di negare l’evidenza.

Ma sconvolgenti nella loro verità sono le ammissioni del regista sull’insufficienza della dimensione sociale e politica che non è in grado di colmare di senso un’esistenza, né la propria, né quella degli altri che si vorrebbero salvare.

Lo ricorda proprio il titolo del film “Marx può aspettare” che riprende un’espressione pronunciata dal suicida poco tempo prima della morte.

La dimensione militante passata emerge più volte nel film, ad esempio quando parla un altro dei fratelli, Piergiorgio Bellocchio, fondatore nel 1962 dei Quaderni piacentini - i Quaderni piacentini ereditano da Franco Fortini “la vocazione alla minoranza, la tendenza all’eresia e l’inscindibilità del nesso politica-cultura”[1].

Ma emerge proprio dinanzi alla realtà drammatica del suicidio. Nel continuo rapporto fra biografia e storia italiana, prima il film evoca il suicidio di Luigi Tenco nel 1967 – il film ricorda che «no, non [si è suicidato] perché è stato escluso, perché è qualcosa di più profondo, condanna tanti di noi che facciamo parte di questo mondo moderno, di oggi, che ci ha preso e non ci lascia più. […] Che questo mi dia infelicità… è un’ingiustizia»[2].

Camillo avvertì moltissimo – ricorda la pellicola di Marco Bellocchio - quando Tenco si ammazzò: «Ha sentito moltissimo la morte di Tenco» e ha avvertito che c’era una sofferenza nel mondo più grande delle ingiustizie determinate dalle diseguaglianze umane, c’era il senso di un fallimento, di un dolore più grande.

Ma è incredibile la sincerità e l’ammissione di verità di Marco Bellocchio quando ricorda della sua consapevolezza che Camillo fosse infelice e riferisce con precisione dell’ultimo dialogo avuto con il fratello, prima di allontanarsi di nuovo da lui a motivo dei lavori cinematografici che lo pressavano.

Bellocchio racconta come dopo La Cina è vicina, si recò nel ’68 a Torino per essere vicino alle lotte operaie. Dichiara in proposito: «Io mi annullai: voglio non essere più un artista borghese».

A tale professione di fede di un tempo seguono nel film le note dell’Internazionale (di Stalin).

E subito l’ammissione: «Camillo nel ’68 – fu l’ultima volta che lo incontrai da vivo - era molto scontento. E allora io, un po’ per liberarmi, un po’ per non affrontare il tema, gli sparai quattro cazzate rivoluzionarie».

“Quattro cazzate rivoluzionarie”! – che ammissione di verità.

Bellocchio prosegue affermando che cercò di convincere il fratello, «dicendo che il riscatto esistenziale era servire il popolo e lottare contro la classe borghese che, in qualche modo, aveva determinato anche la sua infelicità. Nella rivoluzione lui, se avesse aderito a questa idea, avrebbe trovato il suo riscatto esistenziale».

Ed ecco di nuovo l’ammissione, a distanza di tanti anni: «Non ero in grado di capire o non volevo capire che dietro quelle domande [l’insoddisfazione di Camillo] vi fosse una sofferenza profondissima».

Qui Camillo pronunciò l’espressione che diviene poi il titolo del film: «Quando io gli parlai di ottimismo rivoluzionario, lui mi guardò, un po’ ghignando e mi disse: “Marx può aspettare”».

Così il regista rilegge ora quella frase misteriosa. È come se Camillo gli avesse detto: «Bello mio, io ho altre esigenze primarie che non quelle di servire il popolo».

Compare allora in scena la sorella della allora fidanzata di Camillo che dichiara:

«Voi eravate talmente occupati a salvare il mondo, il proletariato, e non vi siete accorti che avevate in famiglia una persona assolutamente fragile».

Subito specifica: «Eravate ragazzi anche voi con dei vostri problemi, per cui non è un je v’accuse. Eravate sintonizzate su delle realtà diverse».

Ecco – ammette la donna e Bellocchio con lei – esistono realtà diverse non riducibili alla dimensione sociale.

Subito si vede in sequenza uno spezzone di un film del regista dove egli aveva già voluto inserire quelle parole evidentemente indimenticabili e profonde che danno da pensare. È di nuovo il parente di un suicida che dice, questa volta da attore e non da parente:

«“Un giorno - pensa che fesso - gli ho detto di leggere Il capitale [di Marx], perché il mondo stava cambiando e lui lo sai cosa mi ha risposto? “Marx può aspettare”».

E la scena prosegue con le battute: «Sto solo dicendo che me ne sono sempre fregato». Al che l’altro gli risponde, mettendo in causa Dio: «Parli del suicidio di Pippo come se fosse dipeso da te, ma chi sei, Dio?».

Il dramma di Camillo viene anche posto in relazione con la vita di Paolo, il primogenito dei Bellocchio, che aveva disturbi psichiatrici molto gravi, aggrediva, diventava, violento, urlava, bestemmiava – con la bestemmia si chiama in causa Dio e la madre lo scongiurava di non farlo e si vede un diverso spezzone di un film del regista nel quale un malato bestemmia con forza.

Si ammette nel film: «Che lui avesse delle angosce pregresse non c’è dubbio». Ed è così che anche Paolo e la sua malattia che si dimostrano inspiegabili ed irriducibili ad una lotta di classe. «Lui [Paolo] era primogenito e doveva stare a casa, presenza fortemente disturbante»: per la mamma «Paolo è stato un lutto» fin dall’inizio.

Camillo era stato messo in camera – per ragioni che nessuno sa spiegare – con Paolo e per anni e anni ne aveva dovuto sopportare gli sfoghi, mentre Marco era stato salvato da tale pena ed aveva vissuto in una camera più tranquilla e certo ne avevano giovato il suo umore e la sua professione.

Ma è la dimensione sociale, è la lotta per i poveri che si dimostra insufficiente a dare senso ad una vita, a lenire la sofferenza indicibile.

Marco Bellocchio inserisce nel film alcuni spezzoni di un’intervista all’amico gesuita Virgilio Fantuzzi che, come scrittore e recensore cinematografico de La Civiltà cattolica e come docente in Gregoriana[3] aveva l’enorme capacità di scorgere nei film più lontani in apparenza dalla fede, dove si ponesse la domanda sul senso dell’esistenza, pur senza enunciarlo e soprattutto senza risolverlo.

In un articolo Loredan ricorda che «il cinema stesso [di Bellocchio] può essere percepito come «una grande confessione laica» del sentire dell’autore. Padre Virgilio Fantuzzi parla della metafora cinema-confessione in un bel colloquio con lo stesso Bellocchio, inserito nel suo precedente film Marx può aspettare (2021). Secondo Fantuzzi, «attraverso lo schermo, come se fosse la grata di un confessionale», è possibile leggere tra le righe di un film la confessione personale del regista-penitente»[4].

Veramente Marx può aspettare è una confessione di Marco Bellocchio, nella quale i suoi “non ricordo” commuovono, perché sono simili a quelli di ognuno di noi, così come commuove la consapevolezza, a distanza di decenni, dell’illusorietà e degli inganni della dichiarazione pronunciata un tempo che l’impegno sociale possa bastare a dare dignità ad una vita, mentre dopo l’evento tragico di un suicidio ci si scontra con il male radicale e si invoca una dolcezza nuova, ancora sconosciuta.



[1] Così E. Zinato, Piergiorgio Bellocchio e i Quaderni piacentini, on-line sul sito La letteratura e noi, pubblicato il 3/8/2022 (https://laletteraturaenoi.it/2022/08/03/piergiorgio-bellocchio-e-i-quaderni-piacentini/).

[2] Nel film Marx può aspettare, si vede Tenco cantare:
«E se ci diranno
Che per rifare il mondo
C'è un mucchio di gente
Da mandare a fondo
Noi che abbiamo troppe volte visto ammazzare
Per poi dire troppo tardi che è stato un errore
Noi risponderemo
Noi risponderemo
No, no, no» - canzone che ricorda come la contrapposizione violenta di una parte o dell’altra tipica di quegli anni produce ulteriore violenza che è altrettanto ingiusta.

[3] Io stesso ne ricordo le lezioni con memoria estremamente grata, per i contenuti e per quel metodo sempre presente di cogliere nelle cose apparentemente più lontane dalla fede in grido silenzioso eppure presente di una mancanza incolmabile.

[4] P. Loredan, “Esterno notte”, di Marco Bellocchio, in “La Civiltà Cattolica”, 2 luglio 2022, Quaderno 4129 (2022), Vol. III, pp. 83–90.