Il dibattito su fede e cultura che da febbraio viene proposto dal quotidiano Avvenire. Alcune voci per discutere: Sequeri, Righetto, Petrosino, Possenti, Rondoni, Nembrini
Riprendiamo sul nostro sito alcuni dei ben più numerosi interventi apparsi su Avvenire e in continuo accrescimento, solo per invogliare a leggerne altri.
Il Centro culturale Gli scritti (9/6/2024)
1/ Uscire dalla nevrosi ecclesiogena: raccontiamo la Chiesa com’è, di Pierangelo Sequeri
Riprendiamo da Avvenire un articolo di Pierangelo Sequeri, pubblicato il 5/2/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Annuncio del vangelo (kerygma, evangelizzazione, primo/secondo annunzio) e Educazione, scuola e cultura.
Il Centro culturale Gli scritti (9/6/2024)
Le due parole [su cui ci soffermiamo] non sono parole, ma formule (latine): ad intra, ad extra.
Niente paura, sono formule facili da decifrare: “dentro e fuori”, “all’interno e all’esterno”. Ma anche, metaforicamente: “tra noi e con gli altri”, oppure “nel pensiero e nell’azione”, o anche “nell’interiorità delle coscienze e nell’espressività dei gesti”.
L’idea è quella di dare un contesto a tutto ciò che la fede cerca quando decide di ritrovare lo sguardo di Dio sull’orizzonte della vita: e non si limita a indottrinare la parola di Dio e a fissare i confini della religione. La “vita comune”, nelle nostre contrade, sa sempre più poco della strepitosa rivelazione che ci è consegnata dalla fede seminata da Gesù.
E la “vita cristiana”, a sua volta, si consegna dolcemente al suo ripiegamento nella pura devozione di gesti e immagini vagamente connesse al mistero cristiano.
Non infierite, però, vi prego, su questo ripiegamento. Che volete che facciano? Gli strumenti – linguistici, liturgici, pastorali, spirituali, culturali – sono quelli che erano a disposizione delle generazioni preconciliari. I preti fanno i preti, i religiosi fanno i religiosi, i fedeli fanno i fedeli. Sono più pochi? Certo. E quindi, sono in affanno a riversare tutti i tesori accumulati in questi decenni da una riflessione teologica incredibilmente più ispirata, da una spiritualità straordinariamente più vitale, da una concezione di Chiesa più comunitaria, da una impostazione della missione più testimoniale.
Questa emozionante ricchezza, però, ha battuto moneta soprattutto per il mercato interno: con esigua capacità di circolazione nel mondo degli scambi con l’esterno.
Dall’esterno ha importato prestiti: spesso troppo spensieratamente apprezzati come valuta pregiata, forme di riconoscimento estemporaneo a sostegno di un’economia sostanzialmente autarchica.
Del tesoro della fede non c’è rendita però: e pochissimo scambio. In ogni caso la fede nel riscatto dell’anima dal nichilismo che se la divora senza troppa fatica, e nella destinazione della vita che deve risorgere da qualche parte, per sempre, rimangono in fondo alla lista.
Molta morale, poca comunità, zero cultura. La novità paradossale di questi anni, a quanto è dato di osservare, sembra proprio il fatto che tutta questa ricchezza, che continua ad assorbire estenuanti energie e a generare puntigliose dialettiche all’interno del mondo ecclesiale, incomincia a diventare persino ingombrante nello spazio stesso della fede.
Che ce ne facciamo di tutta la teologia, la liturgia, la spiritualità che abbiamo accumulato, se parlano soltanto a noi mentre vendiamo le chiese e razioniamo il clero?
La loro esuberanza finisce per generare saturazione e rigetto. E persino demoralizzazione. Le generazioni che arrivano, in ogni caso, non ne sono neppure sfiorate. Lo slancio di una nuova visione, che si innesta nei luoghi in cui di formano i paradigmi dell’umanesimo, come dice papa Francesco, non ne trae forme né forze vitali (neppure ad intra).
Il ripiegamento all’interno della comfort-zone della devozione è comprensibile: sembra l’unico modo di custodire, nel frattempo, la fede che c’è. La natura vistosamente “interna” delle dispute che attualmente impegnano – a torto o a ragione – la riflessione ecclesiastica, anche quando tratta della sua apertura verso “l’esterno”, è quasi plateale.
In questo fervore ecclesiastico – e nella collaterale nevrosi ecclesiogena, diciamo così – quale “riforma” e quale “uscita” diventa immaginabile in linea con il Vangelo di Gesù?
Il punto è se il nostro orizzonte è quello di chiudere la Chiesa su se stessa o aprire il regno di Dio per tutti gli altri: ossia, non solo per noi, e non solo per quelli che diventano come noi.
Ebbene, il fatto è che questo punto di svolta, in realtà, è arrivato. Ed è irreversibile (Fratelli e sorelle, un ultimo sforzo: ci siamo quasi. Se usciamo rapidamente ed efficacemente dalla nevrosi ecclesiogena, si aprono praterie, come si dice).
Il cristianesimo stesso ci ha messo un bel po’ per arrivarci: e ci è arrivato per gradi e passaggi, per prove ed errori. Si può capire. Una religione che apre il destino del mondo che c’è al regno di Dio che viene, senz’altro interesse che questo, è un’esperienza sconosciuta.
La Chiesa stessa è un po’ sconvolta dal charisma della percezione di questa inaudita oikonomia della rivelazione, che riconcilia la vita umana e il destino di Dio. Il vangelo di Gesù apre all’intimità passionale di Dio l’intera creazione e accende la giustizia dell’umana destinazione in tutti coloro che ne desiderano il felice compimento anche per l’altro, senza eccezione di persona.
La fede che Gesù cerca fra gli umani, e alla quale espone il destino di Dio, non è riservata ai preti e ai profeti, ai battezzati e ai salvati. La Chiesa è ancora balbettante su questo, e fatica a trovare le parole per dirlo.
Non sa ancora bene come “dirlo”, ma nel profondo della sua coscienza sa di “saperlo”. Quando troverà piena scioltezza di parola e normale coerenza di pratiche per la cultura di questa rivelazione, non avrà più bisogno di parlare e di affannarsi così tanto per sé stessa.
Una fede che si consegna totalmente a creature imperfette, per rendersi credibile alle creature imperfette, senza pretendere di diventare la misura della perfezione, è un miracolo.
Siamo abbastanza commossi per questa scoperta? Siamo abbastanza fieri del fatto che è toccato a noi il lieto compito di consegnare alla storia la compiuta bellezza di questo svelamento?
Gesù annuncia e fa irrompere il Regno di Dio e lo consegna ai suoi come passione dominante. Non ha un progetto di riforma del tempio per i religiosi, ha un’urgenza di conciliazione con Dio per le case degli umani.
Qui c’è il nostro tesoro, qui deve battere il nostro cuore. Gesù è l’unico salvatore: e non siamo noi. Se riusciamo a restituire incanto ad entrambi i fuochi di questo annuncio, siamo pronti per l‘umanesimo nuovo che ne deve scaturire.
Nelle “seconde file” del cristianesimo che abita il mondo, sono già moltissimi i nostri fratelli e sorelle che vivono con passione – e patiscono con dignità – la persuasione di un Vangelo che ha definitivamente abbattuto per sempre il “muro di divisione”, che separa i destini dell’umano: armando i confini della religione e dell’anti-religione.
Nelle “prime file” non ci arrivano ancora: a rendere evidente per tutti che questo, e non altro, è il cristianesimo.
Quando succederà cambierà il linguaggio, cambierà la forma, cambieranno le pratiche: vedrete. Forse la “sinodalità” arriverà a produrre questo allegro ribaltamento? Vedremo. (Dipende anche da noi).
Nel frattempo prenderei in considerazione due mosse di appoggio. La prima è questa. Come mai la pratica catechistica, liturgica, testimoniale è così povera di narrazione della comunità? I ragazzi imparano – felicemente – la storia di Gesù nella loro iniziazione cristiana. La storia della Chiesa la imparano al liceo, scoprendola come storia delle streghe, delle crociate, e dell’inquisizione.
L’iniziazione alla fede non deve includere la memoria – leale e affettuosa – delle passioni della storia della fede che ci è consegnata? Non è questione di apologetica o agiografia. La domanda è: come ha abitato la comunità umana, dandole forza e speranza, la fede cristiana?
La seconda mossa è quella che cerca di formare “corpi intermedi” fra religione e cultura, creando reti di prossimità – piene di contemplazione e solidarietà, musica e poesia – fra piccole comunità molto lontane, diverse, abbandonate.
Il villaggio della prossimità alla conquista della burocrazia della città. Non siamo le filiali di una multinazionale che leggono circolari ed eseguono disposizioni. L’amore che si consuma all’interno della nostra devota comfort-zone va perduto, anche per noi. Se trova la strada per uscire, ritroverà le sue emozioni anche all’interno. Di questo ad extra dovremo dire, appunto.
2/ Perché i cattolici faticano a rispondere alle sfide culturali? Timidi, impreparati, autoreferenziali, chiusi dentro un immaginario povero: da qui la fatica a essere significativi nelle dinamiche contemporanee, di Roberto Righetto
Riprendiamo da Avvenire un articolo di Roberto Righetto, pubblicato il 9/3/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Annuncio del vangelo (kerygma, evangelizzazione, primo/secondo annunzio) e Educazione, scuola e cultura.
Il Centro culturale Gli scritti (9/6/2024)
«Molta morale, poca comunità, zero cultura»: è questa la sintesi dell’impietosa analisi del cattolicesimo italiano compiuta nei giorni scorsi su Avvenire dal teologo Pierangelo Sequeri. Un intervento lucidissimo che dovrebbe aprire un dibattito sulla scarsa attenzione verso la cultura da parte della Chiesa.
Eppure la necessità di una presenza, senza pensare a formule ormai superate o a schieramenti monolitici, è stata rimarcata anche dal cardinale Zuppi in una recente intervista a Civiltà cattolica. Il presidente della Cei ha rilevato come, nonostante «certe pregiudiziali negative», in generale vi sia «una buona disponibilità al confronto e al dialogo da parte di molti». Ed è certamente vero: si pensi ai passi avanti compiuti negli ultimi decenni per quanto riguarda il dialogo fra credenti e non credenti. Ma Zuppi ha anche onestamente ammesso come oggi l’apporto dei cattolici al mondo della cultura, per quanto «prezioso», faccia «molta fatica a trovare delle modalità espressive», anche a causa di «una certa timidezza davanti ad atteggiamenti a volte aggressivi di una certa cultura dominante». E infine ha invitato a mettere in campo «quella fantasia creativa che sa superare muri e steccati».
Parole che dovrebbero sollecitare i cattolici italiani, e quelli impegnati nel mondo della cultura in particolare, a farsi protagonisti di una forte azione per combattere il grave analfabetismo religioso della nostra epoca. Non ci si può però accontentare di richiamare la secolarizzazione, o quella che i sociologi ormai chiamano la post-post-secolarizzazione, che ha corroso profondamente il tessuto culturale del popolo italiano, ma anche quello dei credenti e dei praticanti.
Durante il periodo della pandemia ad esempio, a parere di chi scrive, la Chiesa italiana si è mostrata spiazzata e timorosa, quasi incapace di accompagnare chi veniva colpito pesantemente dal Covid e di pronunciare parole in grado di lenire la sofferenza dando un senso alla morte; parzialmente la voce del Papa – soprattutto la sera del 20 marzo 2020, in quel momento solitario di preghiera in piazza San Pietro – e il concreto operato di singoli sacerdoti hanno saputo far fronte a questo immenso dolore, parlando finalmente di speranza e resurrezione. Ma l’impressione è che la nostra Chiesa si sia rivelata nel suo complesso inadeguata, in una situazione che da molto tempo peraltro vede quella cattolica come una cultura socialmente insignificante.
Del resto, durante il lockdown c’era chi si lamentava per le chiese vuote non potendo celebrare i riti, ma ora alle messe domenicali i fedeli sono pressoché dimezzati per una crescente disaffezione. Penso a un articolo di un anno fa di Antonio Polito uscito su Sette, il settimanale del Corriere della sera, dopo i funerali di un ragazzo morto in un incidente stradale a Roma, in cui durante l’omelia il parroco non ha parlato della resurrezione. Il cristianesimo ha parole decisive sulla morte e sulla resurrezione, sul senso della vita e sulla vita eterna: perché non le dice più – si chiedeva il giornalista, da laico – in un mondo che sembra non aspettare altro? Ecco, della Chiesa diremmo che c’è questo innanzitutto da salvare, oltre che l’impegno educativo e caritativo, che sono caratteri dominanti ma non possono essere esclusivi.
Ricordo quanto rispondeva lo scrittore americano David Foster Wallace, a chi gli chiedeva da dove venisse il suo interesse verso la Chiesa cattolica: «Mi interessa la religione, solo perché alcune chiese mi sembrano posti dove si può parlare di certe cose. Che senso ha la nostra vita? Crediamo in qualcosa di più grande di noi?».
Se sta qui, credo, la centralità del messaggio cristiano, c’è l’altro punctum dolens da cui siamo partiti: l’importanza della cultura. Per porsi come segno di contraddizione, come lo erano le prime comunità cristiane, oltre al discorso fondamentale della resurrezione dei corpi, occorre accettare due sfide: il primato della cultura – e la riscoperta dell’immenso patrimonio teologico del cristianesimo – e la consapevolezza che l’evangelizzazione oggi si svolge anche attraverso il bello e il buono.
Da parte sua, la scrittrice Flannery O’Connor metteva in guardia da un fenomeno ancor oggi ben presente: non c’è nulla di più lontano dal cristianesimo che l’ottimismo vuoto e il sentimentalismo che affligge tanti cattolici e che nasconde il male nel mondo.
Un esempio? La paccottiglia spirituale che imperversa nelle librerie religiose, oggi come ieri, quegli opuscoli edificanti tutti basati sui buoni sentimenti che edulcorano la realtà. C’è il rischio di una “sottocultura” nel mondo cattolico, per cui si guardano solo quei film o si leggono quei libri che dicono bene del cristianesimo.
Non si può dare torto a quanto rileva il filosofo Jean de Saint-Cheron, dell’Institut Catholique di Parigi, nel saggio polemico ma pieno di humor Les bons chrétiens (da poco tradotto da Lev col titolo Chi crede non è un borghese): «Oggi Palestrina, Van Eyck o Racine sono più ammirati da una microscopica élite che non crede in Dio che dai cattolici. Ma una pagina di Molière, una tela di Van Gogh, una scena di Chaplin tendono più alla verità che i litri di zuppa spiritualizzante cui si abbevera la sottocultura cristiana contemporanea».
Evidentemente, tanta sciatteria culturale diventa contro-testimonianza evangelica. Qualche lieve segnale, è bene dirlo, si è manifestato negli ultimi tempi nel mondo dell’editoria cattolica, come una significativa presenza al Salone del libro di Torino dopo tanti anni di latitanza e la nascita di una nuova casa editrice, Il Pellegrino.
Che la sfida per i credenti oggi sia anche e soprattutto culturale diviene sempre più evidente dinanzi ai nuovi fondamentalismi religiosi, alle forme volgari, violente e disumane del nichilismo contemporaneo che colpisce le donne e i giovani, alle provocazioni della cancel culture, all’invasione della tecnoscienza nella vita quotidiana, allo stravolgimento del concetto di natura, ai rischi connessi all’intelligenza artificiale.
Occorrerebbe perciò che la Chiesa italiana tutta si facesse promotrice di un’iniziativa di largo respiro per superare l’attuale grave stato di stagnazione della cultura cattolica. Con l’avvertenza di evitare personalismi e voci uniche soliste, ma piuttosto cercando un lavoro di rete, di comunione e di alleanze. Senza invidie, gelosie o piccinerie.
Iniziativa tutta da costruire e che può coinvolgere parrocchie e movimenti, centri di animazione culturale e certamente senza ignorare le potenzialità della Rete, come in Francia recentemente è stato fatto con “1000 raisons pour croire”, un sito web da consultare che raccoglie domande e risposte sulla ragionevolezza della fede cristiana, un’opera di evangelizzazione attraverso la diffusione della conoscenza, un approccio multidisciplinare che coinvolge teologia, filosofia, storia, arte e letteratura, un messaggio forte che possa essere ascoltato nello spazio pubblico.
Ma tantissime altre idee possono essere messe in campo, mentre si ha l’impressione che la cultura sia svalutata e che si faccia coincidere l’impegno nel sociale solo con la carità. Eppure, la fede cristiana non si esprime al di fuori della cultura (o delle culture) e c’è bisogno di un nuovo immaginario della fede che attragga i giovani. E senza cultura non è possibile.
Dinanzi alle nuove sfide e provocazioni, il cristianesimo non può certo reagire arroccandosi o pensando di combattere una guerra, anche se culturale. Ma non può rinunciare ad esprimere una cultura, come ha ricordato papa Francesco nel discorso all’Università Cattolica di Budapest il 30 aprile 2023, sollecitando a combattere l’omologazione imperante che dà vita a nuove colonizzazioni ideologiche e al contempo a unire la conoscenza con l’avventura della libertà.
Anche per far fronte alla carenza di figure pubbliche portatrici di un pensiero critico, capaci di scalfire e porre in discussione il sistema di potere economico e tecnocratico che produce nuove disuguaglianze. E questo, ahimé, vale anche in campo cristiano.
3/ Cattolici e cultura. Il filosofo Petrosino: pensare oltre la cultura-ornamento. Non bisogna ridursi a proporre un insieme di dotte e aggiornate citazioni finalizzate semplicemente a confermare un contenuto già dato per indiscutibile, di Silvano Petrosino
Riprendiamo da Avvenire un articolo di Silvano Petrosino, pubblicato il 23/4/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Annuncio del vangelo (kerygma, evangelizzazione, primo/secondo annunzio) e Educazione, scuola e cultura.
Il Centro culturale Gli scritti (9/6/2024)
Da più parti si denuncia una sorta di stanchezza intellettuale nell’universo cristiano, e soprattutto nel mondo cattolico.
È come se non si avesse più voglia di ritornare su temi e questioni che tendono ad essere dati per ovvi (ci sarebbe molto da dire sull’uso ideologico del concetto di “evidenza” in ambiente cattolico: spesso il richiamo all’evidenza si è trasformato in una giustificazione per non riflettere).
Questa pigrizia ha, a mio modesto avviso, due ragioni fondamentali. Da una parte vi è l’ottusa convinzione che i fatti valgano più delle parole; si tratta di quella che propongo di definire l’arroganza del pratico che porta a considerare ogni ri-flessione, ogni pensiero, ogni interrogazione, ogni dubbio, ecc. una perdita di tempo e una fuga nell’astrattezza.
In questo modo gli stessi fatti, senza il soccorso e la forma delle parole, senza il sostegno di un testo che li sorregge e tiene insieme, senza una cultura che li difende e li diffonde, si dissolvono in un’anonima frenesia.
A furia di separare i testimoni dai maestri, continuando ad esaltare la concretezza dei primi e a denunciare l’astrattezza dei secondi, gli stessi testimoni sono diventati muti e irriconoscibili: anche se e quando ci sono, nessuno se ne accorge; magari li si ascolta ma nessuno più parla di loro perché nessuno più è in grado di parlare di loro.
Dall’altra parte vi è la gloriosa tradizione di duemila anni di storia che è quasi diventata un peso, un ostacolo, un inibitore e non un catalizzatore di novità: Cristo sarebbe colui che ha messo fine alla storia e non colui che l’ha riaperta indicando una via diversa da quella imboccata da Adamo.
Come è noto, una tradizione resta in vita solo se di continuo viene interrogata, ripensata, decostruita, sollecitata e perfino criticata, e per far questo bisogna volerla interrogare, ripensare, decostruire, criticare, così come bisogna essere messi nelle condizioni di poterlo fare.
È significativo a tale riguardo che, almeno in campo filosofico, temi come quelli del dono, del perdono, dell’ospitalità, dell’essere padre e dell’essere madre, siano stati affrontati e approfonditi soprattutto da pensatori non proveniente dal campo cattolico e spesso anche del tutto estranei ad una sensibilità religiosa.
Molti sostengono che bisogna uscire da questo torpore, e avere un po’ di coraggio, anche perché il logos biblico e l’esperienza dei credenti – mi scuso se ribadisco questa ovvietà ma sotto la dittatura del politically correct alcuni potrebbero perfino sostenere la necessità di prendere le distanze dal modo di parlare “patriarcale” e di pensare “antropocentrico” delle Sacre Scritture che senza alcun dubbio non sono affatto, per fortuna, “corrette” – hanno molto da insegnare a proposito dell’enigma dell’essere umano.
Tuttavia, un simile risveglio non può avvenire solo attraverso la pratica (nessuno può mettere in dubbio che a tale riguardo, a riguarda dell’agire, il popolo dei credenti non può prendere lezioni da nessuno; per limitarsi alla Chiesa cattolica, le innumerevoli opere di carità da essa messe in atto sono sotto gli occhi di tutti), ma esige anche la teoria, più precisamente esige una ri-flessione che sia in grado di nominare e ri-nominare, di pensare e ri-pensare, le opere che si mettono in atto trasformandole così in gesti culturali: è solo attraverso e grazie alla parola che l’“atto” si trasforma in “gesto”.
Tuttavia, proprio a questo livello, a livello del pensiero, iniziano le difficoltà. In effetti una feconda pratica di pensiero non si inventa da un giorno ad un altro; per pensare, per imparare a parlare e a riflettere, e soprattutto per continuare a farlo con continuità e profitto, è necessario che si realizzino certe condizioni essenziali: bisogna essere sostenuti economicamente (non si riesce a riflettere a stomaco vuoto), è necessario avere tempo (non si riesce a riflettere sotto il ricatto dell’urgenza), è necessario essere liberi (non si riflette quando si è obbligati a farlo, e soprattutto quando si è obbligati a sostenere questa o quest’altra tesi).
Bisogna ribadirlo con forza: la vera cultura non è riducibile ad un insieme di dotte e aggiornate citazioni finalizzate semplicemente a confermare un contenuto di fede già dato per certo e indiscutibile. Il pensare si accompagna sempre con il ri-pensare, e ri-pensando spesso si arriva alla conclusione di dover criticare ciò che alcuni avrebbero invece voluto solo confermare.
Oggi è diventata quasi una moda criticare la gerarchia ecclesiastica ma a me sembra che le difficoltà sottolineate riguardino tutto il mondo dei credenti; tra di essi, molti hanno una concezione “ornamentale” della cultura e non nascondono una sorta di irriducibile diffidenza nei confronti degli uomini di pensiero.
Certo, se si continua a restare chiusi nei bar, compresi quelli di molte parrocchie, se ogni volta che si solleva un interrogativo e si mette in discussione una certa tradizione si viene accusati di relativismo e di disfattismo, allora non resta altro da fare che diffondere quella che giustamente è stata definita «la paccottiglia spirituale che imperversa nelle librerie religiose».
In effetti, spesso anche all’interno della Chiesa si continua a parlare dell’importanza della cultura ma poi – e in questo senza alcun dubbio la gerarchia ecclesiastica ha le sue responsabilità – è come se non ci si credesse veramente, non facendo nulla per realizzare le condizioni favorevoli alla sua nascita e sviluppo.
In una delle sue ultime interviste, a proposito della figura e del ruolo dell’intellettuale, Derrida affermava: «Se ci si vuole interessare agli “intellettuali”, non bisogna limitarsi a chiedere loro dei rapporti inutili, ma è necessario anche leggerli, tenendone conto. Inoltre – sto sognando – qualche volta bisognerebbe pure partecipare ai loro seminari, ascoltando ciò di cui in essi si tratta!».
4/ Possenti: facciamo come Dio, diventiamo uomini. Diventare pienamente umani è un’impresa tanto ardua che Dio ha dovuto darci l’esempio. Il cristianesimo è l’incarnazione del Verbo. La pedagogia divina ci indica questa strada, di Vittorio Possenti
Riprendiamo da Avvenire un articolo di Vittorio Possenti, pubblicato il 5/5/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Annuncio del vangelo (kerygma, evangelizzazione, primo/secondo annunzio) e Educazione, scuola e cultura.
Il Centro culturale Gli scritti (9/6/2024)
Il rapporto tra cattolici e cultura va rilanciato senza timore nella situazione storico-spirituale odierna. Sussiste una certa stanchezza del pensiero cristiano, dovuta a fattori extra e intraecclesiali e al diffuso disorientamento, generato dalla velocità della vicenda contemporanea che non consente pause di riflessione. Sono stati già elencati alcuni tra tali fattori: la scarsa rilevanza della cultura cattolica, l’analfabetismo religioso, l’invasione inarrestabile della tecnoscienza nella vita di tutti i giorni, la difficoltà di reagire all’omologazione diffusa per riscoprire almeno una libertà dai miti e dai pregiudizi che dominano (la commissione che boccia all’unanimità la statua di una madre che allatta insegna molto!).
Non di rado i credenti apprezzano di più le indicazioni “esterne”, accolte frettolosamente come “sacre”, mentre l’annuncio della Rivelazione rimane infecondo. I grandi eventi di massa, i festival dovunque, la spettacolarizzazione dilagante lasciano pochi frutti positivi. Viviamo forzosamente entro un “futurismo” secondo cui non c’è requie nel moto che supera a ogni istante sé stesso, creando un habitat in balia di eventi che ci piovono addosso senza posa. Non in commotione Dominus: ma abbiamo ancora la possibilità di non essere “co-mossi” da ogni vento?
I grandi discorsi di papa Benedetto XVI che hanno segnato un’epoca, rimangono preziosi ma non bastano, se il contatto e la cura spirituale intensa da persona a persona non c’è più, se manca l’evangelizzazione da cuore a cuore.
Già Benedetto aveva dato un segnale decisivo: il cortile dei gentili, «dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa». Tener desta la ricerca di Dio tra agnostici e atei, e affermare il valore della vita umana, che non può non chiamare in causa Dio.
È stato compreso il suo invito, o forse è stato stemperato nella realizzazione di convegni e discorsi? Viviamo in società liberali dove domina la clasa discutidora, come la definiva Donoso Cortés; la discussione infinita raramente tocca la vita.
Il cristianesimo è l’Incarnazione del Verbo. La cultura è la coltivazione del campo umano, e chi meglio del Verbum Caro dà soccorso? L’Incarnazione che penetra nella vita dei singoli e dei popoli, chiede ai credenti una responsabilità per il cielo e parimenti per la terra, per la cittadinanza celeste e per quella terrena. Nella crisi di certezze il pensiero credente, non dando il là ai movimenti della cultura, si trova sempre alla rincorsa. Deve muoversi su un terreno dominato da fattori esterni, imposti dalla potenza del complesso scienza-tecnologia, verso il quale si nutre un eccesso di reverenza.
Una fede che non è pensata e che non ispira l’azione non è una fede autentica. La prospettiva dovrebbe essere quella della fides quaerens intellectum, un tema permanente che si ripresenta a ogni epoca e svolta di civiltà. Non praticare questo ambito manifesta pigrizia e fuga dalla riflessione, oggi più di ieri, perché la storia precipita a valanga e occorre essere presenti. Anche se l’apporto cattolico risulterà modesto, l’essere stati presenti non si potrà mai cancellare.
Nella ricerca tipica della fede deve emergere la carità intellettuale, diversa dalla retorica dei buoni sentimenti. Questa virtù non molto praticata porge rispettosamente il calice del vero come nutrimento della persona.
Nella vita ecclesiale i santi dell’intelligenza sembrano meno onorati dei santi sociali della carità che operano a un livello di maggiore visibilità e concretezza, ma amore agapico e verità non possono che procedere a braccetto: operare la verità nell’agape, e vivere l’agape alla luce del vero.
C’è bisogno di dialogo e di cooperazione intensa tra fedeli laici e chiesa istituzionale, tra uomini e donne nella Chiesa, ma di solo dialogo si può morire, se non si rimette in moto il desiderio.
I singoli e i popoli sono caratterizzati, molto più di quanto riconosciamo, dai loro desideri: la grande responsabilità dei credenti consiste dovunque nel nutrire il desiderio di vita e di bene. Chi lo promuove opera un cambiamento essenziale del vivere, e vale come un testimone indispensabile.
È da meditare un pensiero leopardiano tratto dallo Zibaldone: «Sebbene è spento nel mondo il grande e il bello e il vivo, non ne è spenta in noi l’inclinazione. Se è tolto l’ottenere, non è tolto né è possibile a togliere il desiderare. Non è spento nei giovani l’ardore che li porta a procacciarsi una vita, e a sdegnare la nullità e la monotonia. L’ardor giovanile, cosa naturalissima, universale, importantissima, una volta entrava grandemente nella considerazione degli uomini di stato. Questa materia vivissima, e di sommo peso, ora non entra più nella bilancia dei politici e dei reggitori, ma è considerata appunto come non esistente».
Leopardi prosegue osservando che mentre in antico questa materia giovanile era impiegata e ordinata alle grandi utilità pubbliche, ai suoi tempi invece non era né indirizzata in bene, né impedita nella sua possibilità di deflagrare e creare terremoti e disordini.
E oggi? Un pensiero etico-politico dominato dal contrattualismo esibisce la sua scarsità pedagogica, evidenziando la necessità di educare facendo perno sulle radicali inclinazioni della persona umana. Queste ospitano l’amore per l’eccellenza e per i beni intrinseci rispetto a quelli strumentali, e distolgono dal vuoto libertismo dei singoli.
Nella rettificazione e purificazione del desiderio sta forse il più alto scopo dell’educare. Il desiderio non può essere abolito, ma può essere raddrizzato, purificato e condotto in maniera retta alla sua soddisfazione.
Qui il Verbum Caro, nonostante la nostra abituale storditaggine, fa risuonare l’inaudito e paradossale invito: «Fai come Dio, diventa uomo». Esso entra nella profondità della storia di ognuno, invitando i credenti a non disertare. Diventare uomo è un’impresa tanto ardua che Dio stesso ha dovuto darci l’esempio.
5/ Rondoni: «Togliamo le lenti dell’ideologia». Il poeta: un contributo, forte e vitale, c’è ma non sappiamo vederlo perché lo misuriamo in termini stanchi e lontani dalla vita. La nostra originalità è la fede nella Risurrezione di Cristo, di Davide Rondoni
Riprendiamo da Avvenire un articolo di Davide Rondoni, pubblicato il 12/5/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Annuncio del vangelo (kerygma, evangelizzazione, primo/secondo annunzio) e Educazione, scuola e cultura.
Il Centro culturale Gli scritti (9/6/2024)
Anni fa, su queste colonne, dopo aver visto il terzo film della serie firmata da Gennaro Nunziante per Checco Zalone, scrissi che una commedia così la poteva scrivere solo un cristiano. Gennaro mi scrisse «Finalmente qualcuno se n’è accorto». E diventammo amici.
Pochi anni prima, Roberto Benigni, a pranzo, dopo avermi ringraziato per un mio testo che “usava” nei suoi pubblici e popolarissimi commenti alla Commedia, rispondeva alla mia domanda sul perché facesse con Dante, di fatto, un inno al cristianesimo: «Perché lì c’è la libertà». Recentemente, occupandomi del prossimo VIII centenario della morte di Francesco d’Assisi, non ho trovato uno che mi dicesse “no, non m’interessa”.
Perché parto da questi piccoli fatti personali per una riflessione da poeta sul tema meglio dibattuto da professori, teologi e sociologi in queste settimane? Perché ritengo che non sia in crisi la cultura cristiana, ovvero il contributo originale che essa offre attraverso molti modi dà alla vita delle persone, semmai sono offuscati gli occhiali con cui una certa intellighenzia e un certo clero, anche cattolici, la individuano, misurano e semmai valorizzano.
Intendo dire che in questi anni, e possiamo vedere in prospettiva quasi un secolo dietro di noi, è forse invalsa l’abitudine a misurare il contributo della cosiddetta cultura cattolica in modo un poco asfittico e mortificante per la medesima cultura. In modo moralistico, sociologico e spesso banalmente politico.
Del resto, il nucleo del contributo di una cultura veramente cattolica, la sua originalità, non sta nell’insieme di valori che presuntivamente ne discendono. Non sarebbe cultura ma fissa ideologia. E spesso gli occhiali di cui parlo sono offuscati perché facendo del cristianesimo una ideologia come le altre (o ancella di altre) ne misurano la presenza in termini ideologici e di realizzazioni conseguenti, con un linguaggio stanco e lontano dalla vita.
La nostra originalità sta nel fatto che crediamo nella Risurrezione di Cristo, della Sua e nostra carne, e questo cambia la prospettiva dello sguardo su tutto. Su tutto! In Italia, per restare tra noi, la fede cristiana ha ispirato e visitato grandi operazioni culturali e artistiche e anche popolari.
Si pensi anche al fenomeno della rinascita della musica tradizionale suonata da tanti ragazzi il cui maestro Ambrogio Sparagna è un faro per tanti, opposta alla musica di “plastica” di una società dello spettacolo sempre attenta a esser “democristiana” (e ricca) più che cristiana. Quanto cristianesimo invece in quei racconti, in quei ritmi che cercano la guarigione, in quelle figure! Se lo si sapesse leggere, invece di concentrarsi su convegni polverosi, su editoria in serra, o su scuole cattoliche che invece di esser scuole dei talenti (evangelicamente) sono state nel migliore dei casi scuole serie o per ricchi e basta, sulla enciclopedia atea di Diderot e D’Alembert, su disquisizioni politiche.
Rispetto alle quali occorre anche dire che al governo in Italia ci sono partiti che si dichiarano influenzati dalla cultura cristiana. Ma per me piuttosto conta che tanti artisti importanti e minori stiano lavorando, anche su mio povero input, sulla figura della Sibylla, la profetessa pagana femminile e tellurica inclusa nel grande racconto cristiano. Perché senza di lei, diceva Eliot, e cinquant’anni dopo Pasolini, cioè senza le figure del “sacro”, la terra diviene “desolata” – preda di figli di N.N., aggiungo, figli solo di Numero e Narciso, individualismo calcolabile.
Il senso sacro della vita, a cui tutti gli animi inquieti anelano, si realizza pienamente nella Risurrezione. Come sapevano Manzoni, Ungaretti, Luzi. Occorre avere gli occhiali giusti. Senza l’attenzione sui tanti punti vivi di incrocio tra desiderio del sacro e Risurrezione, la cultura cattolica rischia d’essere clericale e scontata, e semmai affascinata, come si vede, da intellettuali (o politici) che “somigliano” a preti, ma ne sono la malacopia verbale e culturaloide. Senza Risurrezione, senza originalità.
6/ Nembrini: «Porgiamo orecchio al raglio dell’asino di Pinocchio». «Mi auguro che non falliamo anche l’appuntamento con la post-modernità. Viviamo in un tempo che sembra aver dimenticato non solo Dio, ma anche la domanda di Lui. Ma non è così», di Franco Nembrini
Riprendiamo da Avvenire un articolo di Franco Nembrini, pubblicato il 27/5/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Annuncio del vangelo (kerygma, evangelizzazione, primo/secondo annunzio) e Educazione, scuola e cultura.
Il Centro culturale Gli scritti (9/6/2024)
Ho letto con grande interesse l’articolo di Alfonso Berardinelli pubblicato sul “Foglio” del 27 aprile che denuncia l’assenza della Chiesa dalla scena culturale contemporanea riprendendo l’interessante discussione aperta da “Avvenire” con diversi interventi; le sue e le diverse riflessioni, che in gran parte condivido, mi hanno spinto ad andare al fondo della questione: di che cosa parliamo, quando parliamo di “cultura cattolica”? Io, che ho inaspettatamente e immeritatamente ricevuto un “Premio per cultura cattolica”, per che cosa sono stato premiato, in fondo?
La “coscienza del nesso fra il particolare e l’universale”. Vorrei cominciare il mio tentativo di risposta con una provocazione, che poi cercherò di articolare: tutta la mia “cultura cattolica” è quella che ho ricevuto da mio padre e da mia madre, che avevano fatto a malapena le scuole elementari e che non ho mai visto con un libro in mano. Questo per dire, in primo luogo, che nella mia esperienza, e in quel poco che so di storia della Chiesa, la cultura non è anzitutto una questione da intellettuali, un problema di istruzione e di studio.
La cultura cristiana è, come ho imparato dal mio grande maestro, don Luigi Giussani, la “coscienza del nesso fra il particolare e l’universale”. Quante volte gli ho sentito raccontare questo fatto: «Ero sulla strada e mi ero fermato a prendere una ciotola di latte in un cascinale. Mentre stavo parlando, arriva una donna dal campo. Io ero vestito da prete, e da lontano questa donna agitava un’enorme carota e diceva: “Guardi, reverendo, come è grande Dio!”. Io sono rimasto lì, di stucco. E ho detto: questa è una posizione culturale! Questa connessione stabilita tra la banalità di un fatto quotidiano, di un avvenimento assolutamente terra-terra, la carota, e il destino del mondo, questa è una posizione culturale».
A sottolineare che una posizione culturale non è fatta per prima cosa di libri e di studio, ma è un atteggiamento della persona, uno sguardo che cerca e riconosce in ogni aspetto della vita il nesso con ciò che alla vita dà senso.
E questa posizione culturale, a dispetto delle analisi sociologiche, c’è. Io la vedo, l’ho vista in mille occasioni, in Italia e in tante parti del mondo: persone, gruppi, che nella loro vita, magari modesta e semplice, continuano a vivere con questa coscienza del nesso fra il loro particolare e lo scopo ultimo della vita, e costruiscono luoghi di condivisione e di pace, in cui tutti vengono accolti per il loro valore e guardati per il bene che sono e non per il male che magari hanno fatto. E l’umanità di ciascuno rifiorisce.
Una posizione perdente, che poi è stata spazzata via dalla storia. Poi, certo – seconda osservazione – è assolutamente vero che c’è una debolezza della Chiesa nell’esprimere questa ricchezza, nel far sì che queste esperienze trovino voce nel dibattito pubblico.
È una debolezza che viene da lontano, che viene da un certo atteggiamento succube nei confronti della cultura moderna, da una scarsa capacità di comprendere la domanda di senso e di significato che sta dentro a tanti moti della storia moderna che si sono anche opposti alla Chiesa stessa.
Anni fa mi trovai in una sperduta città della Siberia a incontrare un gruppo di preti ortodossi, entusiasti perché il governo russo stava restituendo loro le chiese confiscate al tempo della rivoluzione comunista, e dicevano che si poteva ricominciare dal 1917. Allora io mi permisi di dire loro di non fare l’errore che aveva già fatto la Chiesa cattolica nel 1815, allorché, passata la buriana della Rivoluzione francese e di Napoleone, pensò che si potesse fare la Restaurazione, cioè tornare a una certa immagine della cristianità come se niente fosse successo, con il risultato che la Chiesa non seppe leggere l’esigenza vera che l’esperienza rivoluzionaria portava con sé e si arroccò in difesa di una posizione perdente, che poi è stata spazzata via dalla storia.
Un errore che, a mio parere, si è ripetuto nel ’68 e dintorni, quando c’erano voci – penso a Dario Fo e al suo Mistero buffo, penso a Pasolini, e poi a Giorgio Gaber… - che gridavano un desiderio di significato, che denunciavano il fallimento della modernità, che con la loro arte davano voce al bisogno del cuore umano di un mondo che non riducesse la vita al guadagno e al successo; ma, siccome lo facevano da posizioni che mettevano anche la Chiesa nel novero dei nemici di questa esigenza, tanti li hanno visti come avversari da cui difendersi e non come interlocutori da incontrare.
Il raglio dell’asino di Pinocchio. Perciò – terzo passaggio – mi auguro che non falliamo anche il terzo appuntamento, l’appuntamento con la post-modernità, con la prima epoca «dopo Cristo, senza Cristo», come scriveva Péguy.
È vero, viviamo in un tempo che non solo sembra aver dimenticato Dio, ma sembra anche aver dimenticato la domanda di Lui. Ma non è vero. Il nichilismo di oggi è esso stesso domanda, come ha acutamente colto tra gli altri il professor Costantino Esposito, nei suoi interventi sull’“Osservatore romano” poi raccolti in Il nichilismo del nostro tempo.
Le urla sguaiate, gli atteggiamenti ribelli, la musica rap dei nostri ragazzi sono come il raglio dell’asino di Pinocchio: un grido sgraziato che esprime un bisogno a cui nemmeno loro sanno dare un nome. Perciò hanno bisogno di adulti certi, capaci di ricominciare a educare il loro cuore, a dare parole alla loro domanda.
Certo, per questo occorre una capacità culturale. Ma la capacità culturale non nasce da un’erudizione libresca e nemmeno da un ritorno al passato: nasce dal ritorno all’origine, che è sempre presente. Come ebbe a dire don Giussani all’indomani del referendum sulla legge sull’aborto, nel 1981, quando il settimanale “Il Sabato” titolò «Si ricomincia da 32» (che era la percentuale dei “sì” alla proposta di abrogazione della legge): «no, questo è il momento di ricominciare da Uno», da Cristo presente, dalla riscoperta della fede come un’esperienza di pienezza e di letizia; che permette anche di leggere tutto ciò che accade, le circostanze della vita personale e pubblica, come segno del Destino.
Una fede «pienamente accolta» e «interamente pensata». Certo che siamo chiamati, come ebbe a dire san Giovanni Paolo II, a «rendere di nuovo cultura la fede», perché «una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta».
Ma a me pare che in questo richiamo l’accento non sia sulla cultura, bensì sulla fede: la mancanza di un’autentica cultura cristiana non è un difetto di preparazione intellettuale, è una debolezza della fede. Una fede «pienamente accolta» e «interamente pensata» non può fare a meno di esprimersi in un giudizio appassionato e simpatetico su tutto ciò che incontra, cioè in un’autentica cultura. Riscoprire la fede: questa è la sfida che la debolezza culturale di tanta cristianità lancia a me, alla vita mia, e credo alla vita di tutti noi cristiani.