Gli stemmi nella Cattedrale di Roma. Un percorso dal medioevo a oggi, tra storia, arte e spiritualità, di Antonio Pompili
Riprendiamo sul nostro sito, per gentile concessione, un articolo di don Antonio Pompili, Vicepresidente dell’Istituto Araldico Genealogico Italiano, membro dell’Accademia Internazionale di Genealogia, membro associato dell’Accademia Internazionale di Araldica. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (19/5/2024)
Lo stemma di Bonifacio VIII in basso a destra, nell'affresco
Una chiesa, tanto più se insigne come può esserlo una cattedrale, spesso costituisce uno scrigno d’arte e, tra le varie forme e manifestazioni artistiche, può presentare anche espressioni di quella particolare arte nota come il nome di “araldica”. La stessa disciplina che prende il nome di araldica (dagli “araldi” che nel Medioevo ne furono iniziatori e ne introdussero il linguaggio gergale specifico) studia gli stemmi come segni identificativi realizzati e composti secondo regole e consuetudini proprie, quelle del “blasone”.
La Cattedrale di Roma non poteva non offrirci una grande ricchezza di stemmi, non solo, come può essere da subito evidente, stemmi pontifici e di vari dignitari ecclesiastici, ma anche stemmi di grandi famiglie romane e di storici personaggi che hanno grandemente contribuito al decoro e all’abbellimento della Basilica nel corso dei secoli.
Gli stemmi, nelle loro diverse collocazioni e fatture, sono espressione non solo di possesso o titolarità o patronato (come ad esempio nel caso di stemmi in cappelle di famiglia), o di memoria (come nel caso di monumenti sepolcrali o steli e targhe commemorative), o ancora di committenza (come nel caso di volte o pavimenti fatti restaurare da un prelato o da qualche patrizio). Gli stemmi, in un tempio cristiano, divengono inevitabilmente espressione di devozione e di legame alla Chiesa, e memoria del rapporto proprio e della propria famiglia, con la storia di quel determinato tempio e le manifestazioni della fede e della preghiera che in esso si compiono.
Nel nostro breve itinerario ci proponiamo non già di illustrare tutti gli stemmi presenti nella Basilica, il che richiederebbe un tempo troppo ampio, ma semplicemente di introdurre all’attenzione nei confronti della loro presenza, richiamandone alcuni particolarmente significativi per il loro valore storico, artistico, simbolico e in alcuni casi più specificamente simbolico-teologico e spirituale.
BREVI CENNI SULL’ARALDICA E SPECIALMENTE L’ARALDICA ECCLESIASTICA
L’uso di stemmi da parte di prelati (e in un secondo tempo da parte di enti ecclesiastici) sarà piuttosto tardivo rispetto all’uso che di stemmi fecero inizialmente principi e altri signori in epoca tardomedievale.
Emblemi sono stati utilizzati dall’uomo e dalle corporazioni da egli formate, fin dalla più remota antichità.
Ma nella prima metà del XII secolo, andò imponendosi un nuovo sistema di identificazione attraverso figure e colori caratterizzati in primo luogo dall’essere rappresentati sulla superficie di uno scudo. Da questa provenienza militare delle origini dell’araldica nasce anche il sinonimo di “arma” per definire uno stemma (parola peraltro esclusiva dell’italiano e di derivazione greca; nelle altre lingue si parla di armoiries, coat of arms, escudo de armas…). Questo a motivo delle mutate condizioni sociali e politiche in Europa, che andava riorganizzandosi nelle società feudali, e anche in relazione al modificato equipaggiamento militare, per cui il volto di soldati e cavalieri era coperto dall’elmo che non permetteva di riconoscere compagni o avversari sui campi di battaglia come nei tornei.
Proprio per questa estrazione militaresca dell’araldica i prelati, ai quali le armi sono state sempre interdette, guardarono inizialmente con diffidenza a questo codice comunicativo per immagini e colori, nato fuori dall’ambito della Chiesa, che già da tempo stava sviluppando suoi sistemi identificativi propri (basti pensare agli abiti liturgici e ai loro colori, colori che in buona misura coincidono peraltro a quelli propri dell’araldica…).
I primi ecclesiastici che fecero uso di uno stemma del loro territorio furono signori feudatari (precisamente della Picardia, Francia) che, intorno al primo ventennio del XIII secolo, proprio come già da tempo facevano i loro pari laici, riconobbero l’utilità che l’uso di uno stemma poteva avere nei sigilli e nelle monete che, a motivo delle loro ridotte superfici, potevano vantaggiosamente essere impressi con un piccolo scudo araldico. Ben presto quegli stessi vescovi feudatari cominceranno a utilizzare come proprio emblema quello della loro famiglia.
Per imitazione (movente fondamentale per la diffusione e lo sviluppo delle arti e anche dell’araldica), cominciarono ad adottare un proprio stemma anche altri vescovi e i cardinali. Da principio i prelati utilizzarono solo lo scudo con le loro insegne araldiche di famiglia. Ben presto questo sarà accompagnato da contrassegni che ne indicheranno la dignità ecclesiastica e l’ufficio (la tiara per i pontefici romani; il cappello rosso ornato di fiocchi per i cardinali; i vescovi inizialmente useranno la mitria, poi sostituita da un cappello simile al galero cardinalizio, ma verde; i prelati della curia romana useranno un cappello paonazzo; abati e canonici un cappello nero...).
Chiaramente l’uso araldico nella Chiesa avrà la sua definitiva consacrazione, quando i Papi cominceranno a fare uso di un loro emblema araldico. Uso che tuttora è sotto gli occhi di tutti (basti pensare al drappo con lo stemma pontificio che pende dalla finestra del Palazzo Apostolico quando Papa Francesco recita l’Angelus domenicale).
Per lo più fino alla fine del XVIII secolo, tranne rare eccezioni, saranno chiamati ai più alti gradi della gerarchia degli ecclesiastici provenienti da famiglie di estrazione nobiliare, nelle quali i primogeniti ereditavano il titolo e la maggior parte delle proprietà, mentre ai cadetti rimanevano le possibilità delle carriere ecclesiastiche e militari.
In questo caso lo stemma era già dato: il prelato divenuto vescovo o cardinale, assumeva il proprio stemma famigliare, privava lo scudo degli ornamenti di dignità gentilizia (corone, mantelli, spade, ecc.) e lo timbrava con il contrassegno specifico della sua nuova dignità ecclesiastica.
Se infatti non tutti gli stemmi sono di famiglie nobili, sicuramente tutte le famiglie nobili sono dotate di uno stemma.
Con le mutate condizioni sociali seguite alla fine dell’Ancien Regime cominciarono ad essere promossi sempre più comunemente all’episcopato e alla porpora cardinalizia, anche chierici non provenienti da famiglie nobili e quindi si impose sempre più la necessità della creazione di stemmi ex novo.
Il XIX secolo fu per l’araldica ecclesiastica un periodo di grande decadenza proprio perché ancora non erano ancora tracciate delle linee simboliche e raffigurative che potessero da una parte rifarsi alla consolidata e fruttuosa tradizione compositiva e stilistica dell’araldica famigliare, e dall’altra rispondere alle nuove esigenze comunicative cui dovevano rispondere gli stemmi di prelati ed enti ecclesiastici.
Un deciso risveglio dell’attenzione al buon uso degli stemmi nella Chiesa cattolica si è avuto negli ultimi decenni, in mezzo al perdurare di alcuni schemi stancamente ripetitivi da un lato, e di brutture tanto originali quanto presto abbandonate dall’altro lato. La più recente legislazione da parte della Chiesa riguardo la materia araldica (in una Istruzione della Segreteria di Stato del 1969) ha indirizzato la realizzazione degli stemmi prelatizi nella direzione della semplicità e della leggibilità, in linea con lo spirito più autentico che l’uso araldico ha avuto fin dai suoi inizi.
GLI STEMMI PAPALI
Nell’Arcibasilica Lateranense, sede della Cattedra del Vescovo di Roma, non poteva mancare l’esempio più antico dell’araldica papale. Si tratta dello stemma di Benedetto Caetani, Bonifacio VIII, che – per quanto risulta all’attuale ricerca documentaria – è stato il primo Papa ad utilizzare come emblema proprio e del proprio ministero lo stemma della sua famiglia.
Questo, a parte alcuni stemmi pontifici di attribuzione postuma, di cui alcuni esempi sono presenti anche nell’Arcibasilica (lo stemma che cima il monumento a Sergio IV (+1012) nella navata laterale destra, stemma di fantasia; lo stemma ai lati della porta di ingresso del Museo scolpiti in marmo dei Conti di Segni, timbrato da una tiara con una sola corona alla base, idealmente attribuito a Innocenzo III, che morì prima dell’avvento dell’araldica nella Chiesa).
Lo scudo con le insegne araldiche dei Caetani è rappresentato nel famoso lacerto di affresco di giottesca attribuzione presente nella prima navata laterale destra. Vi è immortalato il Papa rivestito del piviale e con il capo cinto della tiara (ornata ancora di una sola corona alla base), nell’atto di benedire le folle dalla loggia delle benedizioni – da lui fatta riscostruire – in occasione del Giubileo del 1300 da lui indetto (il primo della storia). Dalla balconata pende un drappo ornato con lo scudo araldico dei Caetani (d’oro, alla gemella ondata in banda d’azzurro). Il compimento di un atto rituale così solenne diviene così, nella raffigurazione artistica che lo perpetua nel tempo, una proclamazione della grandezza e del prestigio di cui allora godeva la famiglia da cui proveniva il Papa, noto alla storia per la sua lotta in difesa del potere temporale.
Nella navata centrale, ed esattamente ad ornare lo splendido soffitto ligneo a cassettoni riccamente decorato in oro, troviamo invece i tre più magnificenti stemmi papali, per dimensioni e per imponenza di aspetto, conservati nella Basilica. Curiosamente sono gli stemmi di tre papi che tutti hanno assunto il nome di Pio. Il soffitto fu fatto realizzare a Flaminio Boulanger da Pio IV, su disegno attribuito a Michelangelo (ma anche a Daniele da Volterra o a Pirro Ligorio), Pio V lo fece dorare, e Pio VI lo fece restaurare. Così i tre stemmi pontifici testimoniano le fasi della vita di quel soffitto che per la sua straordinaria bellezza non fu scalfito dagli incisivi interventi del Borromini nella metà del XVII secolo.
Invece non mancò di subire restauri durante quel periodo, ad opera di Pier Sante Ghetti, il pavimento che già era stato rinnovato da Martino V nel 1425 in stile cosmatesco, come testimoniato dalla colonna più volte ricorrente lungo la navata, nota insegna “parlante” della famiglia di Ottone Colonna.
Un tempo si trovava sul pavimento la stessa sepoltura del Pontefice, poi spostata sotto Pio IX, nel 1853, nella zona della confessione, dove ancor oggi si può ammirare la pregevole lastra tombale in bronzo sulla quale l'orefice Simone Ghini realizzò a bassorilievo l'immagine del papa giacente, accompagnata da una duplice riproduzione del suo stemma in squisiti tratti rinascimentali.
In tempi più recenti si adopererà per il restauro del pavimento cosmatesco anche Pio XI, come testimoniato dal suo stemma realizzato in tono con interessante stile rinascimentale.
Mentre sempre sul pavimento, ma nella zona dietro il ciborio, si ritrova ad intarsi marmorei policromi lo stemma di Pio IX, a ricordare gli ulteriori interventi compiuti sotto il suo pontificato. Lo stesso stemma di Papa Mastai Ferretti si ritrova sul paliotto anteriore dell’altare papale (all’interno del quale è conservata la tavola dove la tradizione vuole abbia celebrato Messa San Pietro), inframmezzante gli stemmi di Urbano V (a sinistra) e di Gregorio XII (a destra), papi che prima di lui ne curarono il restauro (sui lati minori dell'altare si trovano invece lo stemma con i gigli di Francia, poiché re Carlo V aveva finanziato insieme a Pietro Belliforte la costruzione del ciborio, e lo stemma del cardinale Guglielmo d'Agrifoglia).
Vale la pena notare che, oltre ai disegni cosmateschi nel pavimento lungo la navata centrale, si può notare la colomba con un ramo d'ulivo nel becco, figura araldica, insieme ai gigli, della famiglia Pamphilj, da cui proveniva Innocenzo X, il quale commissionò i lavori di rifacimento dell’intera Basilica al Borromini.
La stessa colomba orna qua e là le pareti dell’intera navata, come anche i timpani delle 12 “porte” con le statue degli Apostoli, secondo un uso caro all’araldica italiana (e soprattutto romana) di ornare elementi architettonici con figure di estrazione araldica.
Interessante il possibile riferimento di tipo allusivo al nome della famiglia del Pontefice: la colomba recante il ramoscello, ottimo simbolo di pace di estrazione biblica, universalmente noto, potrebbe alludere all’etimologia, pan – filos, amico di tutti.
Infine, davanti al portale della navata centrale notiamo i simboli araldici di Alessandro VII Chigi (la quercia e il monte di 6 cime all’italiana sormontato da una stella a 8 punte), che nella Basilica fece porre i battenti della Curia Iulia.
Lo stesso uso decorativo a partire da insegne di estrazione araldiche, e precisamente da uno stemma papale, lo possiamo notare abbondantemente nel transetto. Si tratta dello stemma di Papa Clemente VIII, della famiglia Aldobrandini. Il suo stemma (d’azzurro, alla banda doppiomerlata accostata da sei stelle di 6 raggi) timbrato dal triregno e dalle chiavi decussate, riprodotto sul soffitto ligneo, è richiamato qua e là su diversi arredi e contesti decorativi.
Così nel braccio sinistro del transetto, su ambo i piedritti della balaustra che circonda l’area dell’altare, scolpite in marmo a bassorilievo compaiono le figure isolate dello stemma: due bande doppiomerlate, caricate nel loro incrocio da una stella. E così sia nel braccio destro che in quello sinistro, gli affreschi che decorano le pareti sono racchiusi nel contesto scenografico di ideali arazzi, sui bordi dei quali sono ripetute in forme e in posizioni diverse le stesse figure. Eleganti stratagemmi artistici per sottolineare il legame con la Basilica da parte del Vescovo che, avendovi la propria Cattedra, ne ha anche curato l’abbellimento.
Rimanendo nella navata centrale possiamo imbatterci nello stemma pontificio più recente, quello di Papa Francesco, rappresentato in forma di bassorilievo bronzeo a lato dell’ambone di recente posizionamento (benedetto proprio dal Papa regnante).
Si tratta dello stemma che Jorge Mario Bergoglio utilizzava già come Arcivescovo di Buenos Aires, opportunamente modificato al momento della sua elezione al soglio pontificio. Sullo scudo campeggia un’ombra di sole caricata del compendio bernardiniano (il trigramma IHS), emblema della Compagnia di Gesù, nella quale egli fu ammesso e ordinato sacerdote. Una stella a otto punte è simbolico riferimento alla Beata Vergine Maria, stella dell’evangelizzazione, mentre un fiore di nardo simboleggia San Giuseppe, secondo un uso iconografico diffuso in America Latina.
Da notare che, a parte le immancabili chiavi, simbolo del ministero petrino che trova il suo fondamento nel Vangelo (Mt 16), sullo stemma personale di Papa Francesco non compare più come timbro la tiara o triregno, che invece resta emblema della Santa Sede e degli enti ad essa legati. Già il suo predecessore, Benedetto XVI, scelse infatti di abbandonare l’uso araldico di quel sontuoso copricapo costituito da tre corone d’oro sovrapposte che, abbandonato già da Giovanni Paolo I nel suo uso reale, non poteva più essere attuale, perché emblema di un potere temporale, addirittura considerato superiore a quello dell’imperatore, al quale i papi avevano rinunciato già da tempo.
La tiara fu sostituita su suggerimento dell’allora Nunzio Apostolico Andrea Cordero Lanza di Montezemolo (poi cardinale arciprete della Basilica Papale di San Paolo Fuori le Mura), da una mitria ornata di tre fasce d’oro sovrapposte che richiamano i tria munera del ministero petrino: il sommo sacerdozio, il supremo magistero e il governo della Chiesa universale.
L’ultimo stemma timbrato dalla tiara presente in Basilica, quello di San Giovanni Paolo II, non è visibile ai più nella sua forma più completa ed elegante, a intarsi marmorei policromi: si trova sul pavimento della loggia della facciata principale, restaurato in vista del Giubileo del Duemila, al quale la memoria del Santo Pontefice resta fortemente legata.
Geniale nella sua simbologia – anche se non felicissima dal punto di vista della sintassi araldica – la composizione interna dello scudo: la Croce, dalla sua normale simmetrica positura, si sposta per dare spazio e rilievo a Colei che umile le si sottopone, in piena obbedienza al disegno salvifico divino, la Vergine Maria, richiamata in maniera semplice e diretta dalla iniziale del suo nome. Una versione di più ridotte dimensioni, in scultura bronzea, si trova sulla Porta Santa realizzata per lo stesso Grande Giubileo.
GLI STEMMI DI CARDINALI E ALTRI PRELATI
Partendo dallo stesso ambone, possiamo notare lo stemma del già Cardinale Vicario Angelo De Donatis. Lo scudo è composto come un interzato in pergola rovesciata, e vi troviamo il leone alato e nimbato recante il libro del Vangelo aperto, simbolo di San Marco, Patrono della basilica romana di cui il Cardinale è stato parroco prima di esser nominato vescovo, e di cui oggi ha il titolo cardinalizio. L’ombrello basilicale con le chiavi costituisce emblema della stessa Basilica Lateranense di cui il Vicario Generale del Papa è stato Arciprete, oltre che dell’intero complesso del Laterano. Infine la melagrana, per il colore sanguigno dei suoi chicchi, è – in linea con il motto – simbolo della carità del Cristo che è testimoniata dai martiri fino al dono della vita e che costituisce il fondamento della comunione nella Chiesa.
Se è questo lo stemma cardinalizio più recente nella Cattedrale, nella 5° cappella laterale dall’ingresso della navata sinistra più esterna troviamo il più antico stemma cardinalizio, quello di Pietro Valeriano Duraguerra, cardinale di Piperno (Priverno). Fu Arciprete della Basilica, creato cardinale il 17 dicembre del 1295 e morto nello stesso giorno del 1302. Sulla fronte del suo sarcofago di marmo cipollino, attribuito a Giovanni di Cosma o alla sua scuola, si trovano tre scudi semirotondi, realizzati a mosaico e uguali tra loro (quello di destra vistosamente restaurato) così blasonabili: d’argento, al lupo rapace di nero. Questi scudi araldici sono testimoni della primissima epoca dell’araldica ecclesiastica, dal momento che, alternati semplicemente a iscrizioni che danno ragione della dignità e dell’ufficio del prelato, non sono ancora accompagnati da contrassegni specifici. Evidentemente la figura del lupo, che difficilmente verrebbe scelta da un prelato dei giorni nostri per la creazione del suo stemma ex novo, è la figura di uno stemma di famiglia, lo stemma della famiglia del cardinale che lo ha usato come insegna araldica propria.
Più antico di questo è lo stemma di un prelato non cardinale, o meglio la relativa decorazione di stampo araldico. Parliamo di Riccardo Annibaldi, suddiacono e notaio papale, morto il 28 agosto del 1289. Egli, esponente di una delle più influenti famiglie romane del tardo Medioevo, portava lo stesso nome dello zio, quel potente cardinale Riccardo Annibaldi, in passato ritenuto erroneamente il personaggio a cui era destinato il sepolcro di cui oggi si possono ammirare pregevoli resti.
L’arcidiacono Riccardo fu sepolto nella Basilica in uno splendido monumento sepolcrale, opera di Arnolfo di Cambio, il quale ideò un nuovo stile solenne ed elegante per questo tipo di opere architettoniche e scultoree, che farà scuola per lungo tempo, conoscendo numerose e notevoli imitazioni, fino al Rinascimento. Dell’originario sepolcro dell’Annibaldi sono oggi conservati alcuni importanti frammenti nel Chiostro, mentre in Basilica, nella navata sinistra, si trova un rifacimento del tempo borrominiano.
L’opera originale andò perduta già nel XVI secolo e per questo non è possibile ricostruirne con certezza l’impianto. Ma possiamo ben immaginare che la figura scolpita del defunto, giacente sul sarcofago, fosse collocata, secondo la tipologia sepolcrale di cui si è accennato, sotto una struttura a baldacchino addossata a una parete. Sotto la cuspide sostenuta da colonne (spesso tortili) e decorata da pinnacoli erano contenuti, come sfondo del giacente, anche gruppi statuari minori.
Nel Chiostro si conservano, insieme all’iscrizione funeraria in latino che ricorda la levatura e i meriti dell’ecclesiastico, la figura del defunto giacente e due parti di un fregio con figure scultoree minori di ministri che officiano la cerimonia esequiale (recando l’incenso, l’acqua benedetta, i testi sacri, delle torce, una mitria).
L’Annibaldi è ritratto con il volto di un uomo ancora giovane, mentre tonsura e veste indicano la sua condizione religiosa. La testa poggia su due cuscini, quello superiore è attraversato da una fascia decorativa che sul lato sinistro reca un tondo racchiudente le insegne di famiglia: troncato da un filetto, nel 2° (quarto) 7 bisanti. Si tratta senza dubbio dell’uso di insegne araldiche relativo ad un ecclesiastico più antico che si trovi in Basilica, e in assoluto uno degli usi più antichi testimoniato nel nostro Paese.
Attraverso le decorazioni araldiche (o di estrazione araldica) in contesto funebre, viene perpetuata la memoria del defunto anche nel ricordo delle sue origini famigliari. La collocazione del monumento e delle relative insegne in una importante chiesa, quale può essere addirittura l’Arcibasilica Lateranense, è garanzia di ammirazione da parte dei posteri, oltre che di preghiera nel corso delle generazioni future. Da notare a tale proposito che nell’iscrizione del monumento è documentato anche l’impegno da parte del Capitolo Lateranense a celebrare una Messa al giorno in memoria dell’Annibaldi.
Interessante è il caso dello stemma del Cardinale Nicola Antonelli, del titolo dei Santi Nereo e Achilleo, nella quarta cappella laterale dall’ingresso sulla navata sinistra più esterna. Alla parete sinistra della cappella si trova un monumentale sepolcro marmoreo con iscrizioni sul basamento e, al centro, uno scudo di forma irregolarmente esagonale scolpito in bassorilievo. Vi campeggiano le insegne araldiche della famiglia del prelato: un tritone, assiso sulla doppia coda raccolta e sostenuto dalla marina, in atto di suonare una conchiglia, e sormontato da una cometa a 8 punte ondeggiante in palo. Il cappello cardinalizio non è posto come timbro dello scudo, al di sopra di esso, ma poggiato alla base, su alcuni libri aperti e chiusi che ricordano come egli fu studioso orientalista e raccolse una vasta biblioteca, di manoscritti, incunaboli e volumi rari. Un Genio alato, dall’aspetto di anziano e ignudo, coperto solo nella zona pubica da un lembo del velo che egli stesso con le mani stende sul sarcofago marmoreo, lascia che lo stesso velo scenda verso il basso e copra leggermente il bordo superiore dello scudo. Una meravigliosa e particolarissima creazione artistica, nel contesto della quale lo stemma di famiglia, dotato di una figura di chiaro stampo pagano e dunque poco in linea con i canoni religiosi e poco consona ad un ecclesiastico, sembra messo volutamente in secondo piano nella fantasmagoria dell’insieme.
GLI STEMMI DI ALCUNE FAMIGLIE
L’Arcibasilica non ospita solo stemmi di ecclesiastici, ma anche stemmi di esponenti di alcune famiglie che ebbero dimora in Roma e contribuirono ai restauri e al decoro del tempio nel corso dei secoli. Se ne trovano sia sul pavimento che nel chiostro (ricollocati dalle originarie posizioni nella chiesa).
Soprattutto stemmi di grandi famiglie si trovano nelle navate laterali più esterne, all’interno delle diverse cappelle gentilizie, secondo un uso comune in molte altre chiese nell’Urbe e fuori dell’Urbe.
Le cappelle laterali venivano realizzate come ampliamento, e finanziate grazie alla donazione o al lascito di appartenenti a una famiglia dell'aristocrazia o della ricca borghesia, e il più delle volte erano anche il sepolcreto famigliare. Negli esempi più importanti erano riccamente decorate dai maggiori artisti dell'epoca, con vere e proprie gare da parte dei committenti per mostrare, anche attraverso lo splendore dell’arte, il proprio peso sociale.
Anche nella nostra Cattedrale non mancano cappelle delle famiglie più influenti di Roma. L’ultima fu edificata nel 1850 dai Torlonia nel secondo vano laterale sulla navata destra. La presenza di queste cappelle gentilizie, con largo uso delle insegne araldiche relative (ai lati degli altari, su lapidi, cancelli, tovagli e altri manufatti), costituisce anche testimonianza visiva del legame di queste famiglie con la Chiesa di Roma e con il suo Vescovo. Di seguito noteremo solo alcuni esempi tra i numerosi possibili, scelti per il loro particolare valore storico e artistico.
Nella navata destra più esterna, sulla parete, all’altezza del primo pilastro dall’ingresso, troviamo un monumento parietale in marmo bianco con iscrizione e, su ambo i lati, uno scudo sagomato marmoreo scolpito a bassorilievo. Si tratta dello stemma di Pietro Paolo Millini (tre bande, al capo sostenuto da una fascia diminuita, e caricato da una lettera M avellana, pure sostenuta dalla pezza). Datato 1527, ha due elementi che lo rendono molto caratteristico. Si trovano infatti insolitamente posti come timbro dello scudo due elmi chiusi e affrontati; ma, cosa ancor più interessante, il tutto è completato da un cimiero (elemento ornamentale alquanto utilizzato nel Rinascimento) piuttosto esclusivo: un’idra in maestà, alata e con le zampe posate sugli elmi. Da notare che il tremendo mostro con sette teste è reso con forme insolite, simile a un qualunque pennuto da cortile, forse per stemperare la sua estrazione mitologica e pagana e il suo aspetto inquietante, in un contesto sacrale e solenne come quello della Basilica Lateranense.
Pregevole è la cancellata di bronzo con particolari dorati che chiude la Cappella Torlonia, la seconda sulla navata laterale destra più eterna. L’opera è di Giacomo Luswerg. Tra le volute decorative che ne costituiscono la struttura, oltre allo stemma di famiglia nella sua interezza vi sono riprodotte le figure caratteristiche: le rose e le stelle a 8 punte, queste ultime deliziosamente realizzate e collocate in modo da essere girevoli.
Sempre sulla navata laterale sinistra, la terza cappella, dedicata al Ss.mo Crocifisso, è della famiglia Massimo. Al centro del pavimento si trova uno scudo ovale, realizzato per giustapposizione di piastrelle colorate di terracotta. Si tratta dello stemma della famiglia patronale partito: nel 1° quattro fasce alla banda attraversante; nel 2° mezza croce, movente dalla partizione caricata da 9 scudetti, con i due sul braccio posti in fascia, ed accantonata da due leoni. Un insieme originale, in cui l’intera pavimentazione in cotto trova il suo centro ornamentale nello stemma realizzato con piastrelle adeguatamente modellate in diverse soluzioni cromatiche, e ancora godibile nonostante i numerosi palesi interventi restaurativi.
Questa ornamentazione araldica non trova riscontro nelle pavimentazioni delle altre cappelle, con il pavimento rivestito in marmo e, laddove questo è presente, con lo stemma gentilizio al centro realizzato ad intarsio di marmi policromi (come ad esempio nella prima cappella sulla stessa navata recante lo stemma del Cardinale Giulio Acquaviva, o come ancora è osservabile, per rimanere nel campo delle armi gentilizie, nella quarta cappella della navata laterale sinistra, dedicata a san Francesco d'Assisi, già di patronato dei Lancellotti che avevano come protettore il Santo di Assisi, recante al centro lo stemma di questa famiglia).
LO STEMMA DELL’ARCIBASILICA LATERANENSE
La stessa Arcibasilica, oltre ad avere come emblema proprio, comune a tutte le basiliche, l’ombrello pontificio (detto anche gonfalone basilicale o basilica) e le chiavi petrine, ha un proprio stemma, composto di questi due elementi ornamentali che accompagnano lo scudo, d’azzurro recante l’iscrizione in oro SACROSANCTA LATERANENSIS ECCLESIA OMNIUM URBIS ET ORBIS ECCLESIARUM MATER ET CAPUT.
Lo stemma così composto si trova rappresentato sul soffitto del prolungamento della navata voluto dal Leone XIII per ospitare il coro ligneo.
Mentre su due basamenti di pilastri sulla facciata settecentesca di Alessandro Galilei lo scudo è solo accennato da ghirlande di alloro ed è timbrato, secondo la versione più antica, dalla tiara, oltre che dalle immancabili chiavi (su altri due pilastri si trova lo stemma di Clemente XII Corsini, che commissionò la facciata al conterraneo fiorentino Galilei; su altri due il solo emblema basilicale, composto di ombrello e di chiavi).
In modo simile lo scudo con l’iscrizione (curiosamente con un errore nel testo), timbrato dalla tiara, si trova presso i portali di ingresso sotto la loggia delle benedizioni.
Lo stemma, in maniera letterale e inequivocabile, richiama il primato dell’Arcibasilica Lateranense nel mondo. Quanto all’ombrello basilicale che ne è ornamento caratteristico, esso è emblema pontificio poiché richiama il parasole con il quale si accoglieva l’imperatore nelle sue visite: un simile ombrello è custodito (o dovrebbe esserlo) in ogni Basilica, in ricordo di come nelle più insigni chiese, prima dell’Urbe e poi fuori dell’Urbe, veniva in passato accolto il Papa.
L’ombrello si porta in processione nelle occasioni più solenni, insieme al tintinnabolo, un campanello montato su un’asta riccamente decorata che in genere reca qualche riferimento devozionale o araldico alla relativa basilica (nel caso del tintinnabolo della Cattedrale di Roma si trova a ornamento lo stesso stemma basilicale). Da alcuni anni ombrello e tintinnabolo, nella nostra Cattedrale, sono molto opportunamente esposti alla visione dei visitatori.
Ultima nota riguardo i colori dei gheroni dell’ombrello: oro e rosso. Sono i colori di Roma e ancor prima della Chiesa di Roma, perché fanno riferimento alla fede (oro) e al martirio (rosso) con i quali i Santi Patroni dell’Urbe, gli Apostoli Pietro e Paolo, hanno reso la loro testimonianza a Cristo e il loro contributo fondamentale alla nascita della Chiesa romana.