1/ Nicaragua. Quando il potere vuole silenziare una Chiesa «scomoda», di Lucia Capuzzi 2/ Nicaragua, liberati i vescovi Álvarez e Mora e altri preti. Ora accolti dalla Santa Sede. Il vescovo di Matagalpa, detenuto dal 2022, insieme al pastore di Siuna, due seminaristi e altri 15 sacerdoti sono stati scarcerati. La conferma del governo nicaraguense, di Salvatore Cernuzio 3/ Nicaragua. Ortega e l’uso cinico dei migranti: arma di pressione contro gli Stati Uniti e “cassaforte” per l’economia del regime, di Bruno Desidera
N.B. de gli scritti (19/5/2024) La storia di diversi leader politici dell’America Latina mostra quanto sia difficile utilizzare per essi categorie abituali in occidente. Se, in apparenza, Daniel Ortega Saavedra è cresciuto come leader appartenente all’area sandinista, contraria al controllo degli USA e con connotazioni molto forti di sinistra – motivi per i quali ha goduto di forti simpatie in movimenti cattolici europei e italiani – lo si ritrova ora preoccupato di difendere un potere quasi assoluto. Il presente getta una luce scura anche sul suo passato, mostrando come egli, anche al tempo della lotta sandinista, fosse probabilmente più preoccupato del proprio potere personale che di giovare effettivamente al benessere del paese. Nella sua vicenda si manifesta una forma di populismo che si traduce in un utilizzo del popolo strumentale ad una modalità di controllo del potere. Sulla sua vicenda, cfr. C. Amadei, voce ORTEGA SAAVEDRA, Daniel, in Enciclopedia Italiana Treccani - V Appendice (1993), disponibile on-line.
1/ Nicaragua. Quando il potere vuole silenziare una Chiesa «scomoda», di Lucia Capuzzi
Riprendiamo da Avvenire un articolo di Lucia Capuzzi, pubblicato il 5/1/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Politica internazionale.
Il Centro culturale Gli scritti (19/5/2024)
Nelle ultime due settimane, ogni diciotto ore un operatore pastorale è finito in cella in Nicaragua per un totale di diciannove.
La caccia del “Natale nero”, come l’hanno soprannominato, è cominciata il 20 dicembre con il fermo del vescovo di Siuna, Isidoro del Carmen Mora, catturato insieme ai due seminaristi Alester Sáenz y Tony Palacios, per la “colpa” di avere menzionato nell’omelia del giorno precedente il confratello Rolando Álvarez che sconta una condanna a 26 anni per “tradimento della patria” nel carcere di La Modelo di Managua.
Nei giorni successivi è toccato ai sacerdoti Pablo Villafranca, Carlos Avilés, Héctor Treminio, Fernando Calero, Marcos Díaz Prado di León, Ismael Serrano, Silvio Fonseca, Miguel Mántica, Mykel Monterrey, Jader Hernández, Ervin López, Jaime Ramos, Gerardo Rodríguez, Raúl Zamora. Infine, Gustavo Sandino e Fernando Téllez. Una lista incompleta. Vari fedeli hanno denunciato la sospensione sospetta delle celebrazioni in alcune parrocchie, dove i preti risulterebbero irreperibili. Uno scenario che suscita «forte preoccupazione», ha detto papa Francesco nel primo Angelus del 2024.
L’escalation è inedita per le proporzioni. Il “Natale nero”, tuttavia, si inserisce in una repressione sistematica della Chiesa da parte del presidente Daniel Ortega e della sua vice nonché moglie Rosario Murillo. Un paradosso in una nazione dove almeno il 45 per cento della popolazione si riconosce nella religione cattolica e le sue istituzioni.
E la stessa leadership “duale” che stringe la morsa paradossalmente si professa cattolica praticante. Questo non le ha impedito di sferrare, negli ultimi tre anni, un attacco senza precedenti verso sacerdoti, credenti, vescovi, ordini religiosi e realtà ecclesiali di vario tipo.
La ragione della contraddizione risiede nella natura della campagna anticlericale. Ad alimentarla non è la contrarietà ai contenuti religiosi di per sé. Bensì il rifiuto nei confronti delle loro ricadute nel contesto pubblico. La Chiesa viene aggredita in quanto ultimo spazio di autonomia nell’asfittica società nicaraguense.
Una libertà – di parola e di azione nei confronti delle vittime dell’oppressione – a cui non può rinunciare per compiacere il potere. Non per ostinazione o per partigianeria. Si tratta della conseguenza della fedeltà al Vangelo che impone ai cattolici di perseguire la giustizia del Regno.
In questo, il martirio della Chiesa di Managua ricorda quello della sorella salvadoregna negli anni Settanta e Ottanta, quando decine di preti, religiosi e religiose furono massacrati nonché centinaia di catechisti e laici impegnati. Il caso più noto è senza dubbio quello di Óscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, ucciso da un proiettile mentre celebrava la Messa il 24 marzo 1980.
A fare fuoco un sicario al soldo della dittatura filostatunitense, anti-comunista e dichiaratamente cattolica che governava il Paese. A lungo, la camicia di forza della Guerra fredda, aveva spinto tanti, anche all’interno della Chiesa, a incasellare “Monseñor”, come lo chiamano i salvadoregni, nel fronte politico opposto. Addirittura fu accusato di simpatie marxiste.
Ci è voluto un lungo processo di discernimento per comprendere la matrice profondamente evangelica della denuncia di Romero. A sciogliere il dubbio il riconoscimento del suo martirio con il decreto firmato da papa Francesco il 3 febbraio 2015. Proclamato beato il 23 maggio successivo, è stato canonizzato il 14 ottobre 2018. «Il martirio di monsignor Romero è il compimento di una fede vissuta nella sua pienezza – ha spiegato il postulatore, monsignor Vincenzo Paglia -. Quella fede che emerge con forza nei testi del Concilio Vaticano II.
In questo senso, possiamo dire che Romero è il primo martire del Concilio, il primo testimone di una Chiesa che si mescola con la storia del popolo con il quale vivere la speranza del Regno. Una speranza di giustizia, di amore, di pace».
Uno spirito analogo muove la Chiesa nicaraguense. Il punto di svolta, in questo caso, è il 18 aprile 2018. Quel giorno, la protesta causata dalla riforma del sistema pensionistico si è trasformata in una rivolta disarmata contro il governo. Per oltre due mesi, migliaia e migliaia di persone sono scese in piazza con lo scopo di chiedere le dimissioni dell’uomo che, nel 1979, era stato tra i protagonisti della caduta della brutale dittatura del clan Somoza.
A sconfiggere il regime era stato il sandinismo, movimento nazionalista e socialisteggiante che, nel decennio successivo – segnato dalla guerriglia anti-sandinista dei contrás, finanziata dagli Usa –, ha guidato lo Stato sotto la presidenza Ortega fino alla sconfitta del 1990.
Il leader ha impiegato sedici anni per tornare al vertice. Quando, alla fine, c’è riuscito, grazie a un’anomala alleanza con l’ex capo dei contrás, Jaime Moreles Carrazo, ha fatto di tutto per non rischiare di perdere il potere una seconda volta.
Nel 2013, così, ha cambiato la Costituzione in modo da garantirsi la possibilità di rielezione all’infinito. Allo stesso tempo, ha cooptato le istituzioni, i settori imprenditoriali e le fasce più povere, costruendo un sistema insieme ultraliberista e populista, caratterizzato dall’erogazione di sussidi clientelari e la concessione di mano libera totale alle aziende e a importanti sconti fiscali. A sostenere il tutto è stato a lungo il petrolio dell’alleato venezuelano.
Con la crisi in atto a Caracas, l’orteguismo ha iniziato a scricchiolare. La “rivolta di aprile” ne è stata la conseguenza. Al rischio di essere defenestrati, Ortega e Murillo hanno risposto con il pugno di ferro.
Nel luglio 2018, polizia e gruppi paramilitari – le cosiddette “turbas” – hanno dato vita “all’Operación limpieza”, la feroce repressione dei manifestanti. In 325 sono stati uccisi mentre diverse centinaia di persone sono state arrestate.
Nel mirino sono finite anche figure storiche del sandinismo, come Carlos Chamorro, lo scrittore pluripremiato Sergio Ramírez, la poetessa Gioconda Belli, l’ex guerrigliera Dora Téllez.
Da quel momento, il dissenso è stato spazzato via: organizzazioni sociali e civili, Ong e media indipendenti sono stati chiusi, i sette candidati che hanno “osato” presentarsi contro Ortega al voto del 7 novembre 2021 sono finiti subito in cella.
La Chiesa, sola realtà indipendente superstite, ha cercato di proteggere i perseguitati in nome del Vangelo e di costruire canali di dialogo in mezzo al conflitto. Una scelta per cui il regime l’ha iscritta nella lista dei nemici. E ha cominciato a colpirla con sistematica brutalità.
Dall’aprile 2018, secondo l’ultimo studio della ricercatrice Martha Molina, sono stati registrati 740 attacchi: da profanazioni a insulti ad aggressioni, sequestri, incarcerazioni arbitrarie.
Dopo un esordio in punta di piedi, la repressione s’è fatta plateale. L’escalation è iniziata con l’espulsione del nunzio, Waldemar Stanislaw Sommertag, il 12 marzo 2022. L’anno scorso, ci sono stati 171 episodi violenti. Cifra superata nel 2023 in cui sono stati 275.
Finora il duo Ortega e Murillo ha privato della nazionalità con l’accusa di «tradimento verso la patria» 14 presbiteri, un diacono, due seminaristi e due vescovi, Silvio Báez e Rolando Álvarez, quest’ultimo tuttora in prigione.
Ottantatré religiose di differenti ordini e congregazioni e 70 sacerdoti sono stati mandati in esilio. Gli ultimi dodici, detenuti con varie accuse, sono stati espulsi il 19 ottobre e mandati in Vaticano, che ha accettato di accoglierli.
I conti della Chiesa sono stati bloccati, quattro università e due istituti superiori sono stati confiscati, 15 emittenti e 11 progetti sociali sono stati chiusi.
Lo scorso 18 maggio, Managua ha “congelato” le relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Uno degli atti più clamorosi prima del “Natale nero” è stata, ad agosto, la revoca della personalità giuridica alla Compagnia di Gesù e l’esproprio della Università dei gesuiti José Simeón Cañas (Uca).
La succursale nicaraguense dell’ateneo salvadoregno dove, il 16 novembre 1989, si è consumato uno dei capitoli più cruenti della guerra civile: il massacro di sei gesuiti. La Uca – dicevano i militari – «era un covo di terroristi». La stessa frase pronunciata dopo da Daniel Ortega prima di sottrarla alla Compagnia. Trentaquattro anni dopo, la libertà del Vangelo continua a far paura agli autocrati latinoamericani.
2/ Nicaragua, liberati i vescovi Álvarez e Mora e altri preti. Ora accolti dalla Santa Sede. Il vescovo di Matagalpa, detenuto dal 2022, insieme al pastore di Siuna, due seminaristi e altri 15 sacerdoti sono stati scarcerati. La conferma del governo nicaraguense, di Salvatore Cernuzio
Riprendiamo da Vatican News un articolo di Salvatore Cernuzio, pubblicato il 14/1/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Politica internazionale.
Il Centro culturale Gli scritti (19/5/2024)
Il vescovo Rolando Álvarez, detenuto da oltre un anno, il vescovo Isidoro del Carmen Mora Ortega, due seminaristi, quindici sacerdoti. In totale sono 19 i rappresentanti della Chiesa cattolica liberati dal governo del Nicaragua. La notizia, diffusa dai media locali, è stata confermata dal governo di Managua. Ad eccezione di uno rimasto in Venezuela, tutti sono arrivati nel pomeriggio a Roma e sono ora ospiti della Santa Sede.
Monsignor Álvarez, vescovo di Matagalpa e amministratore apostolico della diocesi di Estelí, condannato a 26 anni di carcere, era in prigione dal febbraio dell’anno scorso dopo essere stato agli arresti domiciliari dall’agosto 2022. Mentre monsignor Mora è stato arrestato lo scorso dicembre.
Il Papa nell’Angelus dell’inizio dell’anno, ricordando la situazione di vescovi e sacerdoti “privati della libertà” nel Paese centramericano, ha assicurato la sua “vicinanza nella preghiera”, invitando il popolo di Dio a pregare per il Nicaragua, per il quale ha espresso l’auspicio “che si cerchi sempre il cammino del dialogo per superare le difficoltà”.
Già lo scorso anno, ad ottobre, erano stati scarcerati 12 sacerdoti nicaraguensi. La Santa Sede aveva accettato la richiesta di riceverli. Accolti a Roma, i preti sono stati alloggiati presso alcune strutture della Diocesi.
3/ Nicaragua. Ortega e l’uso cinico dei migranti: arma di pressione contro gli Stati Uniti e “cassaforte” per l’economia del regime, di Bruno Desidera
Riprendiamo dall’Agenzia di Stampa Sir un articolo di Bruno Desidera, pubblicato il 26/1/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Politica internazionale.
Il Centro culturale Gli scritti (19/5/2024)
Migranti di mezzo mondo usati come “arma di pressione” contro gli Stati Uniti. Connazionali emigrati usati come “cassaforte” per puntellare la fragilissima economia del Paese. L’utilizzo del fenomeno migratorio per consolidare il proprio potere è uno degli aspetti meno conosciuti del regime imposto in Nicaragua dal presidente Daniel Ortega e dalla moglie e vicepresidente, Rosario Murillo. Eppure, è quello che sta accadendo da tempo in uno scenario di crescente isolamento internazionale del Paese centroamericano.
Charter carichi di migranti a Managua. La strategia più raffinata, e ultima in ordine di tempo, consiste nell’utilizzare la migrazione per colpire gli Stati Uniti. A spiegarlo al Sir è Manuel Orozco, politologo nicaraguense in esilio, direttore del programma Migrazione, rimesse e sviluppo del Dialogo interamericano:
“Anzitutto – spiega -, l’élite politica del regime ha cambiato tattica per quanto riguarda la migrazione dei cubani e di altre nazionalità, facendo leva sull’elevato numero di persone di molte nazionalità in fuga dai loro Paesi. Una realtà del periodo post-pandemia è che 18 Paesi rappresentano il 92% di tutta la migrazione irregolare che arriva al confine messicano. Nessuno di questi è un Paese politicamente stabile, in cui prevalgono lo Stato di diritto o la libertà di espressione. Il regime ha colto l’opportunità economica e politica di utilizzare la migrazione come politica estera contro gli Stati Uniti e per aumentare il peso della crisi umanitaria. Il regime ha iniziato eliminando le restrizioni sui cubani e nel 2023 ha eliminato le restrizioni sui visti per diverse nazionalità, tra cui gli haitiani. Nell’aprile 2023 il governo ha incaricato una società privata, con sede a Dubai, di formare il team dell’aviazione civile del Nicaragua per gestire le procedure di immigrazione per i passeggeri dei voli charter. Il risultato è che tra giugno 2023 e novembre 2023 ci sono stati più di cinquecento voli charter, aumentando gli arrivi e le partenze dei voli da 45 a 93 e generando un transito dal Nicaragua di oltre 100.000 passeggeri da Port-au-Prince (Haiti), L’Avana (Cuba) e Turks and Caicos a Managua”.
Come è facile pensare, tra le tante migliaia di migranti che sono atterrati e atterrano nella capitale nicaraguense, non ce n’è neppure uno che abbia intrapreso il viaggio per restare in Centroamerica. Per tutti, il sogno è di arrivare negli States, e in quest’ottica l’atterraggio a Managua consente ai migranti di mettersi in viaggio, puntando ad attraversare Honduras, Guatemala e Messico. Un itinerario lunghissimo e pieno di difficoltà, come da anni raccontano le cronache.
Per Ortega obiettivo raggiunto. Certo, “la politica opportunista di Ortega viene ora contrastata dalla comunità internazionale, e i voli stanno calando”, aggiunge il politologo. Il picco, infatti, si è raggiunto negli ultimi mesi del 2023. Ma il flusso non si ferma. Per esempio, a metà gennaio, è giunto all’aeroporto un grande Boeing 777 proveniente da Casablanca, con a bordo 400 migranti, perlopiù marocchini e indiani. In ogni caso, lo scopo è stato raggiunto. Mentre Ortega ha usato l’emigrazione come arma di attacco contro lo spirito della democrazia e del diritto internazionale, gli Stati Uniti hanno evitato di inimicarsi eccessivamente i regimi dittatoriali. Una delle ragioni addotte è che sanzioni più forti sono destinate a generare un impatto economico negativo sulla popolazione, che si traduce in emigrazione. Il calcolo politico degli Stati Uniti è stato quello di non accompagnare le sanzioni con una politica estera coerente con le priorità dell’attuale Amministrazione, ovvero l’interesse nazionale e la democrazia in questi Paesi. Il Nicaragua è un caso emblematico di come uno Stato isolato colpisca il mondo aumentando la migrazione e sostenendo il traffico di persone che aggrava la crisi migratoria”.
La diaspora nicaraguense e il fenomeno delle rimesse. Le dinamiche migratorie che vedono per protagonista il Nicaragua, sono però più complesse, e comprendono, oltre al fenomeno citato, anche una vera e propria “fuga” di cittadini nicaraguensi, a partire dalle proteste del 2018 e dalla successiva repressione, nell’ambito di una dittatura sempre più asfissiante. E, ironia della sorte sono proprio i migranti, attraverso le rimesse con cui dall’estero aiutano i propri familiari, a puntellare economicamente il regime di Ortega.
Prosegue Orozco: “La tendenza migratoria nel 2023 è stata quella di una continua emigrazione, pari al 2% della popolazione totale e al 4% della forza lavoro. I migranti nicaraguensi appartengono a tutti gli strati e gruppi sociali, siano essi a favore del Governo o dell’opposizione. In ogni caso, però, l’intenzione continua a essere giustificata più da ragioni politiche che economiche. Un’analisi statistica del sondaggio Cid-Gallup del novembre 2023, pubblicata sul ‘Confidencial’, mostra una correlazione statistica tra l’intenzione di emigrare e le condizioni politiche del Paese: chi vuole elezioni libere, la liberazione dei prigionieri politici e religiosi, la fine dello Stato di polizia, ha una probabilità 1,83 volte maggiore di emigrare rispetto a chi non vuole partire. Coloro che ritengono che il Paese stia andando nella direzione sbagliata hanno una probabilità di emigrare 2,86 volte superiore rispetto alle altre variabili. Anche gli adulti, i più istruiti e gli uomini hanno una maggiore intenzione di emigrare. Gli indicatori economici non sono correlati statisticamente con l’intenzione di migrare. Il problema è politico”.
Al tempo stesso, “più migrazione c’è, più rimesse arrivano e queste contribuiscono a compensare la mancanza di reddito con i soldi inviati dai migranti, che aiutano a migliorare i consumi e la capacità di risparmio. In una società totalitaria come quella del Nicaragua, esiste una ‘cattura dello Stato’, in cui l’espulsione massiccia di persone è uno dei pilastri economici del sistema politico, assieme ad altri fenomeni come l’estorsione, il clientelismo, la corruzione, la confisca. Le rimesse sono fondamentali per il regime Ortega-Murillo”.
Attualmente, infatti, le rimesse rappresentano il 20% del carico fiscale e il 33% del consumo nazionale. “Si tratta, però, alla lunga, di un’arma a doppio taglio, perché i migranti possono prendere decisioni su come controllare il denaro e avere effetti diretti sullo Stato. L’esperienza della diaspora cubana mostra come questa comunità abbia deciso di non inviare denaro attraverso i canali ufficiali e di utilizzare altre vie per raggiungere direttamente le proprie famiglie”.