Il problema di scuole psicologiche che non hanno lavorato per una soluzione delle forme di disagio più diffuse, ma anzi le hanno incentivate in nome dell’io e della liberazione da confini e contenimenti. Qualche appunto su di una serata di dialogo fra psicologi, di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Psicoanalisi e psicologia.
Il Centro culturale Gli scritti (29/4/2024)
Partecipo ad un dialogo fra psicologi, docenti universitari e terapisti.
Scopro, ascoltando la loro voce critica, che esiste una diversa visione delle cose.
Affermano che spesso non si vuole porre in evidenza che il disagio mentale è in costanza crescita e, soprattutto, che ad esso si risponde con interventi “tecnici”, quasi ogni problematica e ogni caso fosse a sé stante, mentre è evidente che il disagio è sociale e che la stessa psicologia ha delle responsabilità nell’aver creato tale situazione.
La domanda sul perché ci sia tale aumento “impressionante” di disagio non viene posta o viene posta scaricando su fattori terzi la questione.
Nessuno pone in dubbio – ma loro lo fanno in questo dialogo sincero – che una persona non possa star bene quando ogni punto di riferimento esistenziale, morale, spirituale, addirittura di realtà – quasi che esistesse una realtà diversa per ognuno! -, viene messo in crisi.
La psicologia – affermano – si è baloccata sull’idea che, invece, bisogna dare a chi si rivolge allo psicologo l’idea che è stato castrato e che si deve sempre e comunque ribellare per dare ulteriore spazio alle proprie pulsioni, che deve rifiutare ogni vincolo anche familiare, che bisogna abbattere qualsiasi appartenenza.
È come se l’intera psicologia e al suo seguito tanti terapisti avessero deciso di fomentare ogni “pallino” dell’io, senza più chiedere di riconoscere un limite, un legame, un vincolo, un sacrificio, una rinuncia, come parte costitutiva dell’essere uomini e donne.
La frantumazione del contenimento e del confine è stato il mantra della psicologia degli ultimi decenni.
Il potere continua a sventolare nuove libertà in campo psicologico – si pensi all’assolutizzazione della psicologia “di genere” – anche per nascondere il fallimento su tutti gli altri versanti – evidente per il disagio psichico in aumento -, per proseguire indisturbati la logica dell’abbattimento di ogni confine, che è causa strutturale del disagio stesso.
Ovviamente si tace – raccontano – in ambiente accademico di fatti clamorosi dal punto di vista psicologico-scientifico come la chiusura della clinica Tavistock per la disforia di genere, decretata dalle autorità britanniche, segno di un fallimento di un’intera visione – si trattava dell’eccellenza in materia.
Citano una serie di testi che sono, invece, fondamentali, perché hanno il coraggio di denunciare la società contemporanea che ha distrutto ogni punto di riferimento in nome delle libertà individuali:
-Christopher Bollas, L’età dello smarrimento, Raffaello Cortina
-Marco Rovelli, Soffro dunque siamo, MinimumFax
-Mattia Ferraresi, Solitudine, Einaudi
-David P. Levine - Matthew H. Bowker, La fantasia del mondo distrutto. Uno studio psicoanalitico su cultura e politica, Astrolabio Ubaldini
-Massimo Recalcati, L’uomo senza inconscio, Raffaello Cortina
-Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo
Senza indagare sul disagio che si allarga - generato anche e proprio dagli ultimi decenni di studi psicologici e pedagogici -, la discussione si è recentemente tornata a focalizzare sulla questione della diagnosi, vedendo come due fronti contrapposti, quello che si richiama a Basaglia, portato avanti oggi da studiosi come Giuseppina Gabriele, che sono anti-classificazione, che rifiutano l’incasellamento delle persone in tipologie problematiche, e quello classificatorio, di cui un esponente è certamente Vittorio Lingiardi: tale orientamento intende dare diagnosi sempre o ovunque ed è accetto alla persone, perché la classificazione diagnostica – anche se è esasperata - è lo strumento a cui tu ti aggrappi quando manca una visione più generale del perché tanti stiano male.
Il disagio – tornano ad affermare - non è solo un problema individuale, ma dipende dalla visione culturale degli ultimi decenni che lo ha generato. Più si progredisce in una “nuova” visione del mondo, più il disagio psicologico aumenta.
Il problema è che il disagio è il datore di lavoro degli psicologi!
Taluni – attenzione a non fare comunque di tutt’erba un fascio – psicologi e scuole psicologiche hanno fomentato il narcisismo, invitando tanti a dichiarare che la colpa è degli altri che non ti capiscono e che è necessario svincolarsi ancor più dai punti di riferimento e da ciò che ci deriva dal passato, per essere più liberi.
È come se si ripetesse all’infinito e in forme sempre diverse che ognuno vale per sé stesso e deve fare come meglio crede, giungendo, però, a fare così terra bruciata intorno all’io: alla fine tutti si resta soli, resta solo il tu del paziente che ha smantellato tutto l’edificio del mondo che lo circonda e di un senso in esso.
Insistono sul fatto che una psicoterapia deve essere relativamente breve, altrimenti vuol dire che è essa stessa ad essere problematica e alla fin fine non risolutiva.
Racconto loro – questa volta sono io a parlare - di un avvocato che sapeva rinunciare a proseguire cause di separazione, perché spesso faceva riflettere i coniugi che chiedevano la separazione domandando loro: “Ma non potreste accettarvi lo stesso? Ma non potreste in fondo perdonarvi, non sarebbe quella la soluzione migliore? Ma alla vostra età siete così sicuri che una nuova relazione sia la soluzione migliore?” Quell’avvocato si era trovato ad essere non solo il “separatore”, ma talvolta anche il “riconciliatore” di diverse coppie.
Tornano ad insistere sul fatto che il tanto parlare di libertà è stato alla fin fine devastante rispetto all’equilibrio personale e di fatto ha consegnato tanti alla schiavitù di un sistema tecno-medico.