Nella chiesa manca il pensiero, i preti leggono pochissimo, di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito un testo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Cristianesimo.
Il Centro culturale Gli scritti (29/4/2024)
Nell’anno del 150esimo dell’Unità d’Italia decisi di organizzare per i catechisti tre incontri su tale questione.
L’idea era di mostrare come grandi autori come Dante e Manzoni avessero contribuito a “fare” l’Italia, almeno alla pari di Cavour, Mazzini e Garibaldi.
Mi venne in mente di fare una serata a due voci sui Promessi sposi con un prete romano che lo presentasse in maniera scientifica, ma anche con passione, in confronto con un prof. di letteratura dinanzi al quale doveva reggere il confronto.
Fu uno dei momenti più sconfortanti della mia vita: mi resi conto che non conoscevo un prete romano a cui chiedere una tale relazione. Non conoscevo uno che amasse Manzoni, lo conoscesse come le sue tasche e sapesse presentarlo con gusto – a distanza di anni, in realtà, forse due avrebbero potuto venirmi in mente.
Mi resi conto di quanto eravamo lontani dalla cultura, dall’educazione, dalla scuola, dal dibattito culturale.
Non che tutti i preti debbano essere in grado di fare ciò, anche se solo qualche decina di anni fa gli studenti si rivolgevano al loro vice-parroco per prepararsi meglio ai compiti in classe e alle interrogazioni di letteratura, filosofia o storia.
Ma la cosa triste è che mi rendevo contro che non c’era nessuna “eccellenza” in materia fra il clero – e il clero di Roma non è l’ultimo del mondo quanto a numero e a preparazione!
Oggi sono ancora più consapevole che questo è un problema: siccome lo studio e la conoscenza dei problemi e degli autori è carità intellettuale, è vero amore, è vero cammino di educazione e di introduzione alla fede, tale assenza non può non essere un problema.
Se ci sono certamente preti che studiano e leggono, proprio perché amano la realtà, mi rendo sempre più conto che tanti non saprebbero fare altro che un commento biblico, una lectio, una meditazione spirituale – non si dimentichi che queste cose sono ottime e non vanno sminuite.
Ma non sarebbero in grado di sostenere una discussione teologica approfondita sulle grandi questioni, non saprebbero spiegare perché gli autori della letteratura sono importanti, non saprebbero discutere adeguatamente di politica, soprattutto guardando al lungo periodo, alle prospettive dell’educazione di nuovi politici. Anche una visione armonica sociale, una conoscenza della dottrina sociale, una visione del rapporto fra questioni religiose e questioni civili e sociali sono latitanti e non è un caso la debole preparazione dei laici in materia, dal momento che i loro preti non si interessano troppo di tali questioni.
Ripeto: non va assolutizzata tale considerazione, ci sono lodevoli eccezioni, ma è come se la Chiesa avesse preso a respirare quel disinteresse per la cultura che talvolta è tipico dei media e dei social che guardano solo a fatterelli e cacabandole, che vivono di attenzione a eventi secondari, senza saper leggere le grandi linee di pensiero e i grandi autori.
Manca un pensiero. Ricordo i miei docenti di teologia che, da giovane seminarista, mi ripetevano che l’assenza di una teologia chiara non vuole dire che non si abbia una visione e che ci si butti solo nella prassi: semmai il problema è che, non essendo adeguata la visione, anche la prassi risulterà menomata e inadeguata ad abbracciare la complessità dell’azione pastorale.
Insomma, non avere alcuna “teoria” è falso: equivale, invece, ad avere una cattiva e parziale “teoria” dell’agire pastorale.
Per questo, sento che appartiene al mio compito di servizio, alla mia missione, anche il lavorare a presentare la cultura con le sue grandi questioni e i suoi grandi maestri.
Senza un rapporto con i grandi maestri, finiamo per non saper ascoltare bene cosa ci chiede il presente e rischiamo di scambiare una visione effimera con le esigenze più vere e più profonde che attanagliano il dibattito contemporaneo sotteso alle chiacchiere, e questo paralizza e avvilisce una lettura dei segni dei tempi.
Tornare a leggere e a voler capire, voler essere “nani sulle spalle dei giganti”, è un imperativo di carità.