Wenders in stato di grazia. L’insieme degli “adesso” rende i giorni “perfetti”. La routine quotidiana del pulire cessi pubblici a Tokyo non è mai una somma di gesti ripetitivi per il memorabile personaggio del film – capolavoro di Wim Wenders. La visione di Perfect Days” è un vero e proprio atto rivoluzionario. Partecipi di una storia dove succedono pochissime cose perché, in fondo, in quel poco c’è la vita intera. E così ti immedesimi con il volto di quell’uomo nell’immensità dei suoi gesti umili e armonicamente perfetti, di Walter Gatti
Riprendiamo da https://www.centroculturaledimilano.it/linsieme-degli-adesso-rende-i-giorni-perfetti/, un articolo di Walter Gatti pubblicato il 24/2/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Cinema e Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (4/3/2024)
In un mondo di corse e di sbattimenti, di insulti e di emotività incontrollata, di pseudo-libertà e autentiche tirannie digitali, accomodarsi in platea per vedere “Perfect Days” di Wim Wenders è un atto rivoluzionario di portata planetaria.
Chi lo compie sa probabilmente già che nei 123 minuti di narrazione succede davvero poco. E soprattutto: nessuno si scazzotta, nessuno muore, nessuno scopa, non c’è sangue, e neppure tradimenti, cospirazioni o inseguimenti. Nessuno fa ragionamenti corretti.
E nemmeno scorretti, a volerla dire tutta, anche perché le prime parole vengono pronunciate dopo oltre 10minuti di storia. Per dirla in breve: accade poco dal punto di vista degli ingredienti abituali. Eppure succede tantissimo nella vita quotidiana di Hirayama, adetto alle pulizie dei cessi pubblici di Tokyo, che vive in un tugurio (tenuto però benissimo) in una periferia anonima della capitale nipponica.
“Ma chi te lo fa fare?
Il protagonista indiscusso del film – il quasi settantenne Koji Yakusho – passa il tempo a pulire water, lavandini, pavimenti, porta-carta igienica, specchi, porte a scorrimento. Lo fa con una dedizione sacrale, come se da quello che fa dipendesse tutto di lui e di ciò che lo circonda (e infatti il suo collega sfigato a un certo punto gli chiede: ma chi te lo fa fare ad essere così preciso?).
Il film racconta il tutto con una dedizione visiva analoga, sacra per l’appunto, seguendo il protagonista dalla mattina alla sera, istante per istante, dettaglio dopo dettaglio, fotogramma per fotogramma.
E tutto scorre sul grande schermo e tutto si replica pressocché identico a se stesso, per lo sconcerto (o il rapimento) dello spettatore: veglia, lavaggio e sistemazione dei baffi, vestizione con tuta blu, caffè (al distributore automatico), furgoncino nel traffico, arrivo per il lavoro alla toilette pubblica, gestione di un collega sfigato, eventi casuali collaterali (alcuni negativi, altri positivi), incontri inattesi (una ragazza, una nipote, una sorella ricchissima una pseudo-spasimante, un ex-marito della pseudo-spasimante), pranzo nel giardinetto da cui osservare il sole tra le foglie (uguali e sempre diverse, come anche i raggi che le illuminano), tante foto da fare con una piccola macchina fotografica, ritorno a casa, lettura di Faulkner, luce da spegnere, sonno ristoratore.
Quando è festa la routine cambia, perché si aggiungono i bagni pubblici, la libreria, il negozio che sviluppa le foto, il ristorante della pseudo-spasimante.
Quasi come in un monastero
Succedono cose, nel film, certo, ma impercettibili, quasi come in un monastero.
Ma la cinepresa non è tanto impegnata a cogliere le cose che capitano, quando il volto di chi le vive. Hirayama sta dentro le cose con una logica ferrea, e ad un certo punto dice alla nipotina (che è andata a trovarlo per cercare un po’ di riparo dalla ricca e si intuisce soffocante vita di famiglia): “Adesso è adesso. Un’altra volta è un’altra volta”. Adesso, insomma, è l’unica cosa che conta. L’insieme degli “adesso” crea, sembra sussurrare Wenders, i “perfect days”.
La cinepresa segue il volto del pulitore di cessi, si sofferma sui suoi occhi, sulle sue mani che puliscono e nettano e rendono scintillante il luogo meno cool di una metropoli.
E questo volto, e gli occhi che lo rendono così espressivo, si muovono su un preciso spartito musicale, rappresentato dalle canzoni che Wenders ha scelto per questo suo indimenticabile film.
Per il regista tedesco la musica non è mai un orpello, ma fa parte del plot (come per Scorsese) e contribuisce alla struttura della narrazione.
Nel 1974 per il suo Alice nelle città aveva voluto una delle band storiche del cosiddetto “kraut rock”, i Can, che avevano composto con lui la colonna sonora in poco più di 36 ore di lavoro continuo e comune. Per Paris-Texas aveva coinvolto il signore della musica delle radici americane, Ry Cooder. Per il Cielo sopra Berlino (1987) aveva voluto coinvolgere nelle riprese Nick Cave in una performance. E poi ancora: i mille pezzi celebri di Fino alla fine del mondo (dagli U2 ai Talkin’ Heads) o la colonna sonora di Non Bussare alla mia porta, curata da T Bone Burnett ancora con la partecipazione di Bono degli U2: ovunque c’è intensa cultura musicale e capacità di renderla utile. Ma in Perfect Days le canzoni si mostrano ancor più che nel passato come cartelli indicatori del discorso narrativo.
Il cantante Lou Reed
Un sorriso coraggioso e contagioso
A partire dal gioco esplicito realizzato sul titolo, che prende il via proprio da una canzone – Perfect Day – che Lou Reed ha inserito nel suo primo e leggendario album, Transformer.
Il protagonista ascolta il brano di Lou Reed in una delle tante mattine (I problemi sono stati lasciati soli, Fine settimana da soli, È così divertente, È semplicemente una giornata perfetta, Sono felice di averla passata con te, Pensavo di essere qualcun altro, pensavo di essere qualcuno di buono) in cui uscendo da casa guarda il cielo e indifferente alle previsioni meteo, affronta la giornata con un sorriso coraggioso e contagioso. Una giornata perfetta.
Giornate perfette, dice il titolo. Da una canzone al film. Conseguentemente perfetto è il modo di accordare la colonna sonora alla storia, avviluppandola come edera agli accadimenti. Patti Smith declama un suicidio in Redondo Beach, e la ragazza (che il collega di Hirayama sta cercando di rimorchiare) piange ascoltandola da una vecchia cassetta (non ci sono cd o mp3 nell’universo dell’ottimo pulitore di toilette).
Quando è giorno di festa, Hirayama se ne va in giro in bicicletta e lo accompagnano ironicamente i Kinks di Sunny Afternoon (Amo vivere così piacevolmente, Vivere questa vita di lusso, Amo oziare in un pomeriggio soleggiato). E poi ancora i Rolling Stone di Walkin’ Thru The Sleepy City, il Van Morrison di Brown Eyed Girl e la celebre House of the Rising Sun, proposta sia nella versione degli Animals, che in una versione giapponese (interpretata da Sachiko Kanenobu), che nel film fa parte di una delle sequenze più tenere e affettuose, quando il protagonista si trova nel ristorante della sua pseudo-spasimante scambiandosi occhiate sottili e intense.
Quel primo piano che dice tutto
Il finale è una sequenza banalmente epocale: primo piano su Hirayama che sta guidando al termine di vicende quotidiane, dentro il suo furgoncino, con una canzone che si prende la scena, Feeling Good di Nina Simone (È una nuova alba, È un nuovo giorno, È una nuova vita per me, e mi sento bene).
E mentre la voce della Simone si contrappunta con la sezione fiati del poderoso arrangiamento di Hal Mooney, sul volto di Hirayama – che è l’autentico palcoscenico dell’intero film – scorrono gioia, commozione, tenerezza, sconcerto, felicità, in un inseguirsi di fotogrammi che racconta una vita intera (e che fa ripensare allo scorrere delle visioni che accompagnano in primo piano il capitano David Bowman, nelle scene finali di 2001 – Odissea nello spazio, quelle in cui terrore e sgomento si mescolano nella sua caduta nell’infinito primordiale).
C’è una vita intera in poco più di un minuto, quell’adesso che è insieme gravoso e leggerissimo e che sta a suggerire la definitività dell’attimo e l’immensità del gesto quotidiano.
Ci sono oggi pochi registi in grado di sostenere questo tipo di immane leggerezza. Per dirne un paio: Aki Kaurismaki (anche il suo recentissimo Foglie al vento è da vedere e rivedere coraggiosamente) e Terence Malick, gente che sa portarti in un altro pianeta a partire (a volte) da un niente.
A proposito: di quest’ultimo, ormai da qualche anno, si attende l’uscita di Way of the Wind, un film in cui il regista dell’Illinois racconta la storia di Gesù Cristo. Data presumibile di uscita: ignota.