[I simboli nel cristianesimo primitivo. Il sorgere dell’iconografia paleocristiana]. L’anello che sigilla, di Fabrizio Bisconti
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 15/10/2021 un articolo di Fabrizio Bisconti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Roma e le sue basiliche e L’arte paleocristiana.
Il Centro culturale Gli scritti (4/3/2024)
I simboli della civiltà figurativa paleocristiana interessano l’intero mondo tardoantico e non solo le catacombe romane. Né è testimonianza un passaggio veloce del Paedagogus di Clemente Alessandrino, che rappresenta una sorta di manualetto del buon cristiano, un “galateo” da seguire nella comunità dei primi secoli.
Clemente Alessandrino nasce ad Atene intorno al 150, da famiglia pagana. Rare sono le notizie deducibili dalle sue opere, da integrare con alcuni rapidi passaggi di Eusebio di Cesarea, Epifanio e Girolamo. La sua formazione — sempre desumibile dalle opere attribuite — pare comportare una elevata cultura classica, una buona conoscenza della retorica, una sviluppata tensione verso la filosofia, verso la religione misterica e, più in generale, greca.
Si recherà — ancora giovane — in Italia meridionale, in Sicilia e in Palestina e approderà, intorno al 180, nella cosmopolita, multireligiosa e multietnica Alessandria di Egitto, dove si consumò la sua conversione al cristianesimo e dove conobbe il maestro Panteno. Questo ultimo segmento della sua vita intellettuale si configura come un estuario, dopo aver vissuto un elaborato processo di “alfabetizzazione” filosofica.
All’altezza di quegli anni, Alessandria, che si proponeva come seconda città dell’Impero, se non in postazione paritaria rispetto a Roma, si configura come un centro estremamente vivace e non solo — come è evidente — a livello economico, ma anche per quel che riguarda i pensieri, di tipo filosofico e religioso. Qui, si intrecciano i misteri, la cultura giudaica, proveniente dalla sintesi biblica e quella ellenistica, sulla scorta di Filone Ebreo, lo gnosticismo e le eresie, che emergono con Basilide, Valentino e Carpocrate, le scuole filosofiche alte e basse, sino ai livelli della chiromanzia.
La tradizione racconta che Panteno era stato discepolo di Giovanni l’Apostolo e che ad Alessandria la comunità cristiana era stata fondata da Marco l’Evangelista. Al di là di queste notizie, avvolte nelle nebbie dell’affabulazione, pare certo che la scuola di Panteno era privata e laica, tanto che pare poco probabile — nonostante un cenno di una lettera di Alessandro di Cesarea riportata da Eusebio (Historia Ecclesiastica VI , 11 , 6) — sia stato ordinato presbitero.
Il Didaskaleion di Panteno ebbe come successore proprio Clemente e tra i suoi discepoli c’era anche Origene. Sembra che tra il 202 e il 203, Clemente si sia stabilito in Cappadocia, presso il suo allievo Alessandro, futuro vescovo di Gerusalemme e protettore di Origene. Questo spostamento — secondo alcuni storici del cristianesimo — fu dovuto alle persecuzioni di Settimio Severo, ma è più probabile, che siano intervenute incomprensioni con l’accentratore vescovo Demetrio. La sua biografia, difficile da ricostruire, oscillante tra dati sicuri e ipotesi fumose, si conclude con la morte nel 215.
Tra le sue opere, dobbiamo ricordare il Protrettico, una sorta di apologia, sul tipo di quelle di Atenagora, Taziano e Giustino; gli Stromata, un insieme di appunti, presi per le sue lezioni al Didaskaleion; l’omelia Quale ricco si salverà?, che è un commento a Marco 10, 27 e, appunto, il Pedagogo, sul quale ci stiamo soffermando.
Tra i diversi atteggiamenti da tenere, Clemente raccomanda di usare gli anelli non per ornamento, ma per sigillare in conformità alla cura dell’economia domestica. In vero, se tutti fossero educati, non ci sarebbe neppure bisogno di sigilli, essendo ugualmente onesti sia i servi che i padroni, ma poiché la mancanza di educazione contribuisce molto a rendere disonesti, siamo costretti a usare i sigilli.
«Quanto alle figure sul nostro sigillo, esse siano una colomba o un pesce o una nave spinta dal vento o una lira musicale, come quella che aveva Policrate, oppure un’ancora di nave come portava incisa Seleuco, o infine, se uno è pescatore, si ricorderà dell’apostolo e dei fanciulli salvati dalle acque. Ma non dobbiamo portare incisi i volti degli idoli, ai quali ci è stato vietato prestare attenzione, e neppure una spada e un arco, noi che perseguiamo la pace, né una coppa, noi che pratichiamo la sobrietà. Molti tra i debosciati portano addirittura incisi [sui loro anelli] i propri amanti o le concubine, quasi che non volessero avere neppure la possibilità di dimenticare mai le loro passioni erotiche, con questa costante rimembranza della loro lussuria» [Il Pedagogo III,59,1)].
Il celebre passo di Clemente dimostra che l’uso dei simboli era molto diffuso nei primi secoli e che interessava anche gli oggetti di uso quotidiano. Questa prassi, in uso pure tra le classi elevate della societas cristiana, ci parla della grande valenza significativa dei simboli, che apre un estuario cristologico e salvifico.