Il capolavoro di Caravaggio riletto in base alla collocazione originaria nella chiesa di Santa Maria in Vallicella. Come parlerebbe la "Deposizione", di Marco Agostini
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Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 5/1/2011 un articolo scritto da Marco Agostini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli su Caravaggio, vedi su questo stesso sito la sezione Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (7/1/2011)
La Deposizione di Cristo nel sepolcro di Caravaggio è una delle più celebrate opere dei Musei Vaticani; nell'Ottocento fu copiata a mosaico sull'altare della sagrestia della basilica Vaticana. Tra i primi dipinti pubblici dell'artista, fa parte di quella produzione della maturità che racconta episodi drammatici della religione, attraverso forme di straordinario impatto evocativo, che rinnovano profondamente l'iconografia tradizionale del fatto sacro. È una vera e propria sacra rappresentazione avvolta da un misterioso silenzio in cui la luce, che è più di quella naturale, irrompe con forza propria dall'alto e indaga ansiosa i corpi scultorei degli attori impegnati in gesti semplici e ieratici, cadenzati da un ritmo arcano. L'opera è pervasa da un'altissima tensione morale densa di riferimenti autobiografici che la storiografia artistica non ha mancato di rilevare.
Il dipinto mira all'essenziale; non all'ambiente, al giardino - qualche sasso e un arbusto - in cui l'avvenimento accade. Rari bagliori evocano il luogo, possibile ovunque, sepolto nell'ombra. Solo il lastrone di pietra su cui poggia il gruppo ha un ruolo pari ai personaggi che sostiene. La pietra e i movimenti dei protagonisti sono bloccati in scorci arditi, l'evidenza plastica dei corpi e delle poche cose emerge dal buio, il sorprendente classicismo fatto di essenzialità e solennità scaturisce dalla realtà stessa nel momento in cui questa è rivelata dalla luce. Qui c'è tutto di Caravaggio: l'uomo dalla vita tormentata e il pittore.
La storia e la critica d'arte, tuttavia, non bastano a rendere giustizia a un simile quadro perché in esso c'è qualcosa che si muove più in profondità e che, per essere percepito, abbisogna di una condizione fisica e spaziale diversa e pure di una sensibilità visiva diversa. Per intercettare questa eccedenza il quadro andrebbe rimesso in libertà sull'altare nella Cappella della Pietà della Chiesa di Santa Maria in Vallicella. Nella Chiesa Nuova, agli occhi del sacerdote e dei fedeli, durante la celebrazione del Divin Sacrificio, si vedrebbe anche il Caravaggio credente.
Il monumentale dipinto fu eseguito tra il 1602 e il 1604, su commissione di Girolamo Vittrice, nipote di Pietro, morto il 26 marzo del 1600, per la cappella della chiesa degli Oratoriani dove lo zio era stato sepolto. Nel 1602 la cappella era in rifacimento. C'è chi osserva che, essendo Girolamo uomo di poche lettere, la teologia del dipinto potrebbe essere stata suggerita al pittore dagli Oratoriani. È probabile, anche se la sapientia cordis, che proviene dalla partecipazione credente ai sacramenti, ha riservato e riserva ancora grandi sorprese.
È sincero il desiderio del committente di dotare la cappella di un'opera sublime che aiuti i vivi ad associare la messa al ricordo dei defunti, che renda visibile lo slancio a trarre refrigerio dal Sacrificio di Cristo. Sull'altare la realtà fisica della Deposizione modellata dalla luce tornerebbe a parlarci del soprannaturale, delle verità della fede, della vita eterna, tornerebbe a sussurrare le antiche parole pronunciategli innanzi per secoli: Hoc est enim corpus meum, le parole della consacrazione che transustanziano il pane nel Corpo di Cristo. All'elevazione il sacerdote e i fedeli scorgerebbero l'ostia sovrapporsi al corpo sacrificato di Gesù sceso dalla croce; il loro sguardo, non smarrito nel vuoto ma fisso sull'ostia, intercetterebbe il crocifisso dell'altare e vedrebbe nell'immagine dipinta ciò che il sacramento vela.
Al sacerdote diverrebbe manifesto che la funzione della pietra tombale è quella di proiettare verso di lui il Corpo di Cristo per offrirglielo al momento della transustanziazione; in quell'attimo tremendo egli si troverebbe, d'un tratto, sodale di Nicodemo e di Giovanni nel trasporto di quel corpo tornito dalla luce e palpitante di viva bellezza. L'officiante, più di ogni fedele, si identificherebbe nell'apostolo Giovanni e sentirebbe amico Nicodemo, girato verso di lui, col suo volto scavato di contadino posto in evidenza dal mantello rosso dell'apostolo. Lo sguardo del discepolo che "andò da Gesù di notte" - di cui si intuisce l'intensità ma non la consistenza - è una stoccata lancinante nell'anima di chi osserva. La sua bocca socchiusa rivolge al sacerdote domande importanti: "Lo ami anche tu davvero? Ami veramente il Corpo di Cristo che hai tra le mani? Completi anche tu nella tua carne ciò che manca ai patimenti di Cristo?".
La proposizione artistica dell'avvenimento storico della deposizione nel sepolcro è pacata meditazione della messa. La messa non è una rappresentazione simbolica, ma l'effettiva ripetizione e riproduzione del sacrificio del Calvario, l'atto più fortemente drammatico della storia umana, dramma divino. Il dipinto è un canto formale incontenibile di ciò che i gesti del sacerdote attualizzano per ciascuno, dell'offerta redentrice di Cristo Agnello che toglie i peccati del mondo. La pietra su cui poggia l'intero gruppo, con il suo protendersi al di qua della linea di superficie, appuntata verso chi guarda, davvero "pietra angolare scartata dai costruttori", è troppo in evidenza e troppo al centro per essere solo la base d'appoggio del gruppo, il coperchio di un sepolcro o "la pietra dell'unzione": è la pietra dell'altare, l'immagine del Golgota su cui era stata conficcata la croce di Gesù, è la pietra su cui il Salvatore fonda la sua Chiesa - la mano cadente sembra indicarlo - sempre di nuovo nata dal sacrificio.
Su quella pietra Cristo, avvolto nel lino bianco, è deposto dalle mani pie di coloro che gli volevano bene e riceve il bacio da Giovanni. Quando il sacerdote, compiuta l'elevazione, depone l'ostia sul lino del corporale, sull'altare, ripete ancora con una carezza quel gesto di amore, anch'egli bacia l'altare. Questa pietra trasfigura il semplice altare delle nostre chiese nell'inaccessibile e splendente trono del Dio che giace su di esso.
La vita e la gioia duellano, nel contrasto tra luce e tenebra, con la morte e il dolore, ma la luce ha il sopravvento: è certo il ritorno alla vita. Di spalle al gruppo del Cristo morto si affacciano, dalla tenebra densa della notte e dal silenzio, tre donne a ripetere altri gesti che il sacerdote compie, all'inizio del canone, per benedire e consacrare le materie sacrificali: allargano, alzano, abbassano e congiungono le mani. Maria di Magdala, asciugato il pianto, medita l'avvenimento, adora il mistero e attende l'incontro nel giardino il mattino di Pasqua: è la Chiesa che ama. Maria, la Madre di Gesù, raccoglie in un unico abbraccio Giovanni, Nicodemo e Maria di Magdala, e contempla il Figlio morto, pare pronunci l'orazione della messa con la quale il sacerdote accompagna l'offerta del pane Suscipe sancte Pater, hanc immaculatam hostiam: è la Chiesa che offre e spera. Maria di Cleofa alza le mani, il volto, gli occhi al cielo, personificazione dell'orazione della Chiesa: è la Chiesa che crede.
Le tre Marie, simbolo delle virtù teologali, sono immagine della Chiesa nella messa e nella vita pratica la Carità, la Speranza e la Fede. Nello spazio spoglio e disadorno e nell'essenzialità assoluta dei movimenti, la verità della fede è espressa attraverso la sintesi e i gesti lenti carichi di intensità eloquente. In tali atti nulla v'è di tragico o angosciante, di scomposto o gridato, tutto è silenzio come nel canone: i personaggi hanno coscienza di non essere rassegnati testimoni di un fattaccio di cronaca nera, o ambasciatori di un muto cordoglio, ma annunciatori dell'avvenimento più importante al mondo, liturghi di un rito di dolente moralità che la luce radente rende toccabile e che i colori bianchi, bruni verdi, rossi e turchini rivelano pervaso d'intima speranza.
Scriveva il cardinale Ratzinger: "Nella passione di Cristo (...) l'esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire il volto, sputare addosso, incoronare di spine (...) Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l'autentica, estrema bellezza: la bellezza dell'amore che arriva "sino alla fine" e che, proprio per questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l'ultima istanza del mondo. Non la menzogna è vera, bensì proprio la verità. È un nuovo trucco della menzogna presentarsi come verità e dirci: al di là di me non c'è in fondo nulla, smettete di cercare la verità o addirittura di amarla, così facendo siete sulla strada sbagliata. L'immagine di Cristo crocifisso ci libera da questo inganno oggi dilagante. Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme con lui e crediamo nell'Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza" (La bellezza. La Chiesa, Castel Bolognese, Itaca, 2005, pp. 25-26).
(©L'Osservatore Romano - 5 gennaio 2011)