[Il dramma del teatro e della cultura degli anni ’80 e ’90, talvolta elitari e incomprensibili. Come tornare ad essere popolari?] Un intervento di Francesco Ferdinando Brandi al Festival de Gli scritti
Riprendiamo sul nostro sito la trascrizione di un intervento di Francesco Ferdinando Brandi al Festival de Gli scritti, tenutosi il 22/9/2023. Il testo non è stato rivisto dall’autore e conserva il carattere di intervento a voce nel corso di un pubblico dibattito. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educazione e cultura e Cinema e teatro.
Il Centro culturale Gli scritti (24/3/2024)
Partiamo da Prestazione occasionale,[1] visto che è stato immeritatamente citato[2].
Perché ho scritto quel testo? Perché nell’arco di un paio di anni mi è capitato di incontrare, di ascoltare, storie di donne, chi sposata, chi in cerca disperata di un fidanzato, tutte disperate all’idea di non poter avere un figlio, come avevano stabilito.
Tutte ovviamente un po’ âgé. Questo problema non è che se lo sono poste ai 25 anni: se lo ponevano giustamente tra i 35 e i 40, quando cominciano a scattare i campanelli: “O adesso o mai più”. Alcune si sono sottoposte a delle torture, ma veramente delle torture, per risolvere la chimera di avere un figlio.
Poi veramente il destino - o la fatalità - è beffardo ed è superiore a qualsiasi drammaturgo: qualcuna ha scoperto che lei un problema lo aveva, ma che il vero problema lo aveva il suo compagno che era sterile. Mi hanno raccontato anche di un’altra che si è bombardata, che per avere il secondo si è massacrata.
E quindi ho detto “Ma come è possibile questa cosa?”
Se io provavo a dire “Ragazzi, ma forse è esagerato”, mi sentivo rispondere: “Zitto tu che i figli ce l’hai e non puoi capire”.
Dico questo per dire cosa? Per dire che la cultura può essere questo, cioè raccontare un problema che è sulla pelle di persone vere che incontriamo tutti i giorni, forse sulla nostra o di nostra sorella o forse del mio migliore amico e poterlo mettere in una forma giocosa, scherzosa, paradossale, per far arrivare ancora meglio il senso di quanto può essere problematico un accanimento forse da evitare.
Uno dei primi esami universitari mi poneva davanti il problema se il teatro dovesse divertire o educare. Questa questione parte da Aristotele ed è sempre stata riproposta. Da quando esiste il teatro ci si è posto il problema: “Che deve fare il teatro? Deve essere intrattenimento, deve essere cultura, deve essere indottrinamento?” Ovviamente le varie epoche storiche e politiche hanno dato le loro risposte.
Mi ricordo che il mio maestro Sergio Fantoni mi diceva che negli anni Settanta non potevi assolutamente pensare di fare una commedia a teatro: se lo facevi, ti sparavano! Dovevi metterti il dolce vita nero e fare cose noiosissime, rotture di scatole incredibili e tutti ti acclamavano!
E oggi? Che succede oggi?
Oggi io vedo che la cultura è diventata una roba da élite. Avverto - io ho tre figli, abbastanza piccoli ancora, ma che frequentano ragazzi magari più grandi di loro - che la cultura sembra più da boomers.
Quando provi a proporre loro qualcosa di cultura, ti dicono: “Ma dai, papà!”
Però poi leggono, però poi si appassionano, però poi guardano i tutorial su YouTube di qualsiasi cosa e se ne escono dicendo a tavola: “Ma lo sai che la Supernova X257 ha queste caratteristiche, ecc. ecc.”
Io li guardo e penso: “Ma tu non eri quello a cui non interessava la cultura?”
Allora perché la cultura è noiosa? E perché invece la curiosità non lo è?
Perché cercano la curiosità e non cercano la cultura?
Forse il problema è che chi fa cultura dovrebbe porsi un problema di comunicazione.
Shakespeare! Se dico loro. “Domani vi porto a vedere Shakespeare”, mi rispondono: “Ma mannaggia la miseria. Ma perché? Ma davvero? Ma per forza? Ma in cambio domani mi compri questo o quello?” – quasi fosse un sacrificio che deve essere ricompensato.
Eppure Shakespeare era il massimo divertimento alla sua epoca.
La gente correva, si accapigliava, per andare a vedere Shakespeare
Andare al Globe, al Rose, a vedere gli spettacoli di Shakespeare, era un godimento per i londinesi dell’epoca.
Goldoni? “E daje… dai, papà, non scherziamo, no!”
Eppure Goldoni sbancava. Goldoni scriveva una quantità incredibile di commedie: lui voleva far soldi, voleva sbancare, voleva vendere biglietti e ci riusciva e gli impresari lo cercavano.
Oggi Goldoni viene visto come una cosa barbosa e noiosa - parlo sempre dei miei figli!
Però forse anche da noi! Se qualcuno qui dice: “Andiamo a vedere uno spettacolo di Goldoni”, forse l’altro dice: “Boh? Perché c’è un tuo amico che ci recita? Perché dobbiamo fare questa cosa?”.
Un altro esempio che mi veniva in mente era Feydeau, forse più vicino a noi. Ancora lo percepiamo come qualcuno che fa molto ridere, ma era un castigatore terribile della società, era violento rispetto alla borghesia del suo tempo. Erano degli spettacoli teatrali divertenti, ma per raccontare una società in declino, una borghesia ormai spappolata, priva di valori.
Però come lo faceva? Inventando letti che giravano, mettendoci le cocottes, storie di corna quante ne volete!
Allora il problema - mi sembra - sia quanto la cultura riesca a essere pop, popolare. La cultura credo che debba essere popolare e il teatro debba essere popolare.
Io ricordo, quando ero ragazzo, la mia prima formazione teatrale avvenne a cavallo degli anni ‘80 e ’90, in Toscana, dove viveva il grande spettro del Centro di ricerca teatrale di Pontedera, fondato da Jerzy Grotowski. Era uno che, anche con quattro grandi sotto zero, camminava con i sandali: perché il teatro – si diceva - è principalmente sofferenza! Poi eventualmente il resto! Le prove di Grotowski consistevano in due ore di esercizi fisici propedeutici prima di fare qualsiasi cosa; quando poi eri morto, “spaccato”, boccheggiante, allora si poteva cominciare a fare anche qualcosa che assomigliava al teatro.
Il teatro toscano di quell’epoca viveva sotto l’ombra di questa roba, quindi qualsiasi tentativo di fare una roba un po’ più leggera era visto come qualcosa di poco culturale.
Ora, io per un po’ c’ho creduto e poi ho cominciato a maturare una mia coscienza critica e ho cominciato a dire: “Va bene, ok. Ma quanti siamo stasera in questo teatro? 40, 50, 60? E questo deve rifondare il teatro?”
E mi dicevo: “Ma quello là che qualcuno l’ha convinto stasera a venire a teatro, dopo anni che non va ad uno spettacolo, e viene a vedere questa immane rottura di scatole?”
Ma tira via pure la rottura di scatole, il problema è che non capivi nulla. Cioè dovevi avere quattro lauree laurea in filologia romanza per poter capire cosa stavano facendo sul palco.
Erano spettacoli dove tu dovevi avere un libretto di istruzioni, un tutorial. Ci voleva qualcuno che poi dopo ti spiegava: “Questo spettacolo è fondamentale, è importantissimo!”
Serviva uno che ti spiegava quel pippone immane. E poi dicevi comunque: “Non ho capito niente lo stesso, va bene, grazie”.
Mi dicevo: “Ma quello là, che magari fa un lavoro semplice, magari non è laureato - per carità, rispetto per i laureati -, e l’hanno convinto a venire a teatro, ma quanti anni ci vorranno perché rimetta piede in un teatro dopo aver visto questo spettacolo?”
E così ci siamo giocati il teatro.
A furia di fare un teatro complicato, elitario, che rifugge il popolare, l’essere popolare – parlo del teatro perché è il mio mondo, è il mio lavoro, è il mio problema quotidiano, ma il discorso vale anche per la cultura in generale – la gente si è allontanata.
E noi diciamo: c’è la crisi del teatro, perché c’è Netflix, perché c’è Prime. Ma dai, è quello il problema?
E perché allora a Parigi ci sono 350 teatri di cui la maggior parte sono pieni? I francesi non hanno Netflix o non hanno Prime?
Allora il problema è l’offerta nostra! Finché l’offerta culturale rimane scollegata, lontana, poco preoccupata di arrivare come arrivava Shakespeare, come arrivava Goldoni… Bisogna fare della buona cultura, preoccupandosi del destinatario e non preoccupandosi di sé stessi, di quella ristretta cerchia di amici, di accoliti, di gregari, che ti dicono: “Bellissimo, bellissimo, quell’intervento stupendo, quando hai citato quella cosa, fantastico!”
Ancora una cosa. Io ho una foto[3] scattata con i miei figli al termine della lettura di Harry Potter. Dopo due anni siamo arrivati alla fine de I doni della morte - avevamo letto i diversi volumi per due anni ogni sera. Arrivati alla fine, abbiamo fatto una foto con tutti e sette i volumi e loro contentissimi. Harry Potter è cultura?
Cavolo se è cultura!
È intrattenimento altissimo ed è cultura […]
Non dobbiamo essere come quelli che Guareschi chiamava trinariciuti. Quelli che alzano le narici, che arricciano il naso in segno di superiorità.
“Via, ma non è cultura questa!”: i trinariciuti arricciano talmente le narici che ne hanno tre!
Non bisogna essere trinariciuti, bisogna cogliere tutto ciò che può essere cultura e tutto ciò che può essere popolare.
Penso e credo che la cultura debba andarselo a cercare il pubblico, non stare lì ad aspettare che il pubblico abbia una illuminazione e decida: “Sì, è vero, io debbo dedicarmi alla cultura”.
La cultura deve andare a cercarsi la gente. Se c’è poca gente, bene, fate qualcosa, facciamo qualcosa, perché la gente senta la cultura non come una cosa lontana, ma come una cosa che gli appartiene e che può cambiargli la vita.
[1] Su Prestazione occasionale, cfr. “Prestazione occasionale”: una proposta spiazzante. Un’intervista a Francesco Brandi di Andrea Simone.
[2] Per una recensione ad un’opera recente di Brandi, che esemplifica ulteriormente quanto si afferma nel suo intervento, cfr. Fra’. San Francesco, la superstar del medioevo di Giovanni Scifoni con la regia di Francesco Ferdinando Brandi. Breve recensione di Andrea Lonardo.
[3] Durante l’incontro si era fatto riferimento ad un’esperienza di lettura de Il signore degli anelli insieme ai figli, i quali avevano scritto nell’ultima pagina del libro che il padre aveva letto con loro: “Oggi abbiamo finito la lettura. È stato bellissimo”. Cfr. su questo: Il Signore degli anelli non è un libro per single! Un papà e i suoi 2 figli leggono Tolkien dall’inizio alla fine per 2 anni e ½. Ecco cos’è l’educazione. Breve nota di Andrea Lonardo.