Il paradosso biblico della Terra di Israele nell’Antico Testamento, secondo l’esegesi moderna “canonica” e storico-critica. Una riflessione scritturistica complementare alle discussioni di politica internazionale su Israele e Palestina, di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una recensione di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni e Sacra Scrittura, I luoghi della Bibbia e della storia della chiesa e Per la pace contro la guerra: mitezza e violenza.
Il Centro culturale Gli scritti (13/2/2024)
N.B. Le considerazioni che seguono non intendono assolutamente toccare tutti i punti della questione, né da un punto di vista storico, né da un punto di vista di diritto e politico. Intendono solo aggiungere al dibattito attuale alcune considerazioni teologiche e scritturistiche che hanno anch’esse un determinato peso.
1/ Israele/Palestina e i palestinesi musulmani e cristiani
Esiste un contributo che, per quanto indiretto, possa essere dato dalla ricerca teologica in merito al rapporto fra terra e popolo ebraico nelle Scritture e in merito al rapporto dell’Islam e dei palestinesi con la medesima terra?
Vale la pena, per una corretta lettura della storia che ha rilievo anche nella comprensione del presente, ricordare che una sola volta Maometto, secondo la tradizione islamica, sarebbe giunto a Gerusalemme. Essa è chiamata in arabo Al-Quds – cioè “la [città] santa – proprio a motivo del viaggio notturno che il profeta fece portato da una “cavalcatura alata”, dalla Mecca a Gerusalemme, per salire poi “in cielo” in quella notte e ricevere rivelazioni ed essere infine ritrasportato alla Mecca tramite la stessa cavalcatura alata, nota dalle fonti islamiche come Burāq – sulla questione di tale pretesa islamica cfr. Nomi arabi e nomi ebraici: l’UNESCO cancella la storia chiamando solo Al-Aqṣa Mosque/Al-Ḥaram Al-Sharif e non anche Bet HaMikdash, Har HaBayit o Temple Mount la spianata del Tempio o delle Moschee. Breve nota storica sui fondamenti di una discussione importante. Breve nota di Andrea Lonardo.
Un aiuto alla comprensione di tale episodio passato dovrebbe essere apportato dalle università che hanno il compito di fornire alle nuove generazioni islamiche gli strumenti critici e scientifici per valutare le fonti e discernere ciò che è storico e ciò che non lo è.
Qualunque cosa si pensi di tale episodio raccontato nelle fonti islamiche, ciò che è certo è che le armate islamiche giunsero a Gerusalemme e la conquistarono immediatamente dopo la morte di Maometto, dopo un assedio di sei mesi nell’anno 637. Ciò avvenne esattamente 5 anni dopo la sua morte. In pochi anni, dal 637 al 640 (l’anno in cui cadde infine Cesarea Marittima, il grande porto, attaccata secondo le fonti da 17.000 soldati arabi), le armate musulmane conquistarono l’intera Palestina e assalirono contemporaneamente l’Egitto.
Un lento processo di islamizzazione portò nei secoli ad una estrema riduzione della presenza cristiana, ma ancora oggi molti dei palestinesi sono rimasti cristiani, resistendo in ben millequattrocento anni di sottomissione – anche a Gaza è superstite una piccolissima comunità cristiana che è erede delle tradizioni antiche da ben prima di quel 637-640 che vide la fine del governo bizantino in quelle terre, e che si è via via arabizzata.
A sua volta il cristianesimo era lì sorto a motivo del Cristo, sotto dominazione romana.
Erano stati i romani “pagani” a togliere giurisdizione alla popolazione ebraica, ponendo fine alla relativa indipendenza con le armi, mentre il cristianesimo vi era giunto non con armato, ma a motivo di una progressiva cristianizzazione avvenuta in forma pacifica all’interno dell’impero che prima aveva perseguitato la fede cristiana e poi l’aveva via via accolta.
La diaspora ebraica si deve, quindi, con evidenza non ai cristiani, ma a Roma, al tempo in cui era ancora pagana.
I cristiani sono gli unici a non chiedere un possesso territoriale in Israele/Palestina, ma chiedono che sia conferito loro il diritto di essere cittadini a tutti gli effetti e non minoranza di serie B.
Comunque ai primi secoli, a partire dal 637, di dominio arabo seguì un periodo di dominio sempre islamico ma delle popolazioni turche a partire prima dai mamelucchi e poi degli ottomani – durato quasi otto secoli – che impoverì estremamente la popolazione araba locale, poiché tutti beni e la cultura vennero “traferiti” a Costantinopoli/Istanbul – non si deve mai dimenticare che le due popolazioni musulmane degli arabi e dei turchi non hanno quasi mai avuto buoni rapporti nei secoli.
Al dominio turco seguì quello brevissimo occidentale, di circa ventinove anni, del Mandato Britannico che, pur non potendo per ovvie ragioni di durata, fare più danni di quello ottomano, nondimeno non ha contribuito allo svilupparsi del paese.
Dal 637 in poi, le popolazioni arabe hanno abitato la terra vivendo prima sotto dominio ottomano, poi sotto quello del Mandato inglese e poi, con forme alterne, sotto la Giordania e l’Egitto e poi con parziali concessioni di libertà israeliana, ad eccezione degli arabi rimasti in Israele dopo il 1948, i cosiddetti Israeli Arabs che sono cittadini israeliani.
2/ Israele/Palestina e le Sacre Scritture ebraiche
Se si guarda alla terra con gli occhi delle Scritture ebraiche e con la storia del popolo d’Israele, il rapporto con la terra è molto più decisivo che quello che ha con essa il popolo palestinese. Se quest’ultimo non ha una storia religiosa peculiare di rapporto con quella terra – a parte il viaggio notturno del profeta – ha dalla sua, invece, tanti secoli di permanenza, dovuti però all’espulsione di Israele.
Israele, dai luoghi in cui dovette fuggire, ha sempre cantato alla terra d’Israele come al suo grande desiderio. L’espressione con cui si chiude il seder pasquale – “L’anno prossimo a Gerusalemme” – è esemplare di questo anelito che non è mai mancato in alcun tempo e in alcun luogo.
Il Tempio non è per Israele il luogo in cui è avvenuto un fatto religiosamente importante durato una notte, bensì è il centro – in ebraico si dice semplicemente hammaqom, il “luogo”, per eccellenza – di ogni promessa e di ogni attesa.
Ovviamente nella disputa su di esso tutto è complicato non solo dal fatto, unico nella storia, che due religioni guardino allo stesso luogo come sacro, ma ancor più dal fatto che i musulmani si dichiarino figli di Abramo, ma ritengano totalmente false le Scritture di Israele e disconoscano anche storicamente la storia di Israele, per cui non prendono nemmeno in considerazione che quello sia “almeno” anche il luogo di Israele.
Per gli arabi musulmani, la storia biblica di Israele, così come la racconta l’Antico Testamento, è semplicemente falsa per cui nemmeno la leggono – nessun musulmano legge la Bibbia, a differenza dei cristiani che ritengono ispirata da Dio ogni parola dell’AT, perché secondo la rivelazione coranica essa è falsa e falsificata dagli ebrei e dai cristiani. Ciò che dei diversi personaggi biblici è ritenuto vero è ciò che è raccontato di loro nel Corano che fornisce avvenimenti molto diversi da quelli biblici, ne tace molti, e ne aggiunge altri.
In realtà, non c’è alcun dubbio che l’Antico Testamento contenga la promessa di Dio della terra al suo popolo Israele.
Ci sono però considerazioni di tre tipi che vanno evocate per comprendere più criticamente il contributo della Bibbia alla discussione.
A/ Innanzitutto una considerazione che si è sviluppata solo nei moderni studi storico-critici sugli eventi della storia veterotestamentaria.
L’esegesi moderna e ancor più modernissima dubita fortemente di molti episodi, soprattutto di quelli precedenti all’esistenza dei due regni di Giuda e di Israele divisi fra di loro.
Nessuno oggi crede più alla conquista di Gerico – solo per fare un esempio – ed i racconti di conquista sono proprio quelli che rendono problematica la lettura della Bibbia anche agli stessi cristiani palestinesi che non vi si riconoscono e che non sanno come interpretarli, al punto che qualcuno chiede che non siano nemmeno letti nella liturgia.
Oggi l’esegesi moderna ha evidenziato che non solo essi hanno bisogno di una lettura allegorica, - come è sempre avvenuto – ma che la conquista, così come è descritta, ad esempio, nel libro di Giosuè, non è mai avvenuta (Cfr. sulla questione i diversi approcci in Brani di difficile interpretazione della Bibbia: il Libro di Giosuè (da J.-L. Ska, J.L. Sicre, Origene, A. Lonardo)).
B/ Ma gli studi biblici moderno mettono in risalto anche che le tre grandi sezioni della Scrittura ebraica si chiudono tutte in maniera aperta, con una terra che in quel momento non è ancora in pieno possesso di Israele oppure è stata persa e deve essere riabitata.
Questo permette di ricordare come il rapporto di Israele con la sua terra, pur essendo indiscusso, è sempre stato problematico, da un punto di vista biblico e teologico.
Lo ricorda J.L. Ska che ha mostrato, con una lettura di rara profondità, come le tre grandi sezioni della Bibbia ebraica si chiudano tutte in maniera aperta[1]:
-la Torah (in greco Pentateuco) si chiude con la morte di Mosè fuori della Terra promessa e con una Terra che ancira tutta da conquistare e che non è ancora realtà,
-i Nebiim (i profeti) si chiudono con l’ultimo capitolo di Malachia, che narra di un tempo in cui probabilmente il popolo non aveva ancora ricostruito il Tempio, ed è un annuncio del ritorno di Elia che dovrà purificare Israele nel futuro,
-i Ketubim (gli “scritti”, i nostri sapienziali), si chiudono con l’ultimo capitolo del secondo libro delle Cronache che annunzia che Israele in esilio potrà tornare a Gerusalemme su invito del re Ciro di Persia.
Insomma, si potrebbe dire da un punto di vista biblico che la promessa della terra è certa, ma che la Scrittura dice che poi essa è sempre ancora da ottenere, perché è sempre stata persa, così come il Tempio è sempre stato distrutto. Di fatto la storia di Israele, prima della ricostituzione dello Stato di Israele nel 1948, è storia di una terra persa al tempo dei romani, ma, in fondo, anche prima.
È un paradosso di Israele che la terra (che è promessa) e il Tempio (che è il luogo della presenza stessa di Dio) siano nella Scrittura e nella storia coeva al Nuovo Testamento l’una persa e l’altro distrutto.
c/ Un altro grande questione biblica va evocata e precisamente il fatto che ad Israele è certamente promessa quella terra, ma non in esclusiva. Sono numerosissimi i brani che chiedono al popolo eletto di aver cura dello straniero che dimora nei propri confini. Da questo ulteriore punto di vista teologico, non è da escludere a priori una visione dove l’intera terra di Israele possa essere tutta un unico Stato, cioè lo Stato di Israele – cosa ovviamente inaccettabile per Hamas e per molti palestinesi, ma di fatto accettata dai cosiddetti Israeli arabs, palestinesi con passaporto israeliano – dove però i palestinesi non siano cittadini di serie B, bensì cittadini a tutti gli effetti. (cfr. su questo recentemente Israeliani e palestinesi insieme con un solo Stato e l’autonomia. Due milioni di arabi sono già cittadini integrati e vi sono promettenti esperienze di convivenza. Servirebbero vera uguaglianza di trattamento e la possibilità di uno statuto giuridico proprio, di Antonio Mattiazzo).
La prospettiva ebraica non si basa solamente sul diritto di ogni popolo ad avere una terra, sancito dal diritto internazionale – ciò vale anche per i palestinesi – ma anche e ancor più su di una promessa di tipo religioso.
Ovviamente tale lettura teologica è differente da quella cristiana la quale, leggendo i testi sulla terra d’Israele in senso allegorico, come annuncio di una vita in piena comunione con Dio, non rivendica il possesso di alcun territorio.
Appendice. Un brano di Francesco Rossi de Gasperis che aiuta a comprendere la complessità della questione
da Francesco Rossi de Gasperis S.I., L’intifada palestinese, una pietra sul dialogo ebraico-cristiano?. In "Mondo e Missione", marzo 2002 (il testo è stato ripreso da una riproduzione on-line non autorizzata dall’autore)
Ho cercato di indicare alcuni criteri di interpretazione che evitino […] strumentalizzazioni di destra e di sinistra, nel mio Excursus: "Creazione, alleanza, escatologia", in: F. Rossi de Gasperis-A. Carfagna, "Prendi il Libro e mangia!", vol. I: "Dalla Creazione alla Terra promessa" (Bibbia e spiritualità, 3), Edb, Bologna, seconda ristampa 1999, 287-381, spec. 372-379. Si potrà vedere anche il nostro secondo volume: "Prendi il Libro e mangia!", vol. II: "Dai Giudici alla fine del Regno" (Bibbia e spiritualità, 7), Edb, Bologna 1999, 9-20.
Il dono della terra a un popolo particolare da parte dell’unico Dio di tutti non crea in quel popolo alcun "diritto esclusivo" di proprietà, quando la vocazione divina designa lo stesso popolo a una funzione sacerdotale a beneficio di tutti gli altri. Né palestinesi né ebrei - e nemmeno italiani o "extra-comunitari" - hanno diritto di possedere esclusivamente un determinato paese. La terra è di Dio e noi siamo presso di lui come forestieri e inquilini (Lv 25,23). Il dono della terra a Israele è sempre stato, attraverso i secoli, legato ai contesti e ai condizionamenti socio-politici del momento. Oggi queste condizioni si esprimono nelle dichiarazioni delle Nazioni Unite, che impongono una convivenza ai due popoli sull´unica terra Israele-Palestina. Si tratta di un dono che non mette fuori “gli altri”, chiunque essi siano.
Detto questo, però, nessuno che legga la Bibbia ebrea-cristiana come parola di Dio può negare che Israele abbia una sua, essenziale, relazione con questa terra e con Gerusalemme. Quando la radio e la Tv italiane parlano dei “soldati di Tel Aviv” o del “governo di Tel Aviv”, esse offendono il popolo israeliano, per il quale l’unica Città capitale non può essere un’altra da Gerusalemme.
Tale simbolismo teologale dell’Israele attuale (non necessariamente di uno “Stato o dell’attuale Stato” d’Israele) non è accettata né dai musulmani, i quali negano radicalmente che vi sia un popolo particolare eletto da Dio (lo ha detto chiaramente anche Bashar al-Assad, quando ha ricevuto il Papa nell’aeroporto di Damasco), né, come si è visto, da numerosi cristiani palestinesi. Questo invece è quello che noi crediamo: la salvezza universale dell’umanità è disegnata da Dio sull’unico Figlio, Gesù Messia, profetato dal suo popolo ed evangelizzato dalla sua Chiesa (cfr. Rm 8, 29-30; 1Pt 1, 10-12).
L’esigenza universale della giustizia e dei diritti dell’uomo, nonostante le apparenze, non può e non deve essere conflittuale con il particolarismo dell’alleanza, che congiunge le Chiese cristiane a Israele. Secondo la Bibbia, certo, una tensione esiste tra l’economia della giustizia della creazione e l’economia storica dell’alleanza (cfr. la gelosia delle genti per Israele), una tensione che non è sempre chiara nemmeno alla coscienza di molti cristiani occidentali. Chi insiste di più sulla giustizia universalistica della creazione sembra dimenticare e trascurare la dimensione storica dell’elezione e dell´alleanza (e parteggia per i palestinesi contro gli israeliani), mentre chi tiene di più alla fede biblica sembra privilegiare il particolarismo dell’elezione e dell’alleanza di Israele (e parteggia per gli israeliani a scapito dei palestinesi).
[1] Sulle conclusioni “aperte” delle tre parti delle Scritture ebraiche, cfr. J.L. Ska, Il Canone ebraico e il Canone cristiano dell’Antico Testamento, in “La Civiltà Cattolica”, 1997 III, pp. 213-225 (quaderno 3531-3532) e poi più volte nelle sue introduzioni all’AT.