Paolo: il “vero fondatore del cristianesimo”?, di Luigi Walt
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Luigi Walt, pubblicato in 3 parti il 20/11, il 21/11 e il 22/11/2008 sul Blog Paolo 2.0 (https://letterepaoline.net/2008/11/20/paolo-il-“vero-fondatore-del-cristianesimo”/ ; https://letterepaoline.net/2008/11/21/paolo-il-“vero-fondatore-del-cristianesimo”-2/ e https://letterepaoline.net/2008/11/22/paolo-il-“vero-fondatore-del-cristianesimo”-3/). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Sacra Scrittura e, in particolare:
-Brevissima introduzione all’epistolario paolino, di Andrea Lonardo
-Introduzione all’epistolario paolino. Dispense del prof. Giancarlo Biguzzi
-La ricerca sul Gesù storico (I parte)
-La ricerca sul Gesù storico (II parte).
-La ricerca sul Gesù storico (III parte), di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (13/2/2024)
Paolo: il “vero fondatore del cristianesimo”?, di Luigi Walt - 1
Giorni fa, in una popolare trasmissione televisiva, si è udito il giornalista Corrado Augias affermare con sicurezza che il “vero fondatore” del cristianesimo non sarebbe stato Gesù, bensì Paolo. Ma cosa si può dire al riguardo, da un punto di vista storico?
Sappiamo che sul rapporto fra Gesù e Paolo si è scritto talmente tanto, negli ultimi due secoli, che sarebbe impresa impossibile – e tutto sommato inutile – riassumere anche solo i principali termini della questione in un semplice intervento divulgativo. Possiamo provare ugualmente a spendere qualche parola sulla faccenda, prendendola (apparentemente) da lontano.
L’idea espressa da Augias, innanzitutto, non è affatto nuova. E c’è da dubitare che il giornalista l’abbia desunta da uno dei due storici che ha intervistato per le sue fortunatissime Inchiesta su Gesù (Mauro Pesce, Università di Bologna) e Inchiesta sul cristianesimo (Remo Cacitti, Università statale di Milano).
La contrapposizione tra Gesù e Paolo, in realtà, è uno dei tanti miti dell’esegesi storica otto-novecentesca. Se ne potrebbe persino indicare, a un dipresso, la data di nascita: è il 1831, l’anno in cui il teologo tedesco Ferdinand Christian Baur la espone per la prima volta in un articolo che passerà alla storia, pubblicato presso il “Tübinger Zeitschrift für Teologie”.
Baur, esponente di spicco della cosiddetta Scuola di Tubinga, vedeva nell’organizzazione istituzionale della “Grande Chiesa” il risultato di una conciliazione “hegeliana” fra due opposte fazioni, che si sarebbero fronteggiate alle origini del cristianesimo: da una parte un movimento di matrice “pagana” e “universalista” (il “partito di Paolo”), dall’altra un movimento di matrice “giudaica” e “particolarista” (il “partito di Cristo”, capeggiato da Pietro). Le prime autorevoli critiche a Baur, formulate da J.B. Lightfoot e da A. von Harnack, riuscirono solo in parte a divincolarsi dalla sua valutazione dicotomica, e troppo schematica, delle vicende cristiane dei primi secoli.
Dato che nella storia – e ancor meno nella storiografia – non si danno mai novità assolute, è ben probabile che vi sia stato qualcuno a sostenere la stessa cosa prima di lui, ma non dispongo dell’erudizione necessaria per provarlo (mi viene in mente il caso di Reimarus, e della sua Apologia degli adoratori razionali di Dio, pubblicata da Lessing: ma temo che la nostra ricostruzione della storia dell’esegesi moderna risenta troppo dei quadri riassuntivi forniti dagli studiosi tedeschi sulla scia di Albert Schweitzer).
Andando a ritroso si potrebbe trovare qualcosa del genere, seppure non espresso in maniera così estrema, nelle lezioni di filosofia della storia di Schelling, col loro nucleo gioachimita, e più in generale nelle paludi dell’idealismo tedesco, nell’enciclopedismo massonico del Settecento, in certi ambienti radicali della Riforma, giù giù fino alla letteratura pseudo-clementina, con la sua “leggenda nera” intorno all’apostolo.
Nell’Ottocento, quando apparve nell’ambito degli studi storici e teologici, l’idea servì a slegare Paolo, inteso come simbolo di una Chiesa istituzionale, visibile, gerarchica, dall’eredità di un Gesù percepito come maestro inoffensivo (e frainteso) di morale. In breve, essa fu il risultato di un a priori ideologico, non di un’indagine storica rigorosa.
Cadere in questo tipo di trappole, beninteso, non è difficile neppure oggi. Gli storici e gli esegeti, negli anni più recenti, cercano di aggirarle evitando affermazioni che suonino troppo generalizzanti. Dire che Paolo avrebbe “fondato” il cristianesimo, nell’ottica del I secolo, è un po’ come dire, nell’ottica del XIX e del XX secolo, che Gramsci fu il vero autore del Capitale di Marx: significa scambiare un effetto, e neppure il principale, per la causa.
Paolo non agì come un outsider, non piombò dal nulla in mezzo ai primi seguaci di Gesù, né le sue posizioni possono essere valutate come del tutto originali e solitarie. Tra Gesù e Paolo non può esserci stato il vuoto. Abbiamo l’inestimabile fortuna di possedere alcune lettere scritte di suo pugno, e siamo sempre tentati di considerarle straordinariamente importanti, ma la faccenda si complica non appena ci accorgiamo che altri documenti del cristianesimo nascente, in maniera del tutto indipendente dall’apostolo, sembrano condividerne alcune linee ideali.
L’importanza di Paolo, in altri termini, non va esagerata, nel suo immediato contesto di azione. Si faceva allusione, tempo addietro, alla necessità di considerare gli elementi pre-paolini in Paolo: ebbene, un’indagine in tal senso toglie immediatamente la terra sotto i piedi a chiunque voglia attribuire all’apostolo il ruolo di “autentico fondatore” del cristianesimo. Altra cosa è se intendiamo proiettare su di lui quel che non ci piace (o ci piace) del cristianesimo successivo, o se vogliamo leggerne le epistole alla luce della nostra personale comprensione del mondo e della storia. Ma questo è già stato fatto ad abundantiam, e non ha condotto molto lontano…
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L’indagine storico-critica, soprattutto a partire dal Novecento, ha sostenuto in varie occasioni l’ipotesi di una radicale discontinuità fra l’originaria predicazione di Gesù, evidentemente del Gesù “storico”, e il pensiero e l’opera di Paolo. Alcuni, specialmente a partire da una celebre definizione di William Wrede (1904), hanno pensato all’apostolo come ad una sorta di “secondo fondatore del cristianesimo”, o ne hanno sottolineato il ruolo di “ellenizzatore”, con la precisa intenzione di sganciarlo dal contesto culturale ebraico in cui si mosse Gesù e al quale, indubbiamente, appartenne anche Paolo.
L’ebraicità di Paolo, in termini di appartenenza etnico-culturale e religiosa, emerge innanzitutto dalle affermazioni autobiografiche disseminate nell’epistolario (cf. ad es. 2Cor 11,22; Rm 11,1; Fil 3,5-6), ma anche dalla testimonianza degli Atti degli apostoli: per quanto riguarda la lingua orale usata dall’apostolo (cf. At 22,1-3), per il rispetto che questi avrebbe dimostrato nei confronti della scansione temporale delle festività giudaiche (un esempio in 1Cor 16,8: «Mi fermerò ad Efeso fino a Pentecoste», con riferimento ovviamente alla festa di Shavuot), per il semplice fatto ch’egli avrebbe accettato la frequentazione del Tempio (cf. At 21,17-26), senza considerare il dato più ovvio, ovvero il massiccio richiamo dell’apostolo alle Scritture ebraiche.
Secondo André Chouraqui, Paolo avrebbe addirittura «patito più di tutti le confusioni che sono sorte dal tragico rovesciamento di situazione prodottosi col disastro del 70. Il suo pensiero acquista, infatti, un senso diametralmente opposto se viene interpretato in rapporto alle realtà politiche e spirituali che hanno preceduto la distruzione del tempio d’Israele (…). A differenza di una importante frazione del giudaismo ellenistico, Paolo non ha mai rotto con le sue radici ebraiche e rabbiniche, che conosceva infinitamente meglio di un altro grande ebreo del suo tempo, Filone alessandrino. Lo studioso cattolico Bonsirven aveva già visto bene come il pensiero di Paolo non possa comprendersi nelle sue fonti se non alla luce delle prospettive e delle tecniche dell’esegesi rabbinica. […] Malgrado l’antilegalismo che gli si attribuisce sistematicamente, senza preoccuparsi troppo del significato reale delle sue analisi circa la fede e la legge, Paolo è rimasto per tutta la vita un ebreo fervente e praticante» (Gesù e Paolo. Figli di Israele, trad. it. Qiqajon, Magnano 2000, pp. 79-81).
Le affermazioni di Chouraqui, nella sostanza, sono confermate oggi da un’abbondante letteratura critica, e fanno ormai parte del sensus communis della ricerca. Tuttavia, non possiamo non avvertire come anacronistico il richiamo dell’autore all’espressione “radici rabbiniche”: bisognerebbe parlare, piuttosto, di radici farisaiche. Ugualmente azzardata, da un punto di vista storico, risulta l’affermazione per cui l’ebreo Paolo avrebbe conosciuto molto meglio dell’ebreo Filone le proprie “radici ebraiche”. In realtà, una considerazione rigorosa della “ebraicità” di Paolo, di Filone, come pure dello stesso Gesù, è possibile soltanto a prezzo di un’altrettanto rigorosa definizione storica di cosa significasse, all’epoca loro, essere ebrei: appartenere, cioè, a un contesto culturale e religioso estremamente variegato e dinamico, che non può essere semplicisticamente assimilato alla “ebraicità”, nell’accezione moderna del termine (errore compiuto dallo stesso Chouraqui: a rigore, infatti, si dovrebbe parlare di “radici ebraiche” anche per il giudaismo rabbinico, evitando la piana identificazione di questo col mondo giudaico precedente alla distruzione del Tempio di Gerusalemme, avvenuta nel 70).
In quanto ebrei, Paolo e Gesù condivisero senza dubbio, almeno in larga parte, il medesimo orizzonte concettuale. E questo nonostante provenissero da mondi socialmente diversi: Gesù crebbe in un ambiente rurale, del quale conservò moltissime caratteristiche; Paolo, invece, fu un individuo schiettamente urbano e cosmopolita.
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Una rilettura del rapporto tra Gesù e Paolo in termini di contrapposizione tra campagna e città è stata tentata, in termini suggestivi, dallo storico Wayne A. Meeks:
«Paolo era uomo di città e la presenza della città traspira dal suo linguaggio. Le parabole di Gesù che parlano di seminatori e di zizzania, di mietitori e di casolari dal tetto di malta, ci rimandano [invece] a sentori di letame e di terra; del resto, nella lingua greca dei vangeli, avvertiamo l’eco dell’aramaico parlato nei villaggi della Palestina. Quando Paolo costruisce una metafora parlando di olivi o di orti, invece, il testo è fluido, ed evoca più un’aula scolastica che una fattoria. Paolo dà a vedere di essere più a suo agio con gli stilemi della retorica greca, che rimandano al ginnasio, allo stadio o alla bottega artigiana» (I Cristiani dei primi secoli. Il mondo sociale dell’apostolo Paolo, trad. it. Il Mulino, Bologna 1992, p. 45).
In queste affermazioni, non è la contrapposizione tra Gesù e Paolo a non funzionare, quanto l’idea di una separazione così netta tra la vita delle città antiche e la vita delle campagne. Non è forse, tutto ciò, il risultato di una idealizzazione moderna, nutrita a sua volta delle tante dichiarazioni degli autori classici che esaltano la quiete rurale contro il trambusto della vita cittadina? Continua infatti Meeks:
«Quando Paolo con accenti retorici fa l’elenco dei luoghi in cui si è trovato in pericolo, distingue il mondo in città, deserti e mari (2Cor 11,26), e cioè il suo mondo non comprende la chōra, vale a dire le campagne coltivate: fuori della città non c’è nulla, ossia si incontra l’erēmia [il deserto]» (op. cit., p. 46).
Ma le cose stavano realmente così? Era questo, il pensiero dell’apostolo? L’impressione è che Meeks si stia lasciando trascinare dalla propria argomentazione, sovra-interpretando il passaggio citato di Paolo, che intendeva semplicemente riferirsi ai luoghi più pericolosi attraversati durante i suoi viaggi: città, come ad esempio Damasco; deserti, come quelli che s’incontrano ancora oggi sull’arido altipiano anatolico (infestato da briganti e predoni, stando ai resoconti del tempo); mari, frequentando i quali, all’epoca dell’apostolo, far naufragio era un’evenienza tutt’altro che remota (poco oltre nello stesso passaggio di 2Cor, Paolo ne rammenta tre!).
Dobbiamo inoltre considerare cosa fosse una città, nell’esperienza concreta di un uomo del I secolo. Sappiamo che nessun autore antico, tantomeno geografi come Pausania o Strabone, si è mai preoccupato di dare una definizione accurata di polis. E che certamente non era la grandezza o il numero degli abitanti, a fare di un agglomerato di case una città: molti centri considerati come città di rilievo non superavano il numero di abitanti che oggi attribuiremmo a un modesto villaggio.
La differenza, probabilmente, consisteva nella presenza di servizi governativi, di un teatro, di luoghi di culto o di infrastrutture: ma ciò non toglie che la chōra, il terreno coltivabile che circondava la città, venisse percepita anche a livello amministrativo come facente parte a pieno diritto dell’area urbana. Pochi passi lungo strade rumorose e polverose, puntellate durante il giorno dal traffico degli uomini e dei loro animali, e la si poteva raggiungere: campi coltivati, vigne e pascoli non potevano essere troppo distanti, in un mondo in cui la terra era la principale fonte di ricchezza e di sostentamento, se non proprio l’unica. Persino a Roma, stando alle stime che gli storici riescono a ricavare faticosamente dalle fonti, una parte non piccola della popolazione possedeva il proprio “campicello”. E una città come Patavium, l’odierna Padova, era celebre per i suoi allevamenti di pecore. Gli esempi, naturalmente, si potrebbero moltiplicare.
Cosa possiamo dedurre, allora, dalla corretta affermazione di Meeks per cui la missione di Paolo fu essenzialmente «un’iniziativa a carattere urbano»? Fondamentalmente due cose: che Paolo si mosse sempre lungo le strade battute dalla diaspora ebraica, e che cercò altresì di lavorare i centri più importanti dell’Impero, quasi fossero una terra da coltivare, ben sapendo che questa terra era già stata resa fertile dalla presenza dei fratelli “Giudei”, e che sarebbe stato più semplice conquistare le varie periferie partendo dai loro centri.
Crolla così, come un castello di carte, l’idea tanto diffusa che Paolo, in quanto “ellenizzatore”, abbia “tradito” il pio ebreo Gesù. L’apostolo, da questo punto di vista, si dimostra persino più “ebreo” dello stesso Gesù, il quale appare invece – e ciò sia detto senz’alcuna ironia – molto più simile a un “pagano”, nel senso etimologico della parola: un abitatore dei pagi, cioè di quei villaggi che – alla stregua di Nazareth – risultavano marginali, periferici rispetto ai grandi centri amministrativi e politici del tempo.
La fantasia della storia, ancora una volta, supera quella degli storici.