Il mistero di Mary Ann, di Flannery O’Connor
Riprendiamo un testo di Flannery O’Connor, Il mistero di Mary Ann, apparso in italiano su il Giornale, 3 ottobre 2004. La traduzione italiana è di Chiara Martini e Benedetta Scafa con la collaborazione del prof. Gaetano Prampolini. Il testo originale è in F. O’Connor, Collected Works, New York, The Library of America, 1988, 822-831. L’edizione originale del volume è A memory of Mary Ann, New York, Farrar Straus and Cudhay, 1961. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per un commento al testo, cfr, su questo stesso sito, A. Spadaro, S.J., Il mistero e il male. Flannery O’Connor e la storia della piccola Mary Ann, pubblicato in Civiltà Cattolica, 2005 II, 323-335, quaderno 3718 (21 maggio 2005).
Il Centro culturale Gli scritti (7/1/2011)
Le storie di bambini devoti tendono a essere false. Probabilmente perché vengono raccontate da adulti, che vedono virtù dove i loro soggetti vedrebbero solo una pratica linea di condotta; o forse perché tali storie sono scritte per edificare, e quel che è scritto per edificare finisce in genere per far sorridere. Da parte mia, non ho mai avuto un grande interesse per le storie di ragazzini che costruiscono altarini e giocano a fare i preti o di bambine che si vestono da suore, o dei devoti bambini protestanti che, in mancanza di questo equipaggiamento, rischiarano gli angoli dove si trovano.
Nella primavera del 1960 ricevetti una lettera da suor Evangelist, la superiora della Casa per malati di cancro “Nostra Signora del Perpetuo Soccorso” di Atlanta. “Questa è una strana richiesta”, diceva, “ma cercheremo di esporre la nostra storia il più brevemente possibile. Nel 1949 una bimba di tre anni, Mary Ann, venne accolta come paziente nella nostra casa. Si rivelò una bambina straordinaria, e visse fino all’età di dodici anni. Di questi nove anni molto merita di essere raccontato. Pazienti, visitatori, suore, tutti furono in qualche modo influenzati da questa bambina malata, anche se nessuno pensava a lei come a una malata. È vero, era nata con un tumore che le copriva un lato del viso; un occhio le era stato tolto, ma l’altro brillava, ammiccava, danzava birichino, e dopo averla vista una volta non ci si rendeva più conto del suo difetto fisico, ma si riconosceva soltanto il suo spirito splendidamente coraggioso e si provava gioia per averla incontrata. Dunque la storia di Mary Ann deve essere scritta, ma chi potrebbe farlo?”
Non io, mi dissi.
“Si sono offerte suore e altre persone, ma noi non vogliamo un raccontino pio. Vogliamo un racconto che abbia un reale impatto sulla vita dei lettori, lo stesso impatto che Mary Ann ha avuto su ogni vita che ha toccato... Non c’è bisogno che sia un resoconto fattuale. Potrebbe essere un romanzo con molti altri personaggi, ma con Mary Ann come protagonista”.
Un romanzo, pensai. Orrore.
Suor Evangelist concludeva invitandomi a scrivere la storia di Mary Ann e a venir su per trascorrere qualche giorno nella loro Casa di Atlanta e “assorbire l’atmosfera” in cui la piccola aveva vissuto per nove anni.
È sempre difficile ficcare in testa a chi non è uno scrittore professionista che aver talento non vuol dire essere capaci di scrivere qualunque cosa. Non avevo intenzione di assorbire l’atmosfera di Mary Ann. Non sarei stata capace di scrivere la sua storia. Suor Evangelist aveva allegato una foto della bambina. Le avevo dato un’occhiata appena aperta la lettera e l’avevo subito messa da parte. La ripresi per darle un ultimo rapido sguardo prima di rispedirla alle suore. Mostrava una ragazzina con l’abito e il velo della Prima Comunione. Era seduta su una panca e teneva in mano qualcosa che non riuscivo a riconoscere. Un lato del suo visetto era regolare e luminoso; l’altro lato era protuberante, l’occhio bendato, il naso e la bocca troppo vicini e leggermente fuori posto. La bambina guardava l’osservatore con evidente gioia e compostezza. Dopo aver pensato di aver visto quel che c’era da vedere, continuai a fissare la fotografia ancora a lungo.
Dopo un po’ mi alzai, andai allo scaffale e ne tirai fuori un volume dei racconti di Nathaniel Hawthorne. La Congregazione Domenicana alla quale appartengono le suore che si erano prese cura di Mary Ann era stata fondata dalla figlia di Hawthorne, Rose. La foto della bambina mi aveva riportato alla mente uno dei racconti, “La voglia”. Lo trovai e lo aprii alla pagina dello stupendo dialogo in cui Alymer parla per la prima volta alla moglie del suo difetto.
Un giorno Alymer sedeva fissando la moglie con un’espressione preoccupata che crebbe finché non aprì bocca.
“Giorgiana”, esordì, “hai mai pensato che la macchia che hai sulla guancia potrebbe essere tolta?”
“No, davvero”, rispose lei sorridendo; ma percependo la serietà dell’atteggiamento del marito, arrossì. “A dire il vero, è stata definita così spesso un vezzo che sono stata così ingenua da immaginare che lo fosse davvero”.
“Ah, potrebbe esserlo, forse, su un altro viso”, replicò il marito, “ma mai sul tuo. No, adorata Giorgiana, tu sei uscita così perfetta dalle mani della Natura che questo difetto, così lieve che non sappiamo se definirlo un difetto oppure un pregio, mi sconvolge perché segno visibile dell’imperfezione terrena”.
“Ti sconvolge, marito mio!” gridò Giorgiana, profondamente offesa, per un momento arrossendo di collera, e poi scoppiando in lacrime. “Perché allora mi hai portato via dalla casa di mia madre? Non puoi amare ciò che ti sconvolge!”.
Il difetto sulla guancia di Mary Ann non poteva essere preso per un vezzo. Era qualcosa di palesemente grottesco. Lei apparteneva alla realtà, non alla fantasia. Sentii di dover scrivere a Suor Evangelist che se qualcosa andava scritto su quella bambina, doveva essere proprio “un resoconto fattuale”, e proseguii dicendo che se qualcuno doveva raccontare i fatti, soltanto le suore stesse che l’avevano conosciuta e assistita avrebbero potuto farlo. Ne ero sicura. Allo stesso tempo volevo fosse chiaro che io non ero la persona adatta a scrivere quella storia, e non c’è modo più sbrigativo per liberarsi di un lavoro che farlo fare a chi l’ha prescritto a te. Aggiunsi che se avessero seguito il mio consiglio sarei stata felice di aiutarle nella preparazione del manoscritto, apportando le piccole correzioni che si rivelassero necessarie. Non avevo dubbi che questa fosse prudentissima generosità, e non mi aspettavo di risentirle più.
In Our Old Home Hawthorne racconta di un signore schizzinoso che, visitando un ricovero di mendicità a Liverpool, venne seguito da un bambino miserabile e catarroso, d’aspetto così orripilante che era impossibile capire di che sesso fosse. Il bambino lo seguì finché decise di piantarglisi davanti in un muto appello per essere preso in braccio. Il signore schizzinoso, dopo una pausa molto significativa, lo tirò su e se lo tenne stretto. Hawthorne commenta:
E tuttavia, non gli dovette essere facile, essendo persona gravata da una misura di riservatezza maggiore di quanto non sia abituale in un Inglese, restia al contatto fisico con gli esseri umani, afflitta da un particolare disgusto per tutto ciò che è brutto, e, per di più, abituata a quel modo di osservare le cose da una posizione isolata che si dice (ma spero erroneamente) abbia la conseguenza di mettere il ghiaccio nel sangue.
Osservai perciò con molto interesse la lotta nel suo animo, e sono seriamente dell’opinione che, quando sollevò quel bambino inguardabile e lo accarezzò con la tenerezza di un padre, egli compì un atto eroico e guadagnò molto di più di quanto non si sarebbe sognato ai fini della sua salvezza finale.
Quel che Hawthorne ha tralasciato di aggiungere è che era lui il signore che fece questo. Dopo la sua morte, la moglie pubblicò i suoi taccuini in cui si può leggere questo resoconto dell’episodio:
Poi andammo nel reparto dove erano tenuti i bambini e, entrando, per prima cosa vedemmo due o tre monelli d’aspetto sgradevole e malaticcio, che stavano giocando pigramente. Uno di loro (sui sei anni, ma non saprei se maschio o femmina) manifestò immediatamente una singolare simpatia per me. Era un cosino miserabile, pallido, mezzo intorpidito, con un umore nell’occhio dovuto, ci disse il direttore, allo scorbuto. Non avevo mai visto fino a quel momento un bambino che mi sentissi meno incline ad accarezzare. Ma questo piccolo sgorbio divorato dalla malattia mi gironzolava attorno, si aggrappava ai miei vestiti, mi stava alle calcagna e alla fine sollevò le mani, mi sorrise e mettendosi esattamente di fronte a me insistette perché lo prendessi in braccio! Non che dicesse una parola; credo piuttosto che fosse ritardato, e non sapesse parlare; tuttavia la sua faccia esprimeva tale perfetta fiducia che sarebbe stato preso in braccio che fu impossibile non farlo. Era come se Dio avesse promesso al bambino questo favore a mio vantaggio, e io non potessi esimermi dall’adempiere al patto. Tenni per qualche momento quel peso indesiderabile, e dopo averlo messo giù, il bambino continuò a seguirmi, prendendo due delle mie dita e giocandoci, come se fosse un figlio mio. Era un trovatello, e di tutto il genere umano aveva scelto me come padre! Salimmo in un altro reparto, e quando tornammo giù era ancora lì ad aspettarmi, con un sorriso malato sulla bocca sfigurata, e negli occhi arrossati... Se avessi respinto le sue attenzioni non me lo sarei mai perdonato.
Rose Hawthorne, madre Alfonsa da religiosa, scrisse in seguito che il racconto di quanto accaduto nell’istituto di Liverpool conteneva, secondo lei, le più belle parole che suo padre avesse mai scritto.
L’attività della figlia di Hawthorne è forse nota a pochi in questo Paese, mentre meriterebbe di essere conosciuta da tutti. Rose scoprì molto di ciò che il padre andava cercando, e ne realizzò nella pratica i desideri nascosti di tutta una vita. Il ghiaccio nel sangue che egli temeva, e dal quale lo salvò proprio tale timore, fu da lei trasformato nel calore da cui ebbe origine il suo agire. Se lui osservò, con timore ma fino in fondo, se lui agì, riluttante ma con fermezza, lei si lanciò a capofitto, sicura nel cammino che la sincerità del padre aveva segnato per lei.
Verso la fine del diciannovesimo secolo, prese coscienza della situazione dei poveri di New York malati di cancro e ne rimase colpita. I malati terminali bisognosi non venivano tenuti negli ospedali cittadini, ma erano mandati a Blackwell’s Island o lasciati a trovarsi un posto dove morire. In entrambi i casi si trattava di lasciarli a marcire da soli. Rose Hawthorne Lathrop era una donna di straordinaria energia e forza d’animo. Qualche anno prima era diventata cattolica, e da allora aveva cercato un’occupazione che fosse il pratico adempimento della sua conversione. Quasi senza un soldo, si trasferì in un alloggio nel peggior quartiere di New York e cominciò a ospitarvi i malati di cancro incurabili. Più tardi la raggiunse una giovane ritrattista, Alice Huber, le cui doti di costanza e pazienza completavano la sua forza ed esuberanza. Grazie agli sforzi congiunti, il loro estenuante lavoro fece progressi. Poi ad aiutarle arrivarono altre donne, e divennero una congregazione di suore dell’Ordine Domenicano - le Serve del Sollievo del Cancro Incurabile. Oggi, in tutto il Paese, ci sono sette delle loro case di accoglienza gratuita per i malati di cancro.
Madre Alfonsa ereditò dal padre una discreta dose del suo talento letterario. Quel che racconta del nipote della sua prima paziente è una lettura molto piacevole. Per ragioni inevitabili, il ragazzo era stato ospitato per qualche tempo nell’alloggio insieme alla nonna malata e ai pochi altri pazienti che vi risiedevano allora.
Il ragazzo fu portato in visita da un funzionario dell’istituzione. La prima occhiata alla sua faccia rosea, sana, intelligente, insinuò nella mia anima un brivido ammonitore. Era un fiorente virgulto spuntato da radici criminali. I suoi occhi avevano lo sguardo gagliardo del vigore satanico... Cominciai a insegnargli il catechismo. Con la migliore disposizione d’animo, per tutto il tempo che restavo seduta, sedeva di fronte a me, dandomi le risposte corrette. “Preferisce studiare che starsene con le mani in mano”, diceva la nonna, “e queste cose gliele ho insegnate io, tanto tempo fa”. Durante le lezioni i suoi occhi assumevano un’espressione di mistica vaghezza, e io ero certa che in futuro avrebbe detto la verità e si sarebbe comportato mitemente e non come un barbaro.
Il cibo veniva nascosto negli angoli più segreti per il nostro angelico, supernutrito beniamino, i suoi furti e le sue monellerie venivano coperti e negati, e i bei vestiti di cui lo rifornii, presi dai nostri magazzini, con un completo nuovo per la domenica, scomparvero stranamente quando Willie andò a far visita alla madre... In poche settimane Willie divenne famoso come il peggior ragazzo che si fosse mai visto nel vicinato, sebbene il quartiere fosse pieno zeppo di piccoli furfanti. I ricoverati e quelli che vivevano nelle baracche vicine lo temevano, gli altri furfantelli gli facevano cerchio attorno mentre lui passava da una bravata all’altra per quella strada diabolica mai indenne da qualche sorta di violenza perpetrata da giovani o da vecchi. Willie appiccava il fuoco al tetto delle baracche, lanciava mattoni che solo gli angeli custodi scampavano dalle nostre teste e in più di un’occasione finì per colpire diversi bimbetti, che poi noi medicammo nella Infermeria. Profferiva esclamazioni che suonavano terribili anche alle orecchie dei miscredenti... Lo deliziavano le immagini dei santi che gli regalavo, rubava quelle che non gli regalavo e vendeva il tutto. Lo pregavo affettuosamente, lui mi ascoltava intenerito, prometteva di “ricordare” ed era molto dispiaciuto dei suoi peccati quando da una presa di ferro era costretto ad accettarne la rivelazione. Fece un’ottima impressione su un esperto sacerdote che chiamammo per tentare di recuperare la sua anima, e fece un falò particolarmente grande nella nostra legnaia quando lo congedammo. A causa degli spaventi che riceveva e dei continui rimproveri che gli dava, la povera nonna cominciò ad avere forti emorragie. Prima che arrivasse lo chiamava “quell’angioletto”. Ora saggiamente dichiarava che in fondo era buono di cuore.
I bambini cattivi sono più duri da sopportare di quelli buoni, ma è più facile leggere di loro, e mi congratulavo con me stessa per essermi sottratta alla possibilità di un libro su Mary Ann suggerendo che fossero le suore a scriverlo. Benché da suor Evangelist avessi avuto notizia che s’erano messe all’opera, ero sicura che un paio di tentativi di catturare Mary Ann sulla pagina le avrebbe indotte a ripensare al progetto. Era molto difficile che qualcuna di loro avesse il talento letterario della loro fondatrice. Inoltre erano delle infermiere a tempo pieno, tutte prese dalla loro strenua vocazione.
Il manoscritto arrivò il primo di agosto. Dopo essermi fatta coraggio, mi sedetti e iniziai a leggerlo. Per quanto riguardava la forma non mancava nulla di ciò che fa indignare lo scrittore professionista: quasi tutto era riferito, molto poco drammatizzato; nei punti forti - quando ce n’era uno - l’osservatore sembrava dissolversi, e quando sarebbe servita una parola o espressione esatta, in genere se ne presentava una vaga. Tuttavia appena finita la lettura, dimenticate la imperfezioni di forma, rimasi a lungo a pensare al mistero di Mary Ann. Le suore erano riuscite a trasmetterlo.
Il racconto era incompiuto come il volto della bambina. Entrambi sembravano lasciati, come la creazione al settimo giorno, perché altri li finissero. Il lettore era chiamato a fare qualcosa del racconto come Mary Ann aveva fatto qualcosa del suo viso.
Lei e le suore che l’avevano educata, dal suo viso incompiuto avevano modellato il materiale della sua morte. L’azione creativa della vita del Cristiano consiste nel preparare la propria morte in Cristo. È un’azione continua in cui i beni di questo mondo sono utilizzati al massimo, sia quelli positivi sia quelli che Père Teilhard de Chardin chiama “diminuzioni passive”. La diminuzione di Mary Ann era estrema, ma lei era preparata, grazie a una naturale intelligenza e a una educazione appropriata, non solo a sopportarla, ma a costruire su di essa. Era una ragazzina straordinariamente ricca.
La morte è il tema di tanta letteratura moderna: Morte a Venezia, Morte di un commesso viaggiatore, Morte nel pomeriggio, Morte di un uomo. Quella di Mary Ann era la morte di una bambina. Più semplice di ognuna di queste, ma infinitamente più rivelatrice. Quando varcò la porta della Casa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso ad Atlanta, finì nelle mani di donne che non si spaventavano facilmente e che amavano tanto la vita da spendere la propria per rendere più sopportabile la condizione di coloro a cui era stato diagnosticato un cancro incurabile. La sua prognosi era di sei mesi, ma visse dodici anni, abbastanza perché le suore le insegnassero ciò che solo poteva avere importanza per lei. La sua fu un’educazione alla morte, ma non condotta in maniera invadente. Le sue giornate furono piene di cani e di vestitini per la festa, di suore e di sorelle, di coca-cola e panini, e dei suoi molti e diversi amici - da Mr. Slack e Mr. Connolly a Lucius, il giardiniere; da pazienti malati come lei a bambini portati alla Casa per farle visita e ai quali, quando andavano via, veniva forse detto di pensare quanto dovessero essere grati a Dio per aver dato loro una faccia perfetta. Ma c’è da chiedersi se qualcuno di loro fosse altrettanto fortunato di Mary Ann.
Tutto questo le suore l’avevano buttato giù alla buona, dedicando un bel po’ di spazio a un resoconto dettagliato delle numerose buone azioni di Mary Ann. Ero tentata di tagliarne via parecchie. Loro mi avevano liberamente dato il diritto di tagliare, ed io avrei potuto darmi da fare con soddisfazione, non fosse stato per il fatto che non c’era niente con cui colmare le lacune che avrei creato. Inoltre sentivo che, sebbene lo stile risentisse dell’agiografia tradizionale e un po’ anche di Parson Weems, loro avevano raccontato quel che era avvenuto e non c’era modo di girarci intorno. Questa era una bambina cresciuta da diciassette suore; era quello che era, e la mano impaziente dello scrittore di narrativa doveva frenarsi. Io sarei stata capace soltanto di trattare di un altro Willie.
In seguito, un pomeriggio in cui alcune delle suore erano venute da me per discutere del manoscritto, suggerii a suor Evangelist che Mary Ann non poteva essere altro che buona, considerando l’ambiente in cui era cresciuta. Suor Evangelist si appoggiò sul bracciolo della sedia e mi guardò. I suoi occhi erano blu e imprevedibili dietro gli occhiali che li rendevano lievemente vacui. “Ne abbiamo avuti di demoni!”, disse, e con un gesto della mano respinse la mia ignoranza.
Dopo un pomeriggio con loro, conclusi che ne avevano avute di tutti i colori e non si erano tirate indietro di fronte a nulla, anche se una di loro durante la visita mi chiese come mai scrivessi di personaggi così grotteschi, perché mai proprio il grottesco fosse la mia vocazione. Avevano avuto tempo di ispezionare alcuni dei miei scritti. Mi stavo dibattendo per tirarmi fuori da quella trappola, quando un altro dei nostri ospiti fornì l’unica risposta che poteva rendere la cosa chiara a tutte loro: “Ma è anche la vostra vocazione”, le disse. E questo aprì anche per me una nuova prospettiva sul grottesco. La maggior parte di noi ha imparato a essere spassionata di fronte al male, a guardarlo in faccia e, il più delle volte, trovarvi il nostro ghignante riflesso, con cui normalmente non ci confrontiamo; ma il bene è un’altra faccenda. Pochi l’hanno fissato abbastanza a lungo da accettare il fatto che anche il suo aspetto è grottesco, che in noi il bene è spesso in corso d’opera. Le forme del male di solito ricevono espressione adeguata; quelle del bene devono accontentarsi di un cliché o di una lisciatina che ammorbidisce il loro aspetto reale. Quando guardiamo in faccia il bene possiamo trovarci di fronte ad una faccia come quella di Mary Ann, piena di promessa.
Il vescovo Hyland pronunciò il sermone al funerale di Mary Ann. Disse che il mondo avrebbe chiesto perché Mary Ann dovesse morire. Senza dubbio pensava a coloro che l’avevano conosciuta e che sapevano quanto amasse la vita, lei che una volta aveva stretto con tanta forza un hamburger da precipitare all’indietro dalla sedia senza lasciarlo cadere; o che pochi mesi prima di morire, con suor Loretta, aveva avuto un bambino vero da accudire. Il vescovo stava parlando ai suoi familiari e amici. Non pensava sicuramente a quel mondo, tanto più lontano ma tuttavia ovunque, che avrebbe chiesto non perché Mary Ann fosse morta, ma perché innanzi tutto fosse nata.
Una delle tendenze della nostra epoca è di usare la sofferenza dei bambini per screditare la bontà di Dio, e una volta screditata la sua bontà, aver chiuso il conto con lui. Gli Alymer che Hawthorne vedeva come una minaccia si sono moltiplicati. Intenti a tagliar via l’umana imperfezione stanno facendo progressi anche sulla materia prima del bene. Ivan Karamazov non può credere finché ci sia un bambino che soffre; l’eroe di Camus non può accettare la divinità di Cristo per via del massacro degli innocenti. In questa pietà popolare si guadagna in sensibilità e si perde in visione. Se sentivano meno, altre epoche vedevano di più, anche se vedevano con l’occhio cieco, profetico, insensibile dell’accettazione, vale a dire della fede. Ora in assenza di questa fede siamo governati dalla tenerezza. Una tenerezza che da tempo, staccata dalla persona di Cristo, è avvolta nella teoria. Quando la tenerezza è separata dalla sorgente della tenerezza, la sua logica conseguenza è il terrore. Finisce nei campi di lavoro forzato e nei fumi delle camere a gas.
Queste riflessioni sembrano molto lontane dalla semplicità e dall’innocenza di Mary Ann; ma in realtà non è così. Hawthorne avrebbe potuto metterle in una favola e mostrarci di cosa avere paura. Alla fine, non posso pensare a Mary Ann senza pensare anche a quello schifiltoso e scettico figlio del New England che temeva il ghiaccio nel suo sangue. C’è una linea diretta tra l’episodio nel ricovero di Liverpool, l’opera della figlia di Hawthorne e Mary Ann - che rappresenta non soltanto se stessa, ma tutti gli altri esempi di umana imperfezione e umano grottesco per prendersi cura dei quali le suore dell’ordine di Rose Hawthorne danno la vita. Il loro lavoro è l’albero cresciuto dal piccolo gesto cristiano di Hawthorne e Mary Ann ne è il fiore. In ragione della paura, della ricerca, della carità che segnarono la sua vita e influenzarono quella di sua figlia, Mary Ann ha ereditato, un secolo dopo, la ricchezza della saggezza cattolica che le ha insegnato cosa fare della sua morte. Hawthorne le ha dato ciò che non aveva per sé.
Questa azione per cui la carità cresce invisibile in mezzo a noi, intrecciando i vivi e i morti, è chiamata dalla Chiesa la Comunione dei Santi.
È una comunione creata sull’imperfezione umana, creata da ciò che facciamo del nostro stato grottesco. Della sua condizione Mary Ann ha fatto ciò di cui, come di tutte le cose buone, non si sarebbe saputo nulla se le suore e molti altri non ne fossero stati colpiti e non avessero desiderato di scriverne. Le suore che hanno composto la memoria mi hanno detto che sentivano di non essere riuscite a renderla com’era realmente, che lei era più vivace di com’erano riuscite a renderla, più gaia, più piena di grazia, ma io penso che abbiano fatto abbastanza e che l’abbiano fatto bene. Penso che per il lettore questa storia illuminerà quelle linee che uniscono le vite più diverse e ci tengono saldi in Cristo.