Fra’. San Francesco, la superstar del medioevo di Giovanni Scifoni con la regia di Francesco Ferdinando Brandi. Breve recensione di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una recensione di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni San Francesco d’Assisi e Teatro e cinema.
Il Centro culturale Gli scritti (25/12/2023)
Fra’. San Francesco, la superstar del medioevo di Giovanni Scifoni con la regia di Francesco Ferdinando Brandi è uno spettacolo bello e estremamente interessante, da non perdere assolutamente.
Ha il coraggio di porre sul tappeto i nodi della vita di Francesco d’Assisi che nessuno cerca mai nemmeno di iniziare a dipanare.
Fin dall’inizio, quando dichiara il paradosso di un personaggio che fece della povertà la chiave del suo vivere il Vangelo e su cui tutti, invece, guadagnano denaro, da Dario Fo ad Ascanio Celestini, da Liliana Cavani con i suoi tre San Francesco a Forza Venite gente, da Zeffirelli a Rossellini.
Scifoni e Brandi subito evidenziano l’utilizzo strumentale che tutti fanno di Francesco per comporre opere per vedere le quali bisogna pagare - gli stessi autori di Fra’ lo dichiarano apertamente: “Avete pagato per venire a vedere lo spettacolo e noi viviamo dei vostri soldi e non sosteniamo quindi esistenzialmente un Francesco allo stato puro”.
Renderebbe conto di Francesco solo un’opera gratuita e senza biglietto? Si dovrebbero chiudere gli spettacoli su Francesco d’Assisi che permettono a chi li realizza di campare?
Ma l’apertura dello spettacolo rende anche conto, a differenza di altri spettacoli sull’assisiate, del registro teatrale e giullaresco.
Egli amò “recitare”, “dare spettacolo”, sebbene per parlare non di sé, ma di Cristo.
Ritorna in tutto lo spettacolo il gusto per l’azione scenica che fu di Francesco d’Assisi e che oggi torna ad essere amata anche nel mondo cattolico: la sala strapiena, ogni serata, dice il gusto riscoperto da tanti di recarsi a teatro e “vedere” e “ascoltare” nel buio della sala chi recita.
È il piacere di un nuovo stile giullaresco recuperato da tanti e dopo tanto tempo nella Chiesa, segno di una fede che non fa uso solo di conferenze seriose, ma si lancia nel bel mezzo della mischia – ricordo uno dei miei fratelli definire l’itinerario di don Fabio Rosini con gusto e apprezzamento come lo one man show cattolico.
Proprio Brandi, in un recente intervento al festival de Gli scritti, si era domandato quanto l’intellighenzia fosse essa stessa responsabile dell’allontanamento del pubblico dagli spettacoli teatrali per i suoi testi troppo cerebrali e costruiti troppo astrusamente, fino a far disamorare gli spettatori.
Ma tale registro giullaresco, in cui Scifoni è sulla scena, a distanza di istanti, ora come narratore, come Francesco, ora come frate Leone che parla in toscanaccio, ora come frate umbro, ora come papa Innocenzo III, ora come sé stesso che parla della propria famiglia, ora come frate tedesco, ora come frate francese, tutto in maniera sempre cangiante, non è l’unico, perché lo spettacolo conserva la serietà e l’analisi dei punti caldi e discussi della vita di Francesco.
Anzi è proprio il confondere continuamente passato e presente che permette di non cadere né nel ridurre la vicenda di Francesco ad una pura ricostruzione storica, né a rileggerlo con occhi troppo moderni ed ideologici che ne colgano taluni aspetti e ne nascondano altri parimenti essenziali.
Lo spettacolo è un continuo “dibattito” con le opposte argomentazioni che si dipanano via via.
Emerge così la questione se Francesco fosse preoccupato di aiutare i poveri – come proposto da riletture moderne non storicamente fondate – oppure di essere lui stesso povero, per essere come il suo Signore.
Ma, al contempo, ci si interroga sulla sua scelta di essere casto, con l’episodio - raramente raccontato dal Francesco ammiccante di tanti autori moderni - dei famosi pupazzi di neve di Cortona: Francesco vince la tentazione di rompere la castità non tanto e non solo con il rotolarsi nel freddo per non provare desiderio sessuale verso le donne, bensì soprattutto nel considerare la seria possibilità di mettere su famiglia e iniziare a preoccuparsi della moglie e dei figli – è la meraviglia delle due vocazioni, quella verginale e quella familiare che si sostengono a vicenda.
Poi Francesco viene ulteriormente problematizzato quando si ricorda il suo amore per le parole e la predicazione al punto da recarsi dal papa per ottenere il permesso di percorrere le piazze del suo tempo e di giungere fin nelle terre dell’Islam, per chiedere a tutti di convertirsi a Gesù Cristo.
L’amore per la parola accompagna l’intera opera di Scifoni e Brandi: il teatro è parola, ma anche la predicazione di Francesco è parola – e fiumi di parole -, e non solo azione testimoniale.
Come Francesco predicava per ore e ore una volta che il papa glielo permise, così anche a teatro si ascolta ed è vera esperienza e non solo passività inutile.
Il rapporto con il papa, in particolare con Innocenzo III, è discusso senza sconti, descrivendo anche i lati oscuri di quel pontificato, ma al contempo mostrando come Francesco fosse diverso da tanti eretici che pure vissero la sua stessa povertà, proprio per il suo amore alla Chiesa che il papa seppe intuire e accogliere.
È impensabile un Francesco senza la Chiesa: egli non fu contestatore, ma sostegno della Chiesa.
Divertente è come Scifoni faccia emergere la questione così importante eppure così becera dei testimonial, ricercati dalla Chiesa di allora, così come dalla sinistra e dalla destra politiche, così come da ognuno che intenda accreditare un’opinione. Chi è più amato e conosciuto fra i nostri sostenitori, da citare a riprova, o ancora chi sono i nostri “campioni”?
Francesco si schierò dalla parte della Chiesa cattolica e la difese e la amò.
Non è un Francesco lineare, quello presentato nella girandola di parole da Fra’, ma un uomo medioevale contraddittorio: proprio il non sciogliere troppo facilmente i dilemmi è un grande merito dell’opera, che fa invece sostare sui modi con cui l’assisiate cercò di comporre lati diversi dell’unica fede, ancora oggi in tensione fra di loro.
E poi l’opera presenta l’ipotesi che è seriamente da porre dinanzi agli occhi e alle menti: la vera povertà di Francesco apparve quando egli entrò in crisi, quando si accorse che i suoi stessi frati, i suoi stessi amici, i suoi stessi discepoli, lo criticarono perché la povertà assoluta che egli proponeva non era per loro vivibile in concreto, non era attuabile e praticabile.
Scifoni mette in scena la crisi di Francesco che negli ultimi anni della vita venne come “inquisito” non da una Chiesa estranea, ma dai suoi stessi figli che non lo capivano più, che gli chiedevano dall’interno di modificare la sua stessa proposta.
Fino a quando, sulla Verna, ricevendo le Stimmate, egli comprese che la povertà più grande era rinunciare non solo al denaro, ma anche al suo progetto di vita per i suoi, accettando che i suoi stessi frati modificassero quanto non ritenevano possibile vivibile in toto, quanto ritenevano non fosse necessario chiedere alla Chiesa intera.
Se tutti, infatti, avessero vissuto alla lettera ciò che Francesco diceva non ci sarebbero stati più matrimoni, né figli, né cibo e contadini, né falegnami e mercanti, ma nemmeno giullari e attori.
Si chiude un cerchio, insomma, domandandosi implicitamente se Francesco abbia inteso dichiarare illegittimo il mondo nel suo insieme o se egli sia stato un segno di Dio ad indicare una direzione, senza più pretendere di dettagliarne le modalità.
Con Fra’ si torna a teatro e se ne esce avendo in tasca né santini, né storie patinate o, all’opposto, anticlericali, bensì scoprendo riaperte questioni che valgono per tutti.
Ma se ne esce anche con qualche lacrima e con tanto riso, poiché la vita, se ben compresa e vissuta, è essa stessa giullaresca.