1/ “Buon Natale”, di Dino Buzzati. «Se accanto al fuoco/ al mattino si trovassero i doni/ la bambola il revolver il treno/ il micio l’orsacchiotto il leone/ che nessuno di voi ha comperati? Se la vostra bella sicurezza/ nella scienza e nella dea ragione/ andasse a carte quarantotto? Con imperdonabile leggerezza forse troppo ci siamo fidati. E se sul serio venisse?» 2/ [«E se invece venisse per davvero?» si chiede Dino Buzzati nei versi di Buon Natale]. Il Gesù che viene, atteso anche dai poeti, di Giovanni Fighera 3/ Il dopodopodomani di Buzzati. Il 28 gennaio di 50 anni fa moriva lo scrittore bellunese. Nelle sue opere la concretezza semplice si unisce a un acuto sentimento del mistero. E c’è uno spiraglio, anche nelle situazioni più buie. «Senza la grazia, io non faccio niente», di Andrea Fazioli
1/ “Buon Natale”, di Dino Buzzati. «Se accanto al fuoco/ al mattino si trovassero i doni/ la bambola il revolver il treno/ il micio l’orsacchiotto il leone/ che nessuno di voi ha comperati? Se la vostra bella sicurezza/ nella scienza e nella dea ragione/ andasse a carte quarantotto? Con imperdonabile leggerezza
forse troppo ci siamo fidati. E se sul serio venisse?»
Riprendiamo sul nostro sito una poesia di Dino Buzzati, dal titolo Buon Natale. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Letteratura. Cfr. in particolare Il deserto dei tartari di Dino Buzzati finisce con la speranza di vincere la morte, il vero nemico, con il pensiero che Dio saprà perdonare e con un sorriso!, da Dino Buzzati; «Senza Dio anche il cappone arrosto sembra sabbia tra i denti». Il Santo Natale raccontato da Dino Buzzati; "Dio che non esisti ti prego". Dino Buzzati dinanzi alla questione di Dio, di Nellina Matuonto Banzatti.
Il Centro culturale Gli scritti (24/12/2023)
E se invece venisse per davvero?
Se la preghiera, la letterina, il desiderio
espresso così, più che altro per gioco
venisse preso sul serio?
Se il regno della fiaba e del mistero
si avverasse? Se accanto al fuoco
al mattino si trovassero i doni
la bambola il revolver il treno
il micio l’orsacchiotto il leone
che nessuno di voi ha comperati?
Se la vostra bella sicurezza
nella scienza e nella dea ragione
andasse a carte quarantotto?
Con imperdonabile leggerezza
forse troppo ci siamo fidati.
E se sul serio venisse?
Silenzio! O Gesù Bambino
per favore cammina piano
nell’attraversare il salotto.
Guai se tu svegli i ragazzi
che disastro sarebbe per noi
così colti così intelligenti
brevettati miscredenti
noi che ci crediamo chissà cosa
coi nostri atomi coi nostri razzi.
Fa’ piano, Bambino, se puoi.
2/ [«E se invece venisse per davvero?» si chiede Dino Buzzati nei versi di Buon Natale]. Il Gesù che viene, atteso anche dai poeti, di Giovanni Fighera
Riprendiamo sul nostro sito un articolo da La Nuova Bussola Quotidiana (https://lanuovabq.it/it/il-gesu-che-viene-atteso-anche-dai-poeti) pubblicato l’11/12/2023. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (24/12/2023)
«E se invece venisse per davvero?» si chiede Dino Buzzati nei versi di Buon Natale. «Se la preghiera, la letterina, il desiderio/ espresso così, più che altro per gioco/ venisse preso sul serio?».
In mezzo alle guerre, allo scandalo del giusto e dell’innocente che soffre, alle pandemie, alla violenza che occupa le pagine dei giornali e gli schermi dei televisori l’umanità è in attesa di una risposta, di una speranza, di un riscatto.
Dal 1940, anno di pubblicazione de Il deserto dei Tartari, la fortezza Bastiani è divenuta una delle immagini che descrivono meglio la condizione esistenziale dell’uomo di ogni tempo e, ancor più, di quello contemporaneo.
Non è «imponente la Fortezza Bastiani, con le sue basse mura, né in alcun modo bella, né pittoresca di torri e di bastioni, assolutamente nulla» che consoli «quella nudità», che ricordi «le dolci cose della vita». La fortezza si affaccia su un deserto da cui, si vocifera, arriveranno un giorno i Tartari. Il deserto è lo specchio di tante giornate che appaiono vuote, deprivate di un significato, senza un senso.
L’attesa dell’evento diventa il motivo costitutivo dell’esistenza dell’ufficiale Giovanni Drogo, così come il fulcro del romanzo, possibilità di riscatto dal grigiore e dalla monotonia dell’esistenza, occasione per l’affermazione del proprio valore.
Convintasi di essersi affrancata dalla superstizione e da una vetusta tradizione che oggi non avrebbe più nulla da dire, lungi dal progredire, la cultura contemporanea è ritornata al politeismo, all’idolatria di dei che hanno soltanto modificato il nome, ma non la sostanza: al posto di Venere si adora il sesso, al posto che a Marte si sacrificano vittime alla guerra e al potere, invece che a Plutone si inneggia al denaro. O forse sarebbe meglio dire che il Dio unico è stato sostituito da un uomo che si è posto sul piedistallo, si fabbrica la propria religione di vita o si adegua a quella imposta dal sistema del potere nella convinzione di poter fare a meno del Mistero.
Eppure, quest’uomo sul piedistallo si sgretola ogni istante, come una statua d’argilla crepata che vede la propria forma divenire polvere e disperdersi nel vento. E se allora facessimo uscire dalle nostre labbra l’invocazione che sgorga dal profondo delle fibre della nostra carne? Salvami tu, dà tu forma alla mia polvere, non permettere che si disperda al vento. E se ascoltassimo la domanda appena bisbigliata da Buzzati, con voce bassa, per non disturbare troppo un mondo che non vuole essere disturbato e infastidito? «E se invece venisse per davvero?».
Se il regno della fiaba e del mistero
si avverasse? Se accanto al fuoco
al mattino si trovassero i doni
la bambola il revolver il treno
il micio l’orsacchiotto il leone
che nessuno di voi ha comperati?
E se, continua Buzzati, la nostra sicurezza in cui viviamo, fasulla, costruita sulla scienza e sulla dea ragione, «andasse a carte quarantotto?».
Con imperdonabile leggerezza
forse troppo ci siamo fidati.
E se sul serio venisse?
Silenzio! O Gesù Bambino
per favore cammina piano
nell’attraversare il salotto.
Buzzati invita Gesù a venire senza far troppo rumore perché potrebbe svegliare noi uomini contemporanei «così colti così intelligenti/ brevettati miscredenti/ noi che ci crediamo chissà cosa/ coi nostri atomi coi nostri razzi». La nostra società non vuole essere disturbata nella sua imperturbabilità e nella sua ipocrita sicurezza.
Già cinquant’anni fa, nell’articolo per Il Corriere della sera del 9 dicembre 1973, intitolato “Sfida ai dirigenti della televisione” (divenuto poi “Acculturazione e acculturazione” negli Scritti corsari) Pier Paolo Pasolini sosteneva che il centralismo del potere aveva avuto come obiettivo quello di soffocare l’umano e ogni forma di desiderio autentico.
Il sistema della società dei consumi e la civiltà dell’edonismo di massa avevano creato un’adesione totale e incondizionata ai modelli imposti dal centro, portando ad una distruzione di tutti gli altri modelli culturali (contadino, sottoproletario, operaio).
L’ideologia edonistica ha attuato un’«omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza». Il sistema non vuole più solo creare un «uomo che consuma», ma «pretende che non siano concepite altre ideologie che quella del consumo». La religione, afferma Pasolini, è l’unico fenomeno che può essere concorrente e opporsi all’«edonismo di massa».
Pasolini capisce che un credo forte (ovvero una fede vera e vissuta) è l’unica possibilità perché non si ceda alla società che insinua falsi bisogni e che riduce la grande domanda che alberga in noi, perché non ci si accontenti e non si giunga ad una borghesizzazione della vita, ad una riduzione dell’umano, ad un perbenismo benpensante in cui non ci si aspetta più nulla dalla vita.
C’è ancora speranza allora? Da dove ripartire? Lasciamo che nel silenzio dalle crepe della nostra umanità escano le nostre domande come grida che attendono una risposta, escano le nostre lacrime che desiderano essere asciugate. Usciamo dal nostro bunker costruito da anni di indifferenza e di anestesia. Lasciamo che le bombe rappresentate da tutto il male del mondo, dal male che è di altri ma che è anche il mio male (di facile odio, di invidia, di superbia), ci stanino. Inutile è costruire una tana sempre più in profondità.
Usciamo allo scoperto, guardiamo finalmente la realtà, coscienti che nulla ci può proteggere dalla morte, dall’anestesia, dal non senso. Gridiamo che abbiamo bisogno di un Salvatore, di Uno che non ci faccia affogare nel «gran mare dell’essere» (Dante). Non fuggiamo da questo mare per paura di farci male o di affogare.
Con i versi di Nella notte di Natale di Saba apriamo la porta del nostro desiderio:
Forse il bene invocato oggi m’aspetta.
Una serenità quasi perfetta
calma i battiti ardenti del mio cuore.
Notte fredda e stellata di Natale,
sai tu dirmi la fonte onde zampilla
improvvisa la mia speranza buona?
È forse il sogno di Gesù che brilla
nell’anima dolente ed immortale
del giovane che ama, che perdona?
3/ Il dopodopodomani di Buzzati. Il 28 gennaio di 50 anni fa moriva lo scrittore bellunese. Nelle sue opere la concretezza semplice si unisce a un acuto sentimento del mistero. E c’è uno spiraglio, anche nelle situazioni più buie. «Senza la grazia, io non faccio niente», di Andrea Fazioli
Riprendiamo sul nostro sito da Comunione e Liberazione on-line (https://it.clonline.org/news/cultura/2022/01/28/anniversario-dino-buzzati) un articolo di Andrea Fazioli, pubblicato il 28/1/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (24/12/2023)
È la vigilia di Natale del 1920. Alla fine di una lunga lettera, il quattordicenne Dino Buzzati augura buon Natale al suo amico Arturo Brambilla. Poi aggiunge: «Non ti faccio gli auguri di Capo d’Anno perché ti scriverò domani, dopodomani, dopodopodomani, dopodopodopodomani, dopodopodopodopodomani ecc… ecc… e allora avrò il tempo di farteli».
È solo il saluto spiritoso di un adolescente, ma quella serie di “dopo” evoca in me una sensazione che non saprei come definire, se non con l’aggettivo buzzatiana. La tensione verso qualcosa che sta oltre, la fiducia nelle parole che verranno pronunciate (fiducia che persisterà anche nelle visioni più oscure), l’amicizia, l’attesa, la fedeltà… sono tutti temi fondamentali nell’opera dello scrittore nato a a Belluno nel 1906 e morto a Milano cinquant’anni fa, il 28 gennaio del 1972.
Buzzati e Brambilla si conoscono a scuola nel 1916, quando entrambi hanno dieci anni. Nei decenni successivi Buzzati indirizzerà più di trecento lettere all’amico: un corpus epistolare in cui piano piano si rivelano i tratti salienti della sua scrittura. È uno dei pochi autori italiani del XX secolo a cui si può attribuire un aggettivo: buzzatiano, appunto. Le sue narrazioni hanno un tocco inconfondibile, un’originalità che consiste nel miscuglio fra evocazione fantastica, senso dell’avventura e indagine esistenziale. Il tutto con uno stile insieme sobrio e poetico.
Per più di quarant’anni Buzzati lavorò al Corriere della Sera, prima come praticante redattore, poi come cronista, elzevirista, giornalista a tutto campo. Era anche poeta, drammaturgo, pittore e disegnatore. Nel 1969 il suo Poema a fumetti, che rivisita in chiave onirica il mito di Orfeo ed Euridice, anticipò di decenni l’evoluzione del fumetto contemporaneo (la cosiddetta graphic novel). Alcuni suoi racconti brevi (“Il colombre”, “I sette messaggeri”, “La goccia” e tanti altri) sono ormai dei classici, letti e riletti nelle scuole, così come i suoi romanzi: da Bàrnabo delle montagne (1933) fino a Un amore (1963), passando per Il deserto dei Tartari (1940), che è considerato il suo capolavoro.
Che cosa dire di Buzzati, in poche righe? La sua opera è ampia e magnifica come le cime delle Dolomiti, sulle quali amava arrampicarsi. «Ci vorrà naturalmente una guida che conduce ai posti da salutare». Così annotava l’autore sulla sua agenda, pochi mesi prima di morire per un tumore al pancreas. Poi aggiungeva: «Oppure, più semplice, le cose stesse si mettono a parlare». Questa è per me la caratteristica principale dei racconti di Buzzati: la concretezza, la semplicità delle cose di ogni giorno si unisce a un acuto sentimento del mistero. Come ebbe a dire lui stesso in un’intervista: «Senza un intervento estraneo, che non dipende da noi, senza la grazia, dico bene la grazia, non si fa niente. Io, particolarmente, non faccio niente».
Che valore attribuire alla parola «grazia» come la intende Buzzati? Non era credente, spesso anzi manifestava nei suoi racconti un certo pessimismo, uno sgomento di fronte alla morte. Ma anche nelle situazioni più buie, appare un «dopodopodopodomani», uno spiraglio di futuro. Il bellissimo finale de Il deserto dei tartari ne è un esempio: non voglio svelarlo, mi limito a dire che si tratta di un sorriso, un piccolo sorriso che appare quando tutto sembra inutile e perduto. «Non esiste una pagina di Buzzati che sotto sotto non rimandi ad un significato altro. C’è sempre sottinteso, ammiccante, a volte sornione, a volte surreale, a volte sarcastico, a volte commosso, non importa, ma c’è sempre il rimando a un significato misterioso che è diverso da quello che apparentemente vuole essere». Così diceva Lucia Bellaspiga, studiosa ed esperta di Buzzati, in un intervento di qualche anno fa al Centro Culturale di Milano.
Forse è stato proprio questo “oltre” ad affascinarmi, quando da ragazzo lessi per la prima volta Buzzati. In particolare mi capitò fra le mani il suo ultimo libro, I miracoli di Val Morel (1971). Si trattava di una vecchissima edizione, ma il volume è stato ristampato di recente da Mondadori. Buzzati dipinse una serie di quadri che s’ispiravano ai tradizionali ex-voto, nei quali le persone esprimono il loro ringraziamento per una grazia ricevuta. L’autore affronta il tema con ironia, in maniera surreale, dipingendo e narrando una serie di miracoli “impossibili” di santa Rita. In particolare mi colpì la «breve invasione di formiche mentali» avvenuta «a Longarone e in Valle di Zoldo, nell’anno 1871». L’autore immagina un certo tipo di pensiero ossessivo come una formica che s’installa nelle «circonvoluzioni mentali». Questi animaletti suscitano dubbi angosciosi del genere: «Lo sai che non esisti? O se esisti, esisti male?». La vertigine della domanda mi commosse da adolescente e mi commuove ancora. Ecco un autore che, a partire dal tema degli ex-voto, con la loro schiettezza, con il loro candore, va diritto al punto. Ma io esisto veramente? Che cosa significa essere al mondo?
Il piccolo volume, che Buzzati fece in tempo a vedere stampato poche settimane prima di morire, enumera una serie di mostri pittoreschi: i Gatti Vulcanici, i Vespilloni, il Serpenton dei Mari, il Gatto Mammone, il Diavolo Porcospino. Ma c’è anche il Colombre, protagonista del celebre racconto omonimo. Lo dobbiamo chiamare «mostro», spiega Buzzati, «perché meraviglioso, non già perché apportatore di sventure». Da quel momento, leggendo i racconti e gli articoli di Buzzati, capii che il «meraviglioso» ha in sé una forza positiva, insita nella sua capacità di suscitare domande, di smuovere il tran tran di una vita senza sorprese. Ecco dunque che il Colombre finalmente si rivela come una creatura benefica. Possibile? Non sembra vero, ma il mostruoso Colombre è una creatura buona.
Oltre alla concretezza, al mistero, al meraviglioso, anche l’amore e la bontà sono al centro dell’opera di Buzzati. Talvolta solo come nostalgia, talvolta invece come riconoscimento di una «grazia» inesplicabile, nascosta nella promessa di un «dopodomani» al quale l’autore si mantiene fedele. Così scrisse Buzzati il 6 giugno del 1963, in un articolo in memoria di papa Giovanni XXIII: «Anche i cuori apparentemente di pietra o di gesso a un certo momento possono capire, per lo meno intravedere, come la bontà sia, a questo mondo, la cosa che vale di più». Affiora qua e là nei racconti di Buzzati questa «bontà», questa parolina che ogni tanto ci sembra fin troppo semplice e ingenua, ma che in realtà è vasta quanto l’universo.