«Ascoltando i maestri» dedicato a Vincent Van Gogh. L’amore, il lavoro e la bellezza, di Paola Petrignani
Riprendiamo da L’Osservatore Romano un articolo di Paola Petrignani pubblicato il 4/12/2023. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Arte e fede; cfr., in particolare, Nel 150° anniversario della nascita di Vincent van Gogh (1853-2003). Dal Sermone domenicale sul Salmo 119, 19 al Campo di grano con corvi. Vivere in compagnia della speranza e nella sua assenza, di d. Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (25/12/2023)
Il primo dicembre scorso, nella bellissima cornice della Chiesa di Santa Maria Sopra Minerva a Roma, si è svolto l’incontro Ascoltando i maestri: Vincent Van Gogh, evento che apre una nuova stagione di incontri sui maestri promossa dall’Ufficio per l’università del Vicariato di Roma.
Nella serata dedicata al grande pittore olandese, agli interventi di Andrea Lonardo (Direttore dell’Ufficio per l’Università) e di Francesca Villanti (curatrice e storica dell’arte), moderati da Francesco d’Alfonso, si sono alternati momenti di lettura, musica e messa in scena coreografica che hanno permesso di approfondire il senso dell’arte del pittore olandese, entrando così ancora più addentro alle sue parole, ai suoi quadri, fin proprio ai suoi gesti d’artista.
Partendo dal racconto di quei «dieci anni di fallimenti» che hanno portato alla decisione, a 27 anni, di fare dell’arte la propria ragione di vita, Villanti e Lonardo non solo hanno raccontato a più riprese i passi di una vita tormentata, ma anche i passi di un’esperienza artistica che ha fatto della miseria, della sofferenza e della fatica la sua prima ragion d’essere.
Van Gogh — ha spiegato Lonardo — era molto, troppo diverso dagli artisti del suo tempo: infatti, rispetto a un Manet o a un Monet (l’uno dai quadri con figure «spogliate», l’altro «puramente interessato al colore, all’impressione e non all’oggetto che rappresentava»), il pittore olandese voleva mettere nei suoi quadri tutta «la stima e l’amore» che aveva per gli uomini e per le donne, per i lavoratori e le lavoratrici che aveva avuto modo di conoscere.
Da qui anche il motivo di un uso così pastoso ed esagerato del colore. «Farò il colorista arbitrario», scriveva, un po’ come a dire, ha spiegato Lonardo, «farò un’esagerazione perché questa mia esagerazione mi permette di far parlare le persone». Gli permetteva, in sostanza, di dare il giusto rilievo e la giusta nobiltà al lavoro, ai gesti e a quei volti scavati dalla fatica: «Un modo per dire che questi uomini ci sono, che sono grandi».
Una fatica a cui il pittore ha sempre partecipato con grande amore, ed è anzi proprio di amore che parliamo quando parliamo dei suoi quadri. Come è stato ripetuto più volte durante l’incontro, Van Gogh era pregno di questo amore che pure nascondeva il bisogno di relazioni durature; di sentimenti corrisposti prima ricercati nella propria famiglia (minata dal pessimo rapporto con il padre), poi nel lavoro di predicatore (da cui venne allontanato), fin proprio in quelle poche storie d’amore complicate e perennemente osteggiate, e infine negli amici artisti (la più famosa l’amicizia con Gauguin, finita con l’auto-mutilazione dell’orecchio sinistro).
Ma come ricordato da Villanti, l’unico vero rapporto era quello con il fratello Theo: con lui scambiò più della metà delle oltre novecento lettere scritte in vita. Lettere che rappresentano per noi oggi un vero e proprio «doppio binario» che ci consente di comprendere al meglio il senso dei suoi quadri, e che forse hanno consentito alla stessa Johanna Bonger (ormai vedova di Theo) di intuire il valore nascosto nei quasi quattrocento quadri che le tappezzavano casa (diventandone, così, anche la prima estimatrice industriandosi come nessun altro per farne riconoscere il valore).
Ed è proprio da qui, dalle lettere, che è stato ricavato anche l’ultimo estratto scelto a conclusione dell’incontro. Dopo aver goduto dei quadri, della musica e dei corpi senza peso dei ballerini, l’incontro si è chiuso con la breve lettura del primo sermone mai scritto da Van Gogh, là dove è possibile percepire non solo quanto il senso della sofferenza e della fatica fossero aspetti chiave della vita del pittore olandese (e questo già all’età di 23 anni, ben prima di prendere in mano la matita per non staccarsene più), ma quanto in quella fatica, in quella sofferenza ci fosse anche il senso di qualcosa di molto più grande: una «luce» che è riuscito a far brillare proprio nei suoi quadri.
È infatti proprio in queste parole finali che si evince quella tensione che rende tutt’oggi la sua pittura così intensa, dimostrando una visione che non si nutre di sola bellezza ma di «una bellezza che nasconde una promessa». Appunto, la promessa di qualcosa di molto più grande. La promessa, nei quadri di Vincent Van Gogh, di qualcosa che salva.