Dio è amore in San Giovanni, di Benedetto XVI
Riprendiamo la seconda catechesi di Benedetto XVI su San Giovanni evangelista e stralci della prima. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi sul vangelo di Giovanni, vedi su questo steso sito la sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (7/1/2011)
Catechesi di Benedetto XVI, del 9 agosto 2006
Cari fratelli e sorelle,
prima delle vacanze avevo cominciato con piccoli ritratti dei dodici Apostoli. Gli Apostoli erano compagni di via di Gesù, amici di Gesù e questo loro cammino con Gesù non era solo un cammino esteriore, dalla Galilea a Gerusalemme, ma un cammino interiore nel quale hanno imparato la fede in Gesù Cristo, non senza difficoltà perché erano uomini come noi. Ma proprio per ciò perché erano compagni di via di Gesù, amici di Gesù che in un cammino non facile hanno imparato la fede, sono anche guide per noi, che ci aiutano a conoscere Gesù Cristo, ad amarLo e ad avere fede in Lui. Avevo già parlato su quattro dei dodici Apostoli: su Simon Pietro, sul fratello Andrea, su Giacomo, il fratello di San Giovanni, e l’altro Giacomo, detto “il Minore”, che ha scritto una Lettera che troviamo nel Nuovo Testamento. Ed avevo cominciato a parlare di Giovanni l’evangelista, raccogliendo nell’ultima catechesi prima delle vacanze i dati essenziali che delineano la fisionomia di questo Apostolo. Vorrei adesso concentrare l’attenzione sul contenuto del suo insegnamento. Gli scritti di cui oggi, quindi, ci vogliamo occupare sono il Vangelo e le Lettere che vanno sotto il suo nome.
Se c'è un argomento caratteristico che emerge negli scritti di Giovanni, questo è l'amore. Non a caso ho voluto iniziare la mia prima Lettera enciclica con le parole di questo Apostolo: “Dio è amore (Deus caritas est); chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4,16). È molto difficile trovare testi del genere in altre religioni. E dunque tali espressioni ci mettono di fronte ad un dato davvero peculiare del cristianesimo. Certamente Giovanni non è l'unico autore delle origini cristiane a parlare dell'amore. Essendo questo un costitutivo essenziale del cristianesimo, tutti gli scrittori del Nuovo Testamento ne parlano, sia pur con accentuazioni diverse. Se ora ci soffermiamo a riflettere su questo tema in Giovanni, è perché egli ce ne ha tracciato con insistenza e in maniera incisiva le linee principali. Alle sue parole, dunque, ci affidiamo. Una cosa è certa: egli non ne fa una trattazione astratta, filosofica, o anche teologica, su che cosa sia l’amore. No, lui non è un teorico. Il vero amore infatti, per natura sua, non è mai puramente speculativo, ma dice riferimento diretto, concreto e verificabile a persone reali. Ebbene, Giovanni come apostolo e amico di Gesù ci fa vedere quali siano le componenti o meglio le fasi dell'amore cristiano, un movimento caratterizzato da tre momenti.
Il primo riguarda la Fonte stessa dell’amore, che l’Apostolo colloca in Dio, arrivando, come abbiamo sentito, ad affermare che “Dio è amore” (1 Gv 4,8.16). Giovanni è l'unico autore del Nuovo Testamento a darci quasi una specie di definizione di Dio. Egli dice, ad esempio, che “Dio è Spirito” (Gv 4,24) o che “Dio è luce” (1 Gv 1,5). Qui proclama con folgorante intuizione che “Dio è amore”. Si noti bene: non viene affermato semplicemente che “Dio ama” e tanto meno che “l'amore è Dio”! In altre parole: Giovanni non si limita a descrivere l'agire divino, ma procede fino alle sue radici. Inoltre, non intende attribuire una qualità divina a un amore generico e magari impersonale; non sale dall’amore a Dio, ma si volge direttamente a Dio per definire la sua natura con la dimensione infinita dell'amore. Con ciò Giovanni vuol dire che il costitutivo essenziale di Dio è l’amore e quindi tutta l'attività di Dio nasce dall’amore ed è improntata all'amore: tutto ciò che Dio fa, lo fa per amore e con amore, anche se non sempre possiamo subito capire che questo è amore, il vero amore.
A questo punto, però, è indispensabile fare un passo avanti e precisare che Dio ha dimostrato concretamente il suo amore entrando nella storia umana mediante la persona di Gesù Cristo, incarnato, morto e risorto per noi. Questo è il secondo momento costitutivo dell'amore di Dio. Egli non si è limitato alle dichiarazioni verbali, ma, possiamo dire, si è impegnato davvero e ha “pagato” in prima persona. Come appunto scrive Giovanni, “Dio ha tanto amato il mondo (cioè: tutti noi) da donare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). Ormai, l'amore di Dio per gli uomini si concretizza e manifesta nell'amore di Gesù stesso. Ancora Giovanni scrive: Gesù “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1). In virtù di questo amore oblativo e totale noi siamo radicalmente riscattati dal peccato, come ancora scrive San Giovanni: “Figlioli miei, ... se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è propiziazione per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1 Gv 2,1-2; cfr 1 Gv 1,7). Ecco fin dove è giunto l'amore di Gesù per noi: fino all'effusione del proprio sangue per la nostra salvezza! Il cristiano, sostando in contemplazione dinanzi a questo “eccesso” di amore, non può non domandarsi quale sia la doverosa risposta. E penso che sempre e di nuovo ciascuno di noi debba domandarselo.
Questa domanda ci introduce al terzo momento della dinamica dell’amore: da destinatari recettivi di un amore che ci precede e sovrasta, siamo chiamati all’impegno di una risposta attiva, che per essere adeguata non può essere che una risposta d’amore. Giovanni parla di un “comandamento”. Egli riferisce infatti queste parole di Gesù: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amati, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Dove sta la novità a cui Gesù si riferisce? Sta nel fatto che egli non si accontenta di ripetere ciò che era già richiesto nell'Antico Testamento e che leggiamo anche negli altri Vangeli: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18; cfr Mt 22,37-39; Mc 12,29-31; Lc 10,27).
Nell’antico precetto il criterio normativo era desunto dall’uomo (“come te stesso”), mentre nel precetto riferito da Giovanni Gesù presenta come motivo e norma del nostro amore la sua stessa persona: “Come io vi ho amati”. È così che l'amore diventa davvero cristiano, portando in sé la novità del cristianesimo: sia nel senso che esso deve essere indirizzato verso tutti senza distinzioni, sia soprattutto in quanto deve pervenire fino alle estreme conseguenze, non avendo altra misura che l’essere senza misura. Quelle parole di Gesù, “come io vi ho amati”, ci invitano e insieme ci inquietano; sono una meta cristologica che può apparire irraggiungibile, ma al tempo stesso sono uno stimolo che non ci permette di adagiarci su quanto abbiamo potuto realizzare. Non ci consente di essere contenti di come siamo, ma ci spinge a rimanere in cammino verso questa meta.
Quell'aureo testo di spiritualità che è il piccolo libro del tardo medioevo intitolato Imitazione di Cristo scrive in proposito: “Il nobile amore di Gesù ci spinge a operare cose grandi e ci incita a desiderare cose sempre più perfette. L'amore vuole stare in alto e non essere trattenuto da nessuna bassezza. L'amore vuole essere libero e disgiunto da ogni affetto mondano... l'amore infatti è nato da Dio, e non può riposare se non in Dio al di là di tutte le cose create. Colui che ama vola, corre e gioisce, è libero, e non è trattenuto da nulla. Dona tutto per tutti e ha tutto in ogni cosa, poiché trova riposo nel Solo grande che è sopra tutte le cose, dal quale scaturisce e proviene ogni bene” (libro III, cap. 5). Quale miglior commento del “comandamento nuovo”, enunciato da Giovanni? Preghiamo il Padre di poterlo vivere, anche se sempre in modo imperfetto, così intensamente da contagiarne quanti incontriamo sul nostro cammino.
Dalla catechesi di Benedetto XVI, del 5 luglio 2006
Negli apocrifi Atti di Giovanni l'Apostolo viene presentato non come fondatore di Chiese e neppure alla guida di comunità già costituite, ma in continua itineranza come comunicatore della fede nell'incontro con “anime capaci di sperare e di essere salvate” (18,10; 23,8). Tutto è mosso dal paradossale intento di far vedere l'invisibile. E infatti dalla Chiesa orientale egli è chiamato semplicemente “il Teologo”, cioè colui che è capace di parlare in termini accessibili delle cose divine, svelando un arcano accesso a Dio mediante l'adesione a Gesù.
Il culto di Giovanni apostolo si affermò a partire dalla città di Efeso, dove, secondo un’antica tradizione, avrebbe a lungo operato, morendovi infine in età straordinariamente avanzata, sotto l'imperatore Traiano. Ad Efeso l'imperatore Giustiniano, nel secolo VI, fece costruire in suo onore una grande basilica, di cui restano tuttora imponenti rovine. Proprio in Oriente egli godette e gode tuttora di grande venerazione. Nell’iconografia bizantina viene spesso raffigurato molto anziano – secondo la tradizione morì sotto l’imperatore Traiano - e in atto di intensa contemplazione, quasi nell’atteggiamento di chi invita al silenzio.
In effetti, senza adeguato raccoglimento non è possibile avvicinarsi al mistero supremo di Dio e alla sua rivelazione. Ciò spiega perché, anni fa, il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Atenagora, colui che il Papa Paolo VI abbracciò in un memorabile incontro, ebbe ad affermare: “Giovanni è all'origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni e il loro cuore si infiamma” (O. Clément, Dialoghi con Atenagora, Torino 1972, p. 159).