Rispetto a che cosa dobbiamo innovare? Rispetto a che cosa dobbiamo attuare una conversione pastorale?, di Giovanni Amico
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Teologia pastorale e Educazione.
Il Centro culturale Gli scritti (11/12/2023)
Decisivo è domandarsi rispetto a cosa bisogna innovare, da cosa bisogna distanziarsi, cosa si deve criticare.
Per taluni pastoralisti il tempo che ci precede è quello delle regole morali, dei diktat, dei contenuti, di una comunicazione dogmatica, di nozioni catechistiche, quello del Catechismo di Pio X, quello di una scuola sclerotizzata sui classici, quello di linguaggi affettivi troppo standardizzati.
Innovare rispetto a questo passato recente e infecondo vorrebbe dire, per loro, quindi cancellare regole, diminuire il peso dell’autorità, cessare di offrire contenuti o almeno ridurne la presenza, non affrontare le questioni della verità della fede, liberare la catechesi dai contenuti per linguaggi più narrativi e un maggiore utilizzo di attività, diminuire nelle scuole la presenza dei classici e proporre autori contemporanei, liberare la sessualità da un esagerata attenzione al matrimonio, alla fecondità, alla castità, al predominio di padri-padroni nelle scelte dei figli e delle figlie troppo accentuato.
Se, invece, gli ultimi decenni - dagli anni settanta ad oggi, circa cinquant’anni, cioè ben due generazioni – avessero già percorso la strada di cancellare regole, di diminuire il peso dell’autorità, di cessare di offrire contenuti o almeno ridurne la presenza, di non affrontare le questioni della verità della fede, di liberare la catechesi dai contenuti per linguaggi più narrativi e un maggiore utilizzo di attività, di diminuire a scuola la presenza dei classici e proporre autori contemporanei, di liberare la sessualità da un esagerata attenzione al matrimonio, alla fecondità, alla castità, al predominio di padri padroni nelle scelte dei figli e delle figlie troppo accentuato - chiedo scusa per la ripetizione, ma è utile -, la domanda diviene se questo processo ha portato frutti o meno.
Si noti bene, non si tratta tout court di condannare chi assume una posizione, ma di aiutare a porre le domande giuste, perché non sia fuorviante la ricostruzione storica e quindi la mancata assunzione delle responsabilità e la chiarificazione dei corrispettivi atteggiamenti culturali da rifuggire.
È evidente che oggi esistono problemi a scuola, nell’educazione dei figli in famiglia, nella catechesi, nell’azione pastorale e così via. È quindi evidente che dobbiamo distanziarci da ciò che li ha causati.
Ma tali problemi odierni da tutti percepibili, derivano da un’impostazione troppo contenutistica e legata a forti pressioni della figura paterna e a forti restrizioni nell’ambito della libertà sessuale che avrebbe guidato la cultura e l’educazione del paese negli ultimi cinquant’anni? Oppure questi cinquant’anni, con i loro professori e catechisti decostruttori, hanno dissolto tutto questo e qualche responsabilità hanno loro nella situazione odierna e bisogna distanziarsi pure dal loro orizzonte troppo vacuo?
Si noti bene che, una volta posta la questione, non tutto è risolto: restano aperte altre questioni e la via da seguire non è immediatamente univoca.
Qualcuno potrebbe infatti sostenere che cinquant'anni – due generazioni di educatori - siano stati troppo pochi e che per avere i frutti sperati si deve proseguire. Ma allora si deve avere il coraggio di dire che bisogna continuare - e non iniziare - il cambiamento. Perché esso sarebbe iniziato già cinquant’anni fa.
Sarebbe più corretto dire – se si assume la prospettiva di colpevolizzare gli anni Cinquanta - che si deve allora tornare agli anni Settanta e Ottanta, ai Decreti delegati, alla libertà sessuale scoperta in quegli anni, ad una scuola che rifiuta di insegnare i classici, ad una catechesi esperienziale proposta in quegli anni e così via.
Oppure, all’opposto, bisogna valutare criticamente questi cinquant'anni e fare i conti con essi – il dramma è che nessuno vuole mettere in questione ciò che è avvenuto in questi ultimi cinquant’anni e tutti trovano più facile prendersela con la società degli anni Cinquanta e con i suoi modelli educativi.
Si noti bene: se si giungesse alla conclusione che il malessere in cui ci troviamo non dipende dalla mentalità degli anni Cinquanta, ma dai danni causati nei decenni successivi, ciò non avrebbe come conseguenza quella di pretendere di tornare agli anni del pre-Concilio.
Vorrebbe dire mettere però sul banco degli accusati non solo gli anni Cinquanta, ma anche i cinquant’anni dopo, per individuare vie che non siano più quelle della scuola di Gentile e della Catechesi di Pio X e dei matrimoni decisi dai genitori e della verginità fino al matrimonio, totalmente dissolti dagli ultimi cinquant’anni.
Ma che non siano nemmeno le dottrine pedagogiche che hanno rifiutato sia i classici a scuola, sia i contenuti nella catechesi, sia una qualsivoglia prospettiva di morale affettiva.
Sarebbe tutto da rifare, insomma, criticando sia i vecchi maestri, sia i maestri più giovani: quelli più antichi come memoria del passato, quelli più recenti come causa diretta della situazione attuale, generata esattamente da loro.
Servirebbe – se l’analisi è corretta - una terza via che non sia né quella del passato remoto delle regole e dei contenuti, né quella del passato prossimo che li ha cancellati.
Non c’è dubbio, comunque, che il malessere palese che serpeggia è frutto soprattutto di questi ultimi cinquant’anni, non perché i cinquant’anni che vanno dal 1900 al 1950 siano migliori, ma perché sono troppo lontani e non è a motivo di quegli orientamenti che noi siamo nella situazione attuale.
Di una seria analisi critica di ciò che è stato pensato, progettato, proposto e realizzato negli ultimi 50 anni c’è bisogno.
Tali orientamenti andrebbero criticati per essere innovatori e per proporre nuovi paradigmi.
Di questo dovremmo parlare per operare conversioni pastorali e nuovi atteggiamenti pedagogici: per essere nuovi e non perseverare nel fallimento, dobbiamo prendere le distanze dagli ultimi cinquant’anni, accogliendone il bene, ma, al contempo, rifuggendo dai vicoli ciechi in cui ci hanno portato a causa dei maestri che hanno preso le redini del pensiero in questi ultimi cinquant'anni, in pedagogia, in catechesi, nelle scuole, nella visione della famiglia e nell’educazione degli affetti.
Se non faremo questo, persevereremo nell’abituale, nel consuetudinario, nel vecchio, che ha generato il malessere in cui ci troviamo.