Cosa insegna la guerra di Gaza sulle responsabilità delle parti? E cosa insegna sui fallimenti umani? Nota sul realismo cristiano, di Giovanni Amico
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Terra santa e Dialogo fra le religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (5/11/2023)
Una premessa
Quando si parla di guerra e di guerra fra Israele e i palestinesi è facile diventare falchi o conigli. Ma non si deve dimenticare che esiste altro. Che esiste cioè chi è ben consapevole della violenza e dell’ingiustizia – non astrattamente, ma sulla propria carne - ma sceglie di rifiutare un’ulteriore violenza.
È il caso dei cattolici di Gaza. Un recente video dei bambini della parrocchia latina di Gaza, dedicata alla Sacra Famiglia, mostra i bambini che pregano insieme per la pace.
Esistono cioè persone che insegnano ai loro figli a non utilizzare toni di violenza, che insegnano a non gridare, bensì ad avere modalità già nel linguaggio diverse. Il tono con cui si prega o si parla di Dio, la dice già molto lunga sugli atteggiamenti del cuore e della mente.
Sono arabi, sono palestinesi, non sono israeliani, conoscono la violenza subita, ma non gridano vendetta, non vogliono uccidere.
Ecco il video da Gaza dei bambini cattolici nei giorni dei bombardamenti:
Due questioni
Due cose dovrebbero poi essere assolutamente evidenti agli osservatori onesti.
Due cose non politicamente corrette dovrebbero essere spiattellate in faccia agli opinionisti manichei e dualisti che vedono la giustizia da una parte o dall’altra, il bene e il male assoluti in forma contrapposta e si lanciano in cortei contro questo o contro quello, come paladini di una giustizia sommaria.
1/ La prima questione
La prima questione: ognuno ha sbagliato e non dovrebbe solo accusare.
Dinanzi ad un conflitto così lungo nel tempo, così radicato in profondità nelle motivazioni e nelle posizioni – si pensi che negli statuti fondativi un tempo dell’OLP e ora di Hamas (l’OLP ha cancellato tale indicazione) sta la distruzione di Israele, sta la fine dell’esistenza di Israele (sullo Statuto di Hamas, cfr.
- Lo Statuto di Hamas
- Asini: perché la storia è importante. Il caso dello Statuto dei palestinesi di Hamas. Breve nota di Giovanni Amico. 1/ Per lo Statuto di Hamas gli ebrei sarebbero causa della rivoluzione francese e della rivoluzione russa, della I e della II guerra mondiale, della massoneria, dei Rotary Cub, dei Lions club e di molto altro: non è un’affermazione un tantino esagerata (oltre che ridicola nel mettere sullo stesso piano il Rotary club e le due guerre mondiali)? 2/ Israele, Spagna, Sicilia, Bari e Grecia e via dicendo possono esistere o la storia, religiosamente ricostruita, li condanna per sempre?).
Ma si pensi anche al fatto che la politica di Israele è stata ed è quella della progressiva riduzione degli spazi dell’Autonomia palestinese e che, di fatto, negli spazi superstiti non si è mai intervenuto, fin dai primordi, per un effettivo sviluppo di quelle terre e di quelle popolazioni.
Non basta accusare, bisogna saper riconoscere gli errori commessi.
Ed è questo che raramente viene fatto. Si ha ragione, senza riconoscere di avere anche torto.
Ed è ben per questo che qualsiasi schieramento manicheo contro l’uno o l’altro è assolutamente falso e irrealistico e non appropriato.
1.1/ Uno sguardo alla storia per comprendere quanto antichi siano gli errori commessi che pesano
Già, se si ha il coraggio di guardare alla storia, si dovrebbe considerare da quanti secoli gli arabi abbiano prima conquistato con le armi una terra non loro e poi l’abbiano governata secondo propri criteri e poi ancora gli stessi arabi siano stati sottomessi da altri musulmani, i turchi, che li hanno “impoveriti” per secoli, fino alla fine della prima guerra mondiale
Si dovrebbe considerare come i Turchi abbiano spogliato gli arabi di risorse. Il peso del dominio turco sugli arabi fu così forte che Lawrence d’Arabia poté contare sugli arabi per combattere l’Impero Ottomano a favore dei britannici.
Già il dominio Mamelucco – che durò dal 1291 al 1516 – e poi quello Ottomano dal 1517 – che fu “ufficialmente” turco – mostrano come nei millenni molti abbiano contribuito all’impoverimento degli arabi oggi di Palestina. I secoli di dominio turco furono sei, se si considera il dominio Mamelucco o almeno quattro secoli, se si guarda solo all’Impero Ottomano. Secoli che impoverirono il mondo arabo.
Certo l’Occidente ha le sue colpe se si considerano i ventisei anni – dal 1922 al 1948 – di dominio (Mandato) britannico che fecero ricredere gli arabi sul dominio turco, ma certo quei tre decenni sono nulla rispetto alla dominazione ottomana musulmana.
Una tale considerazione ha, in questa riflessione, il senso di ampliare la considerazione delle responsabilità a tempi remoti, eppure pesanti nelle loro conseguenze odierne.
La dimenticanza del dominio di musulmani su musulmani, di turchi su arabi, porta come conseguenza una semplificazione delle responsabilità, come se tutto dipendesse dai Mandati Europei succeduti dopo la seconda guerra mondiale e fino al 1948 all’Impero Ottomano.
Chi riflette su Israele e la Palestina deve essere consapevole, pena diventare un guerrafondaio, che le responsabilità sono enormi, sono stratificate e vengono da molteplici parti: solo un riconoscimento di colpe multilaterali è adeguato a non fomentare ulteriormente la violenza.
Si dovrebbe considerare come prima ancora siano stati i pagani dell’impero romano a sottomettere Israele e ad obbligarlo alla diaspora: il primitivo antiebraismo è pagano e non cristiano, le prime persecuzioni sono pagane e non cristiane. Ma si dovrebbe poi raccontare delle colpe dei cristiani che, se pur non conquistarono quelle terre con le armi, non resero facile la vita agli ebrei, anzi.
Si dovrebbe raccontare della volontà di tutti i paesi arabi di distruggere lo Stato di Israele, dopo la seconda Guerra mondiale: solo in tempi recenti la Giordania e l’Egitto hanno riconosciuto la legittimità dell’esistenza di Israele.
Tanti dimenticano così che se non si fosse preparato un attacco arabo a Israele nel 1967, Gerusalemme e la Cisgiordania sarebbero ancora arabe, poiché è solo a motivo del fallimento militare in quella guerra che gli arabi intendevano essere trionfale fino all’estinzione di Israele che il mondo arabo perse quelle terre. Senza quelle guerre volute dagli arabi, le terre dei palestinesi non sarebbero ridotte in estensione ai brandelli di oggi.
Si dovrebbe dire del crescere degli attentati terroristici, da quello alle Olimpiadi di Monaco del 1972 così come delle stragi di Fiumicino del 1973 e del 1985, fino agli attentati suicidi contro civili fino alla strage del 7 ottobre 2023, la peggiore che si sia mai vista.
Ma si dovrebbe dire anche di come i palestinesi, trasferitisi in Giordania abbiano generato in risposta il terribile “settembre nero” quando il re e gli arabi di Giordania, avvertendo il pericolo di una rivolta palestinese, soffocarono nel sangue la presenza degli arabi di Palestina.
E di come poi essi, trasferitisi in Libano, iniziarono a compiere atti di violenza fino a far traballare la pacifica convivenza fra popolazioni e religioni diverse che aveva fin lì contraddistinto l’esistenza della “Svizzera del Medio Oriente”, il Libano appunto – oggi in estrema difficoltà economica e politica proprio a causa della china discesa a partire d quegli anni e a causa delle armi palestinesi.
Ma si dovrebbe dire, da parte opposta, del progressivo indurimento da parte israeliana, della progressiva difficoltà nel collegamento fra i villaggi palestinesi generata da Israele, della diseguale distribuzione dell’acqua, della progressiva costruzione di insediamenti intorno a Gerusalemme e poi ovunque, dei kibbutz costruiti nei pressi dei villaggi arabi e delle conseguenze sulla vita, sempre più difficile, che tutto questo ha comportato.
Si dovrebbe dire dei check point e della difficoltà di attraversarli, così come della costruzione del Muro con il conseguente impoverimento lavorativo e l’inferiorità vissuta oggettivamente dai palestinesi lavoratori in Israele (ma come non dimenticare anche che agli israeliani è proibito attraversare quei check point ed è interdetto recarsi nelle zone palestinesi?).
Si dovrebbe dire poi delle azioni volte a colpire i possedimenti dei terroristi con lo spianamento delle loro case fatte da bulldozer, delle carceri estremamente dure per chi avesse commesso violenza, e delle morti di civili colpiti da soldati israeliani, perché è impossibile uccidere uomini armati che si muovano in città affollatissime senza colpire anche chi passa loro vicino.
Si dovrebbe dire di azioni mirate di eliminazione di persone ritenute coinvolte nella violenza, come delle testate missilistiche che cadono su Gaza proprio in queste ore.
E ancora della mancanza di “spazio” e di “libertà” dovuti anche all’effettiva piccolezza della terra che i due popoli abitano.
1.2/ Questioni geografiche che complicano
Un aspetto decisivo e poco considerato – e che non è esattamente una colpa di alcuno, poiché non si può addebitare a Dio di aver donato agli ebrei una terra così piccola, se si fosse credenti – è che il territorio di Israele e di Palestina è piccolissimo. Per estensione si potrebbe paragonare alla nostra Calabria. Non è semplicemente piccola la striscia di Gaza – che è oggettivamente troppo ristretta per farvi risiedere i palestinesi, ma sono oggettivamente piccoli Israele e Palestina considerati nel loro insieme.
Solo popolazioni che si volessero bene potrebbero abitare territori così piccoli insieme. Un qualsivoglia dissapore maggiore porterebbe, come di fatto porta, i due popoli a sentirsi continuamente in pericolo, poiché le città dell’uno e dell’altro sono a distanza di pochissimi chilometri e senza alcuna barriera naturale, come ad esempio le Alpi - solo per evocare qualcosa di ben conosciuto in Italia.
Ma si pensi ancor più al fatto che, di solito, i luoghi sacri delle diverse religioni sono a migliaia di chilometri di distanza l’uno dall’altro. Qui non solo sono nella stessa città, Gerusalemme, ma addirittura è lo stesso luogo ad essere simbolo, cuore e centro della fede degli uni e degli altri.
Per Israele il Tempio è il luogo voluto da Dio per il culto, costruito, distrutto e poi ricostruito e poi nuovamente distrutto, ma anelito della preghiera di tutto il popolo. Lì è il luogo dove Dio si è rivelato e lì è il luogo dove il popolo si è rivolto a Dio, sapendo che proprio lì era chiamato da Dio stesso a rendergli culto.
Anche per i palestinesi musulmani quel luogo è importante - e lo è per tutti i musulmani – perché il Profeta Maometto venne trasportato dalla Mecca su di una cavalcatura alata durante una notte sulla spianata del Tempio e di lì salì al cielo per ricevere alcune rivelazioni, ridiscese dal cielo e venne ritrasportato nella stessa notte alla Mecca dalla stessa cavalcatura alata.
Per questo, per i musulmani di Palestina, quello è il luogo più importante dell’intero territorio, per il viaggio di una notte del Profeta stesso – ovviamente per i musulmani, a differenza degli ebrei, il luogo più importante non è in Israele, ma è alla Mecca.
Solo per i cristiani non vi è alcuna richiesta di possesso in Gerusalemme: essi chiedono solo di avere libero accesso per il pellegrinaggio, la preghiera, gli studi archeologici e il dialogo con le altre due religioni a Gerusalemme, ma non sono interessati a rivendicare oggi alcun possesso.
Per Israele, invece, quel luogo è “il luogo”, per i musulmani quel luogo è molto importante: con il problema religioso e politico di essere lo “stesso” luogo.
1.3/ I torti e non solo le ragioni
Quanto detto, deve far considerare che ognuna delle due parti potrebbe dire che l’altra ha commesso delitti, che è stata ingiusta. E avrebbe ragione da vendere.
Ma ciò non basta. Per la pace si dovrebbe giungere a dire che il male è stato fatto anche dai propri.
Proprio dinanzi all’inasprirsi progressivo della guerra, di anno in anno, di decennio in decennio, si potrebbe dire che cresce la ragione di entrambe le parti, ma crescono anche i torti di entrambe le parti.
Israele ha ancora più ragione, dopo l’attacco bestiale del 7 ottobre 2023, nel dire che non si può far altro che tenere a bada, con Muri sempre più spessi, i suoi nemici.
La Palestina ha ancor più ragione nel dire che la reazione di Israele dopo il 7 ottobre 2023 è troppo dura e che colpisce tanti civili innocenti.
Israele ha ancora più ragione nel dire che i palestinesi sono scorrettissimi nell’accusarlo di aver colpito un ospedale in Gaza che è stato invece raggiunto, con molte vittime, da razzi palestinesi stessi i quali non se ne sono assunti le responsabilità – in ciò incoraggiati dalla stupidità dei media occidentali che cercano occasioni per danneggiare l’immagine di Israele.
I palestinesi hanno ragione nell’affermare che tutto diviene più inumano se la popolazione di Gaza viene allontanata dai quartieri nord e ristretta al sud.
Gli israeliani hanno ancora più ragione quando vedono che i palestinesi che sono contrari ad Hamas non insorgono contro Hamas, non cercano di liberare gli ostaggi. Hanno ancora più ragione quando si rendono conto che non c’è nessuna manifestazione degli imam o della gente semplice contro Hamas, nemmeno nella West Bank governata dall’OLP che è, oggi, contrario ad Hamas – ma che è al contempo assolutamente corretto e teso solo al mantenimento dei propri privilegi nella West Bank. Certo è che Hamas governa a Gaza e nessuno manifesta contro di esso.
Ma anche il resto del mondo ha colpe che non possono essere taciute.
Ha colpe l’Europa che è sempre stata troppo debole nell’individuare una linea che la differenziasse dagli Usa, che ha sempre inviato aiuti accettando la corruzione locale, che ha guadagnato sugli aiuti umanitari.
Ha colpe gravissime l’America e i suoi presidenti di destra e di sinistra che non hanno saputo e voluto far valere la loro potenza in maniera equa.
Hanno gravi colpe i paesi arabi tutti, non solo per la loro inziale e persistente incapacità di accettare l’esistenza di Israele giungendo fino all’attacco contro di esso, ma anche per l’incapacità di generare un sistema educativo ed un sistema religioso che inizi ad affrontare la questione delle violenze religiosa islamiche nel corso della storia, fin dalla primitiva conquista della Siria-Palestina e dell’Egitto, come poi della penisola anatolica e così via.
1.4/ Si può volere la pace se non si è mai ammessa una sola colpa nella storia?
Si potrebbe ancora dire – e questo vale soprattutto per la prospettiva religiosa islamica – che mai vi è stata qualcosa come un’ammissione di colpe nei secoli passati per atti e atteggiamenti di violenza vissuti.
Mai il mondo islamico è stato abituato dai suoi maestri a riconoscere le enormi violenze commesse, a differenza della Chiesa che ha riconosciuto le proprie colpe per l’Inquisizione o le Crociate.
Fin dalle origini l’Islam si è configurato non solo come una religione – con elementi preziosi e nobili di fiducia in Dio, di riti e di preghiere e di carità – ma anche come società guerriera, con il proprio profeta che è stato al contempo un guerriero e un comandante militare di guerre non difensive, ma offensive.
Mai c’è stata una vera analisi storica delle responsabilità delle conquiste della Siria-Palestina stessa alle origini dell’Islam, ma anche dell’Egitto, di tutto il nord Africa della Spagna e della Sicilia, della Mesopotamia e poi oltre, così come poi dell’impero bizantino e di Costantinopoli/Istanbul, per non parlare dell’estremo oriente, fino all’Indonesia: sempre si è combattuto, saccheggiato, conquistato, fatto schiavi e ucciso e ancora il sistema educativo dei paesi a maggioranza musulmana attende una qualche ammissione di colpa da parte della cultura islamica.
Sulla questione delle responsabilità religiose. Cfr.
- Lettera aperta al mondo musulmano, di Abdennour Bidar
- Malala all'Onu: "Libri e penne più forti delle pallottole dei talebani"
- Amici musulmani, gli eventi recenti stanno spingendo tanti al disprezzo verso Allah e verso l’Islam: è ora, dunque, di parlare con coraggio in pubblico!, di Giovanni Amico
- 1/ Kamel Daoud. L'intellettuale algerino: "Impossibile scrivere di Islam, mi ritiro", di Stefano Montefiori 2/ Parla di "porno-islamismo", viene messo alla gogna. Ma in Francia non erano tutti Charlie?, di Leone Grotti 3/ "Ho scritto non solo perché volevo avere successo, ma anche perché avevo il terrore di vivere una vita senza senso. Ho scritto spesso, troppo, con furore, collera e divertimento. Ho detto quello che pensavo sulla sorte delle donne nel nostro Paese, sulla libertà, sulla religione e su altre grandi questioni che possono condurci alla consapevolezza o all'abdicazione e all'integralismo". La lettera di Kamel Daoud
- Che fare ora che le masse musulmane scoprono che molte nazioni islamiche appartengono al Nord del mondo, all'élite ricca e benestante del pianeta, e l'alibi del "povero arabo oppresso dall'occidente" si rivela senza fondamento? Breve nota di Giovanni Amico
- Dinanzi alla violenza in nome di Allah: la grande domanda che l’Islam ha dinanzi a sé alla quale solo gli islamici possono rispondere, di Giovanni Amico
- Dopo l'eccidio di Nizza: la vera questione non è né la violenza, né l'Islam, ma la sharî'a (e contemporaneamente la gioia dell'Europa di essere laica e cristiana), di Giovanni Amico).
1.5/ Ancora in sintesi: non basta aver ragione
Si potrebbero elencare un’infinità di altre questione e si potrebbe tacciare giustamente di parzialità quanto fin qui detto.
Perché la questione che questo testo vuole sollevare non è tanto il bisogno di un’analisi sempre più precisa e dettagliata degli eventi. La questione che questo testo vuole sollevare è che non basta avere ragione su molte questioni anche decisive, perché ci sia la pace.
Perché ci sia la pace, bisogna ammettere i propri torti, anche quando si ha ragione su molte questioni e su importantissime questioni.
È questo ciò che questo scritto vuole invocare. Nei decenni passati, c’è stata una “purificazione della memoria”, nella Chiesa cattolica, il riconoscimento cioè che pur nello splendore di realtà nate, di vite dei santi, di costruzione della società, di animazione della cultura e della scienza, ci sono stati errori gravi che hanno pesato.
Ebbene questo è necessario. Per vivere in pace in una terra così piccola come quella di Israele/Palestina, bisogna riconoscere di avere anche torti, altrimenti la spirale della violenza è ineliminabile.
1.6/ Riconoscere reciprocamente i diritti dell’altro
Solo un’ammissione delle proprie responsabilità può aprire la strada a quel diritto all’esistenza di due popoli e di due Stati che è decisiva.
Serve che i palestinesi riconoscano il diritto di Israele ad esistere come Stato e serve che Israele riconosca il diritto dei palestinesi ad esistere come Stato.
Ma, ovviamente, questo non è possibile dove ognuno teme l’altro e lo sente come nemico mortale che attenta alla propria esistenza. Da entrambe le parti. In una terra così piccolo si può vivere dividendo confini e risorse solo se esiste una qualche fiducia.
2/ La seconda questione
La visione manichea è anche utopistica, si illude che giungerà sulla terra il giorno in cui si avrà “tutto”; si avrà la “ragione”, si avrà la “giustizia” totale e assoluta.
La visione manichea è quella di chi vede tutte le colpe da una parte o dall’altra. O di chi vede le colpe di una parte del mondo con essa e non le colpe dell’altra parte e di un’altra parte del mondo con essa.
Pochi hanno il coraggio di dire che la giustizia totale è assoluta non è di questa terra e non esisterà mai in terra.
Una giustizia assoluta non sarà mai di questa terra per motivi ben più profondi delle considerazioni semplicemente storiche che sono state fin qui invocate.
Non sarà mai perché l’uomo, che deve cercare la giustizia e deve saper riconoscere le proprie ingiustizie, non giungerà mai a realizzare in terra la pace piena e duratura.
Questo deve esser detto proprio dinanzi alla guerra di Gaza, non per scoraggiare o indebolire eventuali trattative o accordi.
Per essi, anzi si deve fare molto di più.
Ma per affermare – purtroppo contro il politicamente corretto – che è necessario che giunga un giorno il giudizio finale e il Paradiso per sanare torti così gravi.
Più passano gli anni, meno si vede una soluzione globale alla questione. Più gli animi si inacerbiscono – e la nuova vicenda aperta dagli attacchi di Hamas contro civili israeliani non farà che portare ad una ulteriore spirale di aggravamento della situazione – più noi impariamo che non esistono soluzioni totali in terra.
Un credente potrebbe giustamente affermare che Dio permette l’esistenza del nemico, perché ognuno capisca che la soluzione definitiva dei problemi non è di questa terra: per quanto Dio sia il Dio della pace e chieda a tutti di riconoscere le proprie colpe, allo stesso tempo l’irriducibile diversità obbliga a levare gli occhi ad un futuro che non è di questa terra.
Di questa terra sono i passi parziali, che debbono essere fatti, riducendo, da ogni parte, la rabbia e la violenza, facendo ammenda da ogni azione che non è stata volta anche a considerare l’altro e a promuoverne l’esistenza.
Ma tale “compromesso”, tale “mediazione”, tale saper rinunciare al tutto, che è proprio dell’esistenza terrena, non può che, al contempo, aprire lo sguardo a qualcosa che l’uomo e gli uomini non potranno mai darsi da soli.
Ci sarà il giudizio universale e ci sarà il Paradiso.
Tante cose ci insegnano i fatti della guerra di Gaza sul cuore dell’uomo e sull’ingiustizia, sulle religioni e sull’ingiustizia, ma ci insegnano anche che la ricerca della giustizia in terra non basta, non è sufficiente, non spiega, non soddisfa mai pienamente.
P.S. La controprova del fatto che l’accusa contro l’ingiustizia dell’altro non è la chiave sufficiente di un’eventuale soluzione dei problemi è duplice.
Innanzitutto esistono anche palestinesi cristiani, che non commettono violenza, pur riconoscendo le ingiustizie di Israele e anzi provano con garbo – anche perché ogni esternazione più forte sarebbe loro fatale – a dire ai palestinesi islamici, loro confratelli arabi, che, se lasciati scegliere tra due mali, preferirebbero stare sotto giurisdizione israeliana che sotto quella di Hamas (sulla questione della “croce”, come manifestazione di un perdono radicale, che manca al Gesù islamico, cfr. I musulmani di fronte al mistero della croce: rifiuto o incomprensione?, di M. Borrmans).
In secondo luogo, se si concedessero da una parte i benefici che l’altra parte domanda e se si assicurasse, da parte dell’altro protagonista, la fine delle violenze, non per questo le due parti si sentirebbero soddisfatte e, di fatto, proseguirebbero con ulteriori rivendicazioni.