Italo Calvino. Se la bellezza (non) ci fa scendere dagli alberi, di Valerio Capasa
Riprendiamo da ilSussidiario.net un articolo di Valerio Capasa pubblicato l’8/11/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (29/10/2023)
Da un disegno di Dino Buzzati (Immagine dal web)
Come si fa a guardare il mondo? Cosa significa conoscerlo? Sono domande che aggrediscono senza tregua chi legge Italo Calvino. Perché in tutta la sua opera si riaffaccia un paradosso: il tentativo incessante di trovare un punto di vista capace di leggere la realtà, e l’instancabile scrollarsi di dosso, da parte della realtà, di ogni sistema raggiunto: uno smacco in agguato, un cambio di passo incalcolabile, che frantuma lo schema, svelandone la nebbia, e per un istante almeno, finalmente, fa vedere.
Gli occhi, infatti, non vengono catturati senza la prima mossa del mondo: «dalla muta distesa delle cose deve partire un segno, un richiamo, un ammicco». Eppure questa partenza non basta: mentre nuota, Palomar rabbrividisce al pensiero dei «milioni di secoli» in cui «i raggi del sole si posavano sull’acqua prima che esistessero degli occhi capaci di raccoglierli». Cosa ci stava a fare, da sola, quella «spada» composta dai riflessi al tramonto? La realtà non sa stare senza il rapporto con un io: «Erano fatti l’uno per l’altro, spada e occhio: e forse non la nascita dell’occhio ha fatto nascere la spada ma viceversa, perché la spada non poteva fare a meno d’un occhio che la guardasse al suo vertice». A volte l’occhio si illude di assegnare una forma alle cose, ma loro testardamente gli si offrono, come un’innamorata che lo supplichi di accorgersi di lei.
Calvino lo scoprì quando la seconda guerra era appena finita, e lui presumeva di partecipare, col suo primo romanzo, a un’atmosfera impegnata. Quando Pavese lesse Il sentiero dei nidi di ragno, invece, sentì un sapore tutt’altro che partigiano: «Fu Pavese il primo a parlare di tono fiabesco a mio proposito, e io, che fino ad allora non me n’ero reso conto, da quel momento in poi lo seppi fin troppo, e cercai di confermare la definizione. La mia storia cominciava a esser segnata, e ora mi pare tutta contenuta in quell’inizio».
Pavese, insomma, capì Calvino più di quanto si fosse capito Calvino stesso. E c’era, in quel rovesciamento, davvero tutta la sua storia, e non solo la sua: come un avvertimento, che non ci si raccapezza su di sé guardandosi addosso (vero, Zeno Cosini e Mattia Pascal?), ma ci vuole un altro occhio che ti svela a te stesso.
Il problema comincia appunto qui, quando un inizio fa nascere una storia: perché si tratta di «dargli spazio» oppure di provare a contenerlo nelle proprie misure. È l’indecisione del Barone rampante: salito sugli alberi, «restava lassù a guardar lontano», con l’«ostinazione di non scendere». Si era infatti convinto che «chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria».
Da buon illuminista ammaestrava le folle sull’«uguaglianza degli uomini davanti alle leggi», ma l’unica cosa che lo toccò davvero fu l’incontro con Viola, la bambina che anni prima giocava sull’altalena del giardino accanto a casa sua: in quel frangente «lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così». Il barone si rese conto di sé più stando con Viola che leggendo Voltaire. Preferì tuttavia tener fede al suo punto di vista ideologico e rimanere sugli alberi: quell’incontro non diventò storia. E fu una coerenza inutile, nonché traditrice, visto che sul «quaderno della doglianza e della contentezza», su cui chiedeva a ogni cittadino di appuntare cosa avrebbe voluto salvare o contestare della società, lui aveva scritto, alla faccia di tutto l’illuminismo, soltanto quel «nome: Viola. Il nome che da anni scriveva dappertutto».
Amerigo, poi, il pignolo scrutatore ossessionato dalle sue fisime politicanti, si accorge d’un tratto, in piena domenica elettorale, che «alla fine della corsia» del Cottolengo c’è un ragazzo «deficiente», «seduto su una seggiola da una parte del letto», e «dall’altra parte del letto era un vecchio col cappello, certamente suo padre, venuto quella domenica in visita»: «il padre schiacciava al figlio delle mandorle, e gliele passava attraverso al letto, e il figlio le prendeva e lentamente portava alla bocca. E il padre lo guardava masticare». La scena calamita il suo sguardo: «Amerigo continuava a guardare» quei due uomini, «teneva lo sguardo su di loro», ma inesorabilmente doveva lottare contro tutte le idee che da sempre gli si affollavano in testa, contro «un discorso sulla società come avrebbe dovuto essere secondo lui». Brutto vizio, risorgente: «ma più s’ostinava a pensare queste cose, più s’accorgeva che non era tanto questo che gli stava a cuore in quel momento, quanto qualcos’altro per cui non trovava parole». Il preservativo dell’ideologia era stato rotto da una «spada» che tornava a imporsi allo sguardo: «la presenza di quel contadino e di suo figlio, che gli indicavano un territorio per lui sconosciuto».
I fatti chiedono spazio, dagli occhi vogliono trapassare il cuore promettendo avventure sconosciute; dal mondo è partito l’«ammicco»: se solo trovasse occhi non infestati da tutto quello che già sanno, se solo incrociasse un io disposto a scendere dagli alberi, e a sedersi magari accanto al contadino e al figlio, ragionando con gli occhi, più che col cervello.
La conoscenza inizia così, quando accade appunto qualcosa che è «sconosciuto»: il padre che schiaccia le mandorle al figlio, Pavese che legge il Sentiero dei nidi di ragno, il barone che incontra Viola.
La tentazione, a quel punto, è rimettere a posto quel che è successo inseguendo le sirene di una ricostruzione analitica, provando a ricomporre una scacchiera, in cui ogni evento extrasistemico venga reincasellato nel sistema. Ma il senso non è l’interpretazione a posteriori, sta già tutto dentro l’imprevisto del padre e del figlio «reciprocamente necessari», dentro quel «segno» che gli occhi vedono e le parole non sanno dire, se non confusamente: «Ecco, questo modo d’essere è l’amore. E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo». La partita è tutta aperta, a quel punto: tra la sfida che le cose lanciano allo sguardo e la sfida che lo sguardo pretende di ribattere verso le cose («una letteratura della sfida al labirinto»).
La scoperta dello scrutatore, insomma, si trova a fare i conti con il meccanismo del pensiero rampante, che presume di guardare dall’alto: lì scompare, etimologicamente, l’umiltà, mancando uno sguardo impastato con la terra, o presumendo, forse, di coincidere col cielo, di conquistare un punto di vista olimpico. Diceva bene il signor Palomar: «forse la prima regola che devo pormi è questa: attenermi a ciò che vedo». Ma quando gli occhi, quasi involontariamente, inciampano in «chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno», si rivela quanto si è pronti ad attenersi: concedendogli il breve margine di un’emozione o lasciandosi invadere; commentandolo a distanza, dal riparo del proprio albero di idee, o rischiando di scendere per «dargli spazio» davvero.