Il cuore del mondo, di Hans Urs von Balthasar
Riprendiamo dal sito www.donboscoland.it il I capitolo del volume di H. U. von Balthasar, Il cuore del mondo, ora riedito da Jaca Book, Milano. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (2/1/2011)
Sono trascorsi quasi cinquant’anni da quando, in un’estate passata in riva al lago della mia città natale [Lucerna, ndt], scrissi questo libro. Quel vecchio che ormai sono può solo con difficoltà valutare se il lirismo del suo stile può ancora dire oggi qualcosa a qualcuno. Tuttavia il contenuto spirituale che intendeva offrirsi in questa veste giovanile non è mutato per me lungo il corso di tanto tempo. Il ritmico battito del cuore lo percepisco identico come allora, nel chiasso del nostro mondo, non appena vi accosto l’orecchio. È forse addirittura vero che, quanto più lo si vuole sopraffare con i nostri rumori e nullità, quel ritmo si fa sentire con tanta maggiore ostinazione, fedeltà e silenzio. Alla nostra volontà di potere e alla nostra impotenza esso si manifesta come l’unità, a null’altra paragonabile, di potere e d’impotenza, in cui sta in assoluto l’essenza dell’amore. Quest’opera giovanile è dedicata soprattutto ai giovani.
Giugno 1988
I. Prigione del finito!
In prigione nasce anche l’uomo, come ogni altro essere. Anima, corpo, pensiero, desiderio, comportamento: tutto in lui ha limiti, lui stesso è un tangibile limite, è tutto un definito, diverso, staccato dall’altro. Dalle finestre ingabbiate dei sensi egli guarda fuori di sé nell’esterna, estranea realtà che mai egli sarà. Potesse pur volare il suo spirito come uccello attraverso gli spazi del mondo: lui stesso non è mai questo spazio, e il solco che vi incide si cancella poi subito e non vi lascia impronta che duri. Da un essere all’altro: quale distanza!
E se questi esseri per di più si amano, e da quell’isola all’altra che essi sono si lanciano cenni, quando tentano di scambiarsi la propria solitudine e di farne una illusoria unità, tanto più dolorosa li coglie ben presto la delusione quando tocca loro urtare contro le invisibili sbarre, contro il gelido vitreo cristallino su cui picchiano come uccelli imprigionati. Nessuno riesce ad abbattere la propria prigione, nessuno sa chi sia l’altro! Delle ipotesi soltanto osano avventurarsi dall’uomo alla donna, dal piccolo al grande, ancora più esitanti quelle che vanno dall’uomo all’animale. Gli esseri sono l’un l’altro stranieri, e anche se è bello trovarsi insieme, integrati come colori, come l’acqua e le pietre, come il sole e le nebbie, anche se realizzano insieme l’armonia melodiosa dell’universo. È una bellezza che paga lo scotto di una separazione tanto più amara.
Già starsene soli da singoli si chiama rinuncia. È spezzato il limpido specchio, è dispersa per tutto il mondo l’immagine infinita, il mondo è un acervo di schegge. È pur sempre preziosa ogni singola briciola, da ogni frammento un raggio lampeggia dell’origine arcana, un bene infinito viene intravisto nel bene finito, la promessa di un più, un sospetto di rottura di limiti, un’attrattiva dolce al punto che il polso si ferma per un repentino piacere quando qualcosa si offre per attimi, senza velo o vestito, aperto e ripulito della cenere dell’abitudine: un meraviglioso qualcosa che rende oltremisura felici.
Il sigillo della provenienza, il bacio dell’origine, il pegno dell’unità perduta. Arcano sempre e inafferrabile resta però il seme di quel frutto che è il piacere. Chi l’insegue non l’afferra. Si trova in mano la mela di Adamo, non il frutto infinito dell’Albero della Vita. L’immagine celeste scivola via con un mesto sorriso, si spegne, si sbriciola in fumo. Per un attimo apparve senza limiti, ricompaiono poi subito le sue povere pareti, ed entrambi, cercato e cercante, si ritrovano nell’angusta prigione. E rieccoci di nuovo l’uno di fronte all’altro, parti di parti, e ciò che abbiamo è solo parte di un tutto. Non servono strappi, né lacrime ad abbattere la prigione.
E tuttavia ecco il tempo: oscilla, dondola, corre inspiegabilmente! Una barca invisibile da riva a riva. Qualcosa di alato che va da essere ad essere. Entra nel tempo ed esso già è partito, già ti porta, tu non sai né come né dove, già trema e vacilla la rigida terra sotto di te, la dura strada si curva e si fa viva, comincia a scorrere come la corrente ben rodata di un fiume, le sponde mutano e cangiano ora son selve, e tu ondeggi tra esse, ed ora vaste campagne, vaste città di uomini. La stessa corrente è composita e mutevole: ora scorre frusciando tranquilla, ora piomba in cateratte selvagge, ridiventa poi ancora liscia e piana, si amplifica in mare. Ormai non si avverte più il movimento, e lungo le rive l’acqua rifluisce talvolta, finché il centro la riprende nel suo impeto.
Lo spazio è rigido e gelido, ma il tempo vive. Lo spazio divide, ma il tempo porta ogni cosa a ogni altra. Esso non scorre fuori di sé, tu non navighi alla sua superficie come un tronco semovente. Scorre attraverso di te, sei tu stesso nel pieno del fiume. Tu stesso sei il fiume. Sei triste? Confida nel tempo: tra poco riderai. Ridi invece? Non puoi trattenere il tuo riso: tra poco piangerai. Come il vento ti cambia da una situazione a un’altra, da uno stato d’animo all’altro, dalla veglia al sonno e dal sonno di nuovo alla veglia.
Ma non puoi camminare a lungo: eccoti fermo di nuovo, sei stanco, affamato, devi sederti, cibarti, poi ti alzi di nuovo, riprendi a camminare, a cambiare. Tu soffri: da lungi, inarrivabile, tu vedi l’azione a cui miri; ma sempre ti porta la corrente, e un bel mattino ecco che è giunta l’ora dell’agire. Sei un bambino, e mai sfuggirai, così pensi tu, alla fragilità dell’infanzia, che ti chiude fra quattro mura senza finestre. Ma ecco: le stesse tue mura sono mobili e pieghevoli, e tutto il tuo essere si plasma da sé in giovane uomo. Da dentro di te sale in te stesso acqua da nascoste sorgenti, possibilità si aprono come fiori davanti a te, e un bel giorno il mondo si è fatto maturo intorno a te. Pian piano il tempo ti conduce di curva in curva, visioni e orizzonti si srotolano di qua e di là mentre avanzi: cominci ad amare il cambiamento, indovini una dopo l’altra smisurate avventure. Intravedi una direzione, intuisci un punto di partenza, senti il sapore di un mare.
E lo vedi tu stesso: ciò che in te cambia, cambia anche ovunque intorno a te: ogni punto, accanto a cui passi sfiorandolo in fretta, è esso stesso in movimento. Qualcosa lo muove verso chissadove, la lunga sua storia scorre in esso, ma esso non sa, come neppure tu, dove andrà a finire. Alzi gli occhi al cielo: alti vi girano i soli, ma tutti, appesi come grappoli ai loro sistemi planetari, ruotano divergendo verso mete predeterminate e verso spazi inimmaginabili. Tu dividi gli atomi: formicolano confusi come un formicaio calpestato. Tu cerchi un punto fermo e una legge costante nel centro che è misura della terra, ma anch’esso non è fatto che di eventi e di storie, nessuno può calcolare per te anche solo le nuvole della settimana entrante.
Esiste certo una legge, ma è la misteriosa legge del mutamento, che nessuno ha mai sondato tranne colui che muta se stesso. Tu non puoi tirare il fiume sulla sua riva asciutta per catturare come si fa con un pesce la regola del suo fluire. E tu stesso impari a nuotare soltanto nell’acqua. Gli uomini sapienti cercano di spiegare l’esistenza nel suo fondamento, ma altro non possono fare che descrivere una certa onda della corrente; sui loro disegni lo scorrere è fermo, diventa vero solo quando riconsegnano l’immagine al mutamento. Molte cose hanno intrapreso i curiosi e hanno gettato rocce nell’acqua per domare la corrente. Nei loro sistemi hanno pensato di poter un giorno trovare un’isola di eternità e hanno gonfiato i loro cuori come palloni per captare l’eternità in un momento beato. Ma hanno preso soltanto dell’aria e sono scoppiati, oppure, nell’incantesimo di un’idea immaginaria, hanno dimenticato precisamente di vivere, ma il fiume è passato schiumando tranquillo sopra i loro cadaveri. No, la legge è nel fiume e solo correndo la puoi afferrare. La perfezione è nella pienezza del venire. Perciò non sognare mai di averla raggiunta, dimentica ciò che sta dietro di te, protenditi verso ciò che ti sta davanti: nel mutamento, in cui perdi quanto arraffato, sarai alla fine mutato in ciò che desideri ardentemente di essere.
Fidati del tempo. Il tempo è musica; e lo spazio da cui la musica suona è il futuro. Suono dopo suono la sinfonia si crea in una dimensione che inventa se stessa, che di continuo, da un’insondabile provvista di tempo, si mette a disposizione. C’è spesso mancanza di spazio: troppo poca è la pietra per la statua, la piazza non contiene tutta la folla. Ma quando mai il tempo è mancato? Quando mai è finito come un filo troppo corto? Il tempo è lungo quanto la grazia. Affidati alla grazia del tempo. Tu non puoi interrompere una musica per afferrarla e portartela a casa: lasciala fluire e fuggire, non la capiresti altrimenti. Non la puoi raccogliere in un unico bell’accordo e possederla una volta per sempre. Pazienza è la prima virtù di colui che vuole capire. E la seconda è rinuncia. Poiché vedi: tu non comprendi l’arco e lo slancio della melodia prima che l’ultimo suono non sia esaurito. Soltanto adesso che tutta è stata suonata puoi guardare dall’alto gli accenti arcani, gli archi in tensione e le curve della distanza; solo ciò che sprofonda nell’udito sale nel cuore. E dunque, e tuttavia: tu non afferri invisibile nell’unità dello spirito ciò che non hai sentito sensibile con tutti i tuoi sensi. Così l’eterno è al di sopra del tempo, ed è la sua messe, e diventa e si realizza tuttavia solo nel mutamento del tempo.
Quali mai esseri siamo! Dobbiamo crescere agganciati a ciò che è transeunte. Diventiamo ricchi, diventiamo maturi non altrimenti che mediante ininterrotta rinuncia di ora in ora. Dobbiamo portare a compimento la durata. Quando cerchiamo di trattenerla violiamo la legge di vita della natura. Quando perdiamo la pazienza dell’esistenza nel tempo, già stiamo cadendo nel nulla. Mentre avanziamo ci mormora all’orecchio una voce dal vento contrario che avanzando tendiamo; ma se ci fermiamo per meglio ascoltarla essa non parla più. Il tempo è, insieme, minaccia e inaudita promessa: lascia che passi, allora ci chiama, non c’è altra possibilità con esso. Lascia che passi, mostragli vuote le mani, non posso altrimenti riempirtele! Altrimenti io ti passo di lato con i miei doni freschi e ti abbandono ai tuoi gingilli che invecchiano. Tu sei più ricco, puoi credermi, quando sei capace di finire e troncare la felicità e l’ora tua grande, più ricco quando puoi essere povero, sempre aperto comunque, un mendicante alla porta dell’avvenire! Non trattenere, non aggrapparti, non aderire! Non puoi far incetta di tempo, dal tempo impara la prodigalità! Da’via tu stesso quanto altrimenti ti verrebbe di violenza sottratto. Allora sarai, tu miserabile derubato, più ricco di un re! Il tempo è la scuola dell’abbondanza, della magnanimità.
È la scuola superiore dell’amore. E se il tempo è il terreno della nostra esistenza, della nostra esistenza il terreno è l’amore. Tempo è esistenza fluente; amore è vita che si dà ad altri. Tempo è esistenza che inerme si espropria senza farsi pregare; amore espropria se stesso e si lascia da sé disarmare volontariamente. Esistenza altro non può - è la sua legge ed essenza - che fluendo dimostrare l’amore. Ed è libera di essere essa stessa l’amore. Dobbiam esser pazienti, anche se veniam meno per impazienza, perché nessuno può accrescere nemmeno d’un cubito la propria statura, se non crescendo... col tempo. Dobbiam rinunciare, e anche se teniamo sotto gli avari artigli tremanti i nostri averi, è facile al tempo mortale sciogliere le nostre dita, e i tesori ammassati si rovesciano a terra. Ciò che l’ultimo istante alla fine pur ci strappa di forza ci persuade dolcemente ogni volta a riconoscere il mistero della durata come il dolce nodo della nostra vita, l’offerta di un instancabile amore. Strano è che ci viene consentito di essere ciò a cui inutilmente miriamo. Noi possiamo realizzare con semplicità nell’esistenza ciò che in sapere e volere non riusciamo a raggiungere. Dedizione vorremmo, e siamo già donati. Cerchiamo colui al quale vorremmo donarci, e siamo già presi da lungo tempo. E se il cuore si raggomitola tutto nel considerare la vanità di ogni cosa vissuta, questa è la paura della sposa nella notte nuziale quando le viene strappato l’ultimo velo.
Siamo stati concepiti come esseri che possono volere ciò che involontariamente devono volere. Ma che cosa è più bello, quale pensiero potrebbe essere più inebriante di questo: la nostra esistenza è per se stessa opera dell’amore? Così che invano mi opporrei a non essere ciò che da sempre sono. Così che, qualora gridassi: no! a gola spiegata, gonfie le vene di angoscia: no!, nell’angolo estremo della caverna, a tradimento un’eco ormai dice: sì, anzi Sì. E se dopo qualche morte moriamo per l’ultima volta, allora in quest’atto supremo della vita l’esistenza ha cessato di morire. Mortale è pur sempre solo una cosa: vivendo non volere morire. Ogni morte che volontariamente va incontro alla morte è una vita che sorge. Così il calice dell’amore è misto di vita e di morte. È un miracolo il fatto che non amiamo: amore è la filigrana nella pergamena della nostra esistenza. Secondo la sua melodia le nostre membra si muovono.
Chi ama obbedisce alla piega della vita nel tempo; chi si nega all’amore lotta (inutilmente) contro la corrente. Quanto facile ci è stato reso il gesto del dono dal momento che l’aurea acqua dell’essere ci passa attraverso come attraverso la bocca di una fontana! E quanto l’espropriazione ci è facile, dato che siamo immersi nella ricchezza del futuro che giunge inesauribile a noi! Quanto è facile la fedeltà, dato che il tempo infedele ci ha messo al dito l’anello che non si spezza! Quanto facile la morte, dato che veniamo a sapere ad ogni ora quanto è bello, anzi quanto vantaggioso il perire! E l’invecchiare perfino, quello che ci angoscia, restringe e delimita, offre a compenso delle nebbie di fuori la chiarezza interiore della povertà. Niente è tragico in noi, perché ogni rinuncia viene pagata in modo ultraricco, e quanto più vicini arriviamo al centro vero della povertà assoluta, con intimità sempre più grande prendiamo possesso di noi stessi e tanto più certo è che tutte le cose diventano nostre.
Così possiam essere ciò che vorremmo. Nell’acqua arcana del tempo, in cui ci bagniamo, che siamo noi stessi, in questa fluidità dell’essere, è superata e dissolta la odiosa profonda resistenza dei cuori. Discutibile è solo la realtà ferma, impenetrabile, la rigidità che si oppone a ogni spirito e occhio. Ma l’occhio è bagnato e lo spirito luccicante e così attraversa irradiando e discioglie tutto ciò che resiste. Mentre di fuori aggiungiamo corazza a corazza e ci armiamo contro gli inesorabili comandi della vita, nel più profondo di noi la sorgente zampilla, disperde ogni muro e scava da sotto la nostra più dura fortezza. Nessuno resiste fino alla fine alla pressione incessante di quest’onda? Essa ci debilita giorno dopo giorno, corrode selce su selce delle rive scavate di modo che alla fine ci accasciamo del tutto. Con il tempo anche l’uomo più stupido capisce il tempo! Esso si scava dentro di lui il suo alveo e lo macina dentro e tritura con la sua pietra rotonda come la cascata il ghiaccio.
Così lo avverti, ed esso ti va iniziando nel suo più alto mistero. Tu senti il suo ritmo che insieme ti dà e ti toglie. A te arriva come futuro, ti inonda, ti regala doni senza misura, ma anche ti rapina, pretende tutto da te. Ti vuole ricco e povero a un tempo, sempre più povero e ricco. Ti vuole sempre più bene, ti ama sempre di più. E se seguissi del tutto la legge e il comando del tuo essere e fossi pienamente te stesso, vivresti unicamente di questo dono che arriva a te (che sei tu stesso), santamente ridonandolo a tua volta, senza insudiciarlo con l’appropriazione. La tua vita sarebbe un respiro tranquillo e inconscio nel duplice atto di inspirazione ed espirazione dei tuoi polmoni. E tu stesso saresti l’aria che entra e che esce da te nel battito alterno del tempo che passa. Saresti il sangue nel pulsare di un cuore che ti aspira e sospinge, e che ti prende e mantiene entro il cerchio e il corso delle sue arterie.
Tu senti il tempo, e questo cuore non senti? Percepisci la corrente di grazia che ti compenetra col suo rosso colore e calore, e non ti accorgi quanto sei amato? Cerchi una prova, e sei tu stesso la prova. Tu cerchi di prenderlo, lo sconosciuto, nelle maglie della tua conoscenza, e sei tu stesso preso nell’indistricabile rete del suo potere. Vorresti afferrare, comprendere, e già sei afferrato. Vorresti dominare, e sei sopraffatto. Ti spingi avanti a cercare, e sei già da lungo tempo e da sempre trovato. Ti apri brancicando la strada attraverso mille vestiti verso un corpo vivente, ed affermi di non sentire la mano che tocca la tua anima nuda e senza veli? Ti agiti cercando tutt’attorno nella furia del cuore inquieto, e chiami tutto ciò religione, ma si tratta in realtà degli scossoni del pesce già finito nella barca da pesca. Vorresti trovare Dio, pur fra mille dolori: ma che umiliazione venir a sapere che il tuo agire non era che un vuoto rito, perché Dio ti tiene da lungo tempo in sua mano.
Metti il tuo dito sul polso vivente dell’essere. Avverti quel battito che nell’unico atto della sua creazione a un tempo ti sfida e ti libera. Nell’immenso sgorgare dell’esistenza esso definisce l’esatta misura che ti distanzia: lo devi amare come il più prossimo dei prossimi e insieme davanti a lui cadere come davanti all’altissimo. Come egli con lo stesso atto per amore ti veste e per amore ti spoglia. Come egli, con l’esistenza, ti mette in mano tutti i tesori e il più prezioso gioiello: poterlo riamare, ridonare, e subito ti toglie ogni cosa donata (subito e non dopo, in un secondo atto, un passo più avanti), affinché possa amare non il dono ma il donatore, e possa sapere che anche donando sei solo un’onda del suo comunicare. Nell’identico istante dell’esistenza tu sei vicino e lontano, hai avuto alla pari un amico e un maestro. Sei alla pari un bambino, un figlio, un servo. Non andrai oltre questo tuo stato primario. Vivrai nell’eternità come ciò che sei allora diventato: giacché dovesse pure la tua virtù, sapienza, amore innalzarsi oltre ogni misura, e tu sorpassare uomini e angeli in alto attraverso tutti i cieli, dal punto di partenza non ti allontani mai. Ma niente è migliore di questo punto primo; lungo il pur lunghissimo arco del tuo sviluppo tu ti pieghi sempre all’indietro verso questa meraviglia dell’origine; perché inconcepibilmente meraviglioso è l’essere dell’amore.
Ma, è vero, la vita mira ad allontanarsi dalla sua origine. Cerca se stessa e crede di trovarsi là dove sarà al sicuro dalla precarietà del suo principio! Troppo insicuro sembra il seme e bisognoso di robuste scorze protettive e troppo vicino al niente l’attimo della generazione. Ma una bronzea legge costringe ogni freccia a ritornare in circolo. In un grande arco liscio sale la vita destandosi a se stessa, vuole affermarsi sulla stretta cresta. Il sangue penetra potente attraverso la porta angusta della vita individua e gonfia il cuore e la mente delle persone. Sospinte dall’ambizione o dalla missione, le sue mani distribuiscono come fosse da lui creato ciò che a lui arriva da lontano, dalla stirpe, da radici sconosciute. Ma la cima è raggiunta, e mentre per altri il sole ancora sale, il suo sentiero inizia la discesa, emerge un pomeriggio dentro più fresche selve, e lui riode il sussurro, un ruscello piccolo dapprima, ricordi quasi sepolti della gioventù zampillano, e inaspettatamente ecco una cascata che va giù nell’abisso, nella notte del principio. Ogni curiosa singolarità si discioglie, come di diversi fiumi il corso, in un unico mare della morte e della vita. Nell’unico mare si sollevano e si abbassano le onde, salgono e scendono i corpi, le forme e le generazioni, i secoli si infrangono schiumando contro l’onda dei secoli, cadendo e livellandosi come non mai lungo la piatta spiaggia dell’eternità.
Significato della nostra vita: riconoscendo dimostrare che noi non siamo Dio. Così noi moriamo arrivando a Dio, giacché Dio è vita eterna. Come l’avremmo toccato altrimenti che con la morte? La morte nella nostra vita è il pegno che noi attingiamo l’oltrevita. La morte è la riverenza della nostra vita, la cerimonia dell’inchino davanti al trono del Creatore. E poiché la più profonda essenza degli esseri è fatta di lode, di servizio e di riverenza, che essi devono al loro Creatore, una goccia di morte si trova commista in ogni momento dell’essere. Ma poiché tempo e amore sono così intrecciati, essi amano anche il loro morire, e la loro esistenza non rifiuta il tramonto. E anche se la piccola singola vita si angustia, e l’oscura volontà dell’ego si erge contro la morte, l’esistenza stessa, la corrente profonda del mare che la fa salire e scendere riconosce la sua padrona e si piega volentieri. Giacché un presentimento, in essa, sa: esiste autunno unicamente perché si prepara una primavera, e volentieri accetta di inaridire in questo mondo ciò che porta la promessa di fiorire in Dio.
Così muore in Dio e in Dio risorge la creatura. Andiamo entusiasti dentro la luce, ne siamo attirati ed ebbri! Ma il fuoco, per tutti inavvicinabile, ci tiene lontani. Cadiamo nelle fiamme, ne veniamo inceneriti, ma la fiamma non uccide, si trasforma in luce ed arde in noi come amore. Amore che, più a fondo, sa: quanto vive in noi si erge in noi come un centro, di cui viviamo, che ci nutre e ci matura, e ci incanta, si veste di noi come di un mantello, di cui ha bisogno l’anima come d’un organo; questo non siamo noi, questo è, in una vicinanza così prossima da non distinguersi, Il Signore in noi! E con l’amore la paura cresce in noi, che un’altra volta ci getta in ginocchio, nella polvere del nulla. Potentemente martella, con voce di tuono ancora più forte del tempo, il cuore dell’amore. Batte unificando il due nell’uno e dividendo l’uno nel due!
Così noi viviamo di Dio: per il fatto che potentemente ci attira nel suo centro ardente e come Signore ci toglie da ogni centro che non sia il suo. Ma non siamo Dio; e per mostrarci con forza maggiore la forza del centro che è il suo ci getta via da sé non soli e inermi, bensì forniti di centro proprio e nella forza della sua missione. Dio pone le sue gelose esigenze a noi, ci vuole per sé e per il suo onniunico onore. Ma carichi del suo amore, e vivendo del suo onore, ci rinvia nel mondo. Poiché non è forse questo il ritmo della sua creazione: che essa esca da Dio per egressus e vi ritorni in regressus là da dove deriva? Le due cose sono piuttosto una sola e indivisa, l’egresso non meno incondizionato del regresso; la missione non meno voluta da Dio della nostalgia.
E ancor forse più divina del ritorno a Dio è l’uscita da Dio, giacché questa è la cosa più grande: non che Dio lo conosciamo riflettendolo come lucidi specchi, bensì che lo annunciamo come fiaccole ardenti la luce. Io sono la luce del mondo, Dio dice, e senza di me non potete far nulla. E non esiste né luce né Dio accanto a me. Ma voi siete la luce del mondo, una luce adombrata e non falsa, e ardendo della mia fiamma voi dovete con il mio fuoco accendere il mondo. Uscite fuori e oltre fino alla tenebra estrema, portate il mio amore come agnelli tra lupi, portate la buona novella a coloro che se ne stanno rannicchiati nelle tenebre e nell’ombra di morte. Uscite con rischio e coraggio dall’ovile sicuro; un giorno io vi ho raccolti, quando, agnelli sperduti, sanguinanti tra spine, vi ho portati a casa sulle spalle del Buon Pastore; ma ora il gregge viene disperso, viene allargata la porta della stalla: l’ora della missione è venuta! Via, staccatevi da me, perché io sono con voi fino alla fine del mondo. Poiché io stesso sono uscito dal Padre, e uscendo da lui sono stato obbediente fino alla morte, e obbedendo sono stata la perfetta immagine del suo amore per me. La stessa uscita è l’amore, l’uscita stessa è il ritorno. Come il Padre ha mandato me, così io mando voi. Uscendo da me come il raggio dal sole, l’acqua dalla sorgente, rimanete in me, perché sono io stesso il raggio che riluce, l’acqua che sgorga dal Padre. Dare è meglio che prendere. Come io diffondo il Padre, anche voi dovete diffondere me. Volgete a me il vostro volto affinché io lo possa volgere al mondo. Voi dovete dividervi dalle strade a voi proprie, così che io vi possa mettere sulla strada ch’io sono.
Questo è un nuovo mistero, che la piccola creatura non può intuire: anche la lontananza da Dio e la gelidità del rispetto è similitudine e immagine di Dio e di vita divina. La massima incomprensibilità è la vera realtà: proprio perché tu non sei Dio, sei simile a Dio. E proprio perché sei fuori di Dio, sei in Dio. Poiché aver Dio di fronte, questo stesso è divino. Nell’incomparabilità del tuo io tu rispecchi ciò che è solo di Dio. Giacché anche nell’unità di Dio c’é distanza e rispecchiamento ed eterna missione: Padre e Figlio l’uno di fronte all’altro e tuttavia un’unica cosa nello Spirito e nella natura sigillo dei Tre. Dio non è soltanto l’archetipo primo, ne è anche l’immagine e la copia. Non soltanto l’Uno è l’Assoluto, è divino anche essere Due, quando il Terzo li lega. In questo Secondo perciò il mondo è stato creato, in questo Terzo esso sussiste e persevera in Dio.
Ma resta inspiegabile il senso della creazione fino a quando il velo rimane sull’immagine eterna. Questa vita sarebbe solo destino, questo tempo solo melanconia, perituro ogni amore, se il battito dell’essere non pulsasse nella vita eterna trinitaria. Solo allora la sorgente della vita può scaturire anche in noi, in noi raccontata dal Verbo, diventa essa stessa verbo, parola e lingua, ci trasmette come un saluto da Dio il compito di annunciare il Padre nel mondo. Solo allora la maledizione della solitudine è dissolta, perché essere l’uno di fronte all’altro è esso stesso divino, e ogni essere, uomo e donna e bestia e sasso non sono esclusi nella loro individualità dalla vita universa, ma sono fatti gli uni per gli altri, non rinchiusi in buie prigioni, da cui una nostalgia oppressiva suggerisce di sottrarsi in lontananze senza confini. Piuttosto essi sono come messaggeri di Dio e in reciproca integrazione splendidamente creativa, avendo preso la forma arrotondata di un corpo il cui capo riposa nel grembo del Padre.
Allora batti pure, o cuore dell’essere, o polso del tempo! Strumento di amore infinito! Tu ci rendi ricchi, ci rendi poi di nuovo poveri; tu ci attiri, poi ti sottrai di nuovo; ma noi siamo, ondeggianti su e giù a te aggrappati. Tu fai sentire su di noi il tuono della tua maestà, taci sopra di noi con il silenzio delle tue stelle, ci riempi e ricolmi fino all’orlo, e ci svuoti e ci scavi da sotto fino all’ultima goccia. E tuonando, tacendo, riempiendo, svuotando tu sei il Signore e noi i tuoi servi.