Padre Raganella, la speranza di padre Libero. Storia del religioso giuseppino che trascorse quasi tutta la vita con la gente del quartiere romano di San Lorenzo, dove era nato, di Paolo Mattei
Riprendiamo sul nostro sito un articvolo dalla rivista 30Giorni, pubblicato sul numero dell’agosto 2009. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Roma e le sue basiliche, Maestri nello Spirito e La seconda guerra mondiale.
Il Centro culturale Gli scritti (24/7/2023)
Padre Libero Raganella
«E un giorno, credi, questa guerra finirà, / ritornerà la pace ed il burro abbonderà / e andremo a pranzo la domenica, fuori Porta, a Cinecittà, / oggi pietà l’è morta, ma un bel giorno rinascerà / e poi qualcuno farà qualcosa, magari si sposerà».
Non è improbabile che padre Libero Raganella conoscesse questa canzone – scritta nel 1982 da Francesco De Gregori – i cui versi parlano del bombardamento di Roma del 19 luglio 1943. Si intitola San Lorenzo, il nome del quartiere devastato dalle bombe alleate, sotto le quali morirono milleduecento persone. Le rime del ritornello sono una ripresa di fiato dopo la paura, il calmo respiro della speranza: che dopo il buio di una guerra possa riaccendersi la vita, con le sue più ordinarie movenze. Un matrimonio, una gita domenicale fuori le Mura. Cose banali che dopo le bombe paiono impossibili. La pace.
E non è detto che a padre Libero non sia scappato di fischiettarla, magari anche un po’ commosso, quella canzone, camminando per le vie di San Lorenzo col passo lento e ondeggiante del gigante buono. Forse, riandando con la memoria agli anni della guerra, avrà pure pensato che, guarda un po’, quel cantastorie romano, a distanza di quarant’anni, aveva colto nel segno a dispetto della sua giovane età. Era riuscito a descrivere il barlume ancora vivo nel cuore dei sanlorenzini scampati alle bombe. Vivo, al contrario dell’ingenua certezza, crollata insieme alla Basilica di San Lorenzo fuori le Mura, che Roma non sarebbe stata colpita dal fuoco aereo, al termine del quale gli occhi irritati dalla polvere non vedevano che desolazione di «palazzi rasi al suolo, e macerie, macerie, macerie, che hanno sepolto le vie», scrive il sacerdote nel suo diario (Senza sapere da che parte stanno. Ricordi dell’infanzia e “diario” di Roma in guerra [1943-44], a cura di Lidia Piccioni, Bulzoni, Roma 2000).
Il 19 luglio 1943 padre Libero, da circa tre anni prete della congregazione dei Giuseppini del Murialdo, si trovava, come sempre, nel suo quartiere. Alle 7 del mattino aveva celebrato messa. Poi, inaspettato, il sordo tuono degli aerei. Le prime bombe avevano appena iniziato il loro mortifero lavoro e lui già correva nelle strade devastate, che conosceva fin da bambino, per aiutare chi aveva bisogno, tra i «binari del tram divelti, contorti» come «mani stecchite che si innalzano verso il cielo», si legge ancora nel diario. Senza nemmeno saperlo, quel gigante dai modi bruschi stava già confortando i cuori della gente, stava già sostenendo con la sua presenza la precaria speranza che si potesse ricominciare, in mezzo a tutto il male e il dolore.
Quarant’anni dopo gli eventi bellici, mentre sui piatti dei giradischi di tutta Italia risuonavano le note di quella canzone, il religioso giuseppino era ancora in cammino per le strade di San Lorenzo. Il quartiere aveva cambiato volto, c’erano facce nuove, gente che poco sapeva del passato: «Io sono rimasto quello che ero, cioè sono pronto ad aiutare chiunque ha bisogno, senza voler sapere da che parte sta».
Una processione dell’Immacolata negli
anni Venti, davanti alla parrocchia
Santa Maria Immacolata e San Giovanni Berchmans,
nel quartiere romano di San Lorenzo
Santa pupa
A San Lorenzo, le cui origini di suburbio popolato da immigrati laziali risalgono alla fine dell’Ottocento, padre Libero c’era nato, nel 1914. Ragazzino di quella periferia di operai e artigiani addossata alle Mura Aureliane, sulla via Tiburtina, aveva fatto in tempo a vagabondare e a prodursi con i suoi amici in «zuffe memorabili» sui “Prati del Policlinico” prima che il largo orizzonte di quei campi spelacchiati fosse chiuso dalle nuove strutture architettoniche dell’Università e del Ministero dell’Aeronautica.
Il figlio di Giusto, tranviere sindacalista e socialista, osservava incuriosito i sommovimenti politici in atto nel quartiere: le lotte sindacali, le insorgenze anarchiche. Racconta che a San Lorenzo le «uniche bandiere che si vedevano di volta in volta erano quelle rosse dei socialisti o quelle bianche del Partito popolare, le uniche canzoni politiche Avanti popolo e Bianco fiore».
Anche a casa Raganella «erano rappresentati tutti e due i colori politici del quartiere, senza che ciò minasse minimamente l’armonia familiare». Armonia che Libero imparò ad amare come un dono prezioso e che a un certo punto non poté più essere manifestata in pubblico. Le due bandiere sventolarono liberamente fino al 1922. Dopo la marcia su Roma, non fu più possibile. Da quel giorno per le strade avrebbero garrito stendardi di un unico colore.
Il piccolo Libero intanto frequenta l’Opera Pio X, e la parrocchia dell’Immacolata e San Giovanni Berchmans. In quel primo scorcio di Novecento, sulla piazzetta del mercato, accanto alla chiesa, ogni pomeriggio un nugolo di ragazzini impazziti di felicità si scatena attorno a un barattolo ammaccato che funge da pallone, poi si disperde in cento altri divertimenti sconsiderati, fatti con niente. «Si giocava spensieratamente... con l’assistenza di santa pupa, come si dice a Roma, che ci preservava da ogni pericolo».
A una cert’ora viene spalancato il cancello del patronato – l’Opera Pio X, appunto, voluta da papa Sarto per accogliere i giovani del quartiere – gestito dai padri Giuseppini fin dai primi del secolo. Là c’è l’oratorio, una scuola elementare maschile, la Società ginnico-sportiva “Spes”. E altalene, scivoli, passavolanti.
«Noi ragazzi amavamo quei sacerdoti. Si stimavano come nostri fratelli maggiori, e quando se ne incontrava qualcuno per la strada, lo circondavamo salutandolo: “Sia lodato Gesù Cristo”, e lo si accompagnava per quanto si poteva». Libero, quei preti volle accompagnarli per un tratto di strada più lungo: dopo aver frequentato il seminario negli istituti della Congregazione tra Veneto e Piemonte, nel 1936 torna, studente di Teologia, a San Lorenzo. Il 30 giugno 1940 è ordinato sacerdote. Può celebrare messa. Da quel giorno, ogni mattina alle sette è sull’altare della chiesa parrocchiale.
«Incomincia così la mia attività in mezzo ai giovani», racconta ancora nel suo diario. «La mia giornata era totalmente occupata da due attività: la scuola e la società sportiva»: oltre a far crescere colti ed educati i ragazzini scamiciati di San Lorenzo, vuole riportare la Società ginnico-sportiva “Spes”, fondata nel 1908 nell’ambito dell’Opera Pio X, agli antichi fasti. E ci riuscirà: «Avvenne che l’A.S. Roma incominciò a prelevare giocatori dalla nostra Società in numero così cospicuo tanto da diventare il suo vivaio più importante, e in massa si andava allo stadio a incitare quando debuttavano in serie A. E non furono pochi. La vetrina dei trofei e il medagliere incominciarono di nuovo a essere riempiti con soddisfazione e orgoglio di tutti».
La guerra però pretende che alcuni di quei campioni si facciano valere non più sui campi di calcio, ma su quelli di battaglia. Questo vale pure per gli atleti sanlorenzini della “Spes”: nell’autunno del 1940 «i richiami furono massicci e una trentina di soci della “Spes” furono tra questi. Con il concorso di tutti si organizzò una cena d’addio ai giovani richiamati. Molti non tornarono più».
Foto di gruppo del convitto “Pio X”
negli anni Quaranta
Nessuno fu preso
«Libero Raganella [...] si trovava con un gruppo di ebrei in fuga, nei pressi della stazione Termini, il 16 ottobre 1943, giorno della razzia. Il coprifuoco si avvicinava. Dove andare? C’era vicino il monastero di clausura di Santa Susanna. La superiora fece qualche resistenza ad accogliere gli ebrei, tra cui alcuni uomini. Alla fine don Raganella disse: “Madre, lei non deve aprire la porta, deve solo togliere il catenaccio. La porta la forzo io. Non sarà stata lei a rompere la clausura, ma solo io”. Così il gruppo trovò ospitalità nella clausura.
Qualche giorno dopo, le bombe cadono come neve su San Lorenzo.
Padre Libero benedice i morti, soccorre i feriti, si avvicina ai crocchi storditi e disorientati per portare calma e indicare i luoghi più sicuri, si inerpica sulle scale pericolanti degli edifici lesionati per salvare le masserizie utili a chi è in procinto di abbandonare il quartiere inagibile. Poi raggiunge la Basilica, e si trova davanti il quadriportico distrutto, la facciata squarciata e la fila di cadaveri allineata sulla piazza. Intravvede il Papa, che «uscì tutto da solo tra la gente, / e in mezzo a San Lorenzo spalancò le ali, / sembrava proprio un angelo con gli occhiali», avrebbe scritto quarant’anni dopo De Gregori.
Dopo l’8 settembre il sacerdote giuseppino continua a muoversi in fretta per le strade del suo quartiere, e per quelle di Roma, affrontando le emergenze col suo modo di fare, da uomo libero: nomen omen. E brusco, qualche volta, com’era nel suo carattere.
Afferma Riccardi: «Al comunista Renato Gentilezza, il quale gli disse che era il primo prete con cui parlava e che gli faceva piacere vederlo con gli antifascisti, don Libero precisò: “Io non sto né con voi né con nessuno. Sono un sacerdote e sto solamente con chi ha bisogno di me. Le idee politiche personali non c’entrano. Si tratta di essere tutti uniti contro un comune pericolo... poi ognuno tenga le sue idee. Non domando mai a nessuno sotto quale bandiera si è schierato. Se ha bisogno lo aiuto, per il resto sono affari suoi”».
Allo stesso comunista volle poi aggiungere, con un sorriso: «Ciò non toglie che se un giorno ti decidessi a metterti sulla buona strada, e volessi confessarti di tutto quello che hai combinato, sarei pronto a farlo, e ti darei una penitenza... una penitenza proporzionata, da fartela ricordare per un pezzo». Così era fatto quel prete. Non te le mandava a dire. Ma poi, se era il caso, ci scherzava su.
Sul rispetto della libertà di opinione, e di credo religioso, era intransigente. Per questo, alle monache di Santa Susanna che accoglievano ebrei rifugiati, raccomandava massima discrezione. Pure riguardo a un’anziana ospite ebrea, attratta dalla preghiera cattolica, suggerisce loro «di non disturbarla minimamente con discorsi sulla religione. Lasciatela vivere come meglio crede, come ha vissuto sempre. È la cosa migliore che si possa fare. Se poi il Signore le vorrà concedere la grazia del battesimo sarà lei, di sua spontanea volontà, che lo chiederà. Non si deve forzare minimamente la sua coscienza o la sua fede».
Grazie al prete di San Lorenzo, che li nasconde nei locali dell’Opera Pio X e nel vicino convento delle suore di Maria Consolatrice, hanno salva la vita ebrei, antifascisti, soldati alleati. Tira fuori dai guai anche cinque militari inglesi, per poi rifiutare il premio offertogli dall’ambasciatore britannico perché non gli piace il modo in cui tratta gli italiani. Immediatamente dopo la Liberazione fa rilasciare anche alcuni fascisti che stanno per essere condannati da un tribunale del popolo costituito in una scuola del quartiere. Il religioso riesce a salvarli da una brutta fine grazie alla sua amicizia col capo dei comunisti sanlorenzini.
Proprio questa sua capacità di intrattenere rapporti con tutti, al di là delle connotazioni ideologiche, gli consente di fare del bene a tantissima gente. Lo spiegò bene padre Ettore Cunial, che fu superiore provinciale dei Giuseppini: «Quando il contesto politico aveva diverso peso e angolazione egli, pur non condividendo determinati indirizzi politici, cercò l’aiuto di amici comunisti e fascisti per salvare famiglie e ragazzi ebrei; poi con i capi fascisti salvò i comunisti e da ultimo con questi salvò i fascisti. Proprio per il quartiere di San Lorenzo, che è stato lo specchio di tutte le trasformazioni anche dolorose della società italiana, fu sottolineato da un giornale nel 1980 che “nessuno fu preso” e furono evitate quelle vendette che sono triste eredità della guerra».
Padre Libero con Giovanni Paolo II
in occasione della visita del Papa alla
parrocchia dell’Immacolata il 20 gennaio 1980
«Ma nun ve riposate mai?»
«Oggi pietà l’è morta, ma un bel giorno rinascerà / e poi qualcuno farà qualcosa, magari si sposerà». Le piccole cose ordinarie riprendono a poco a poco, con lentezza, il loro corso. La pietà rifiorisce piano piano nella vita di ogni giorno. Le case vengono rimesse in piedi. Ora nell’Opera Pio X c’è anche la scuola media, e padre Libero ne è il preside. La “Spes” continua a sfornare giocatori per l’A.S. Roma, e anche la squadra del “San Lorenzo-Artiglio” porta a casa ottimi risultati.
Padre Libero può finalmente rallentare il passo nelle strade del quartiere, fermarsi per un caffè o per una partita a carte in osteria; riprendere fiato, parlare con tutti e, perché no, polemizzare se ce n’è bisogno. Come accade coi “compagni” nell’aprile del 1948, per le prime elezioni politiche.
E pure in quell’occasione non si fa male nessuno. Anche per merito suo. San Lorenzo è un quartiere a prevalenza comunista, le contrapposizioni, specie coi democristiani, ci sono, eccome. Ma padre Libero è sempre lo stesso, sa parlare – e litigare, appunto – con tutti.
«Perché era cattolico, nel vero senso della parola», ci dice il professor Mario Sanfilippo: «Qui da noi, potrebbe sembrare un aggettivo superfluo accanto al sostantivo prete. Non è così. Lui aveva una fede cattolica profonda, vera. Questo gli permetteva di intrattenere un dialogo aperto e franco con chiunque. I mangiapreti di San Lorenzo lo cercavano, e gli volevano bene».
Sanfilippo, medievista, autore di numerosi saggi storici (tra i quali San Lorenzo 1870-1945. Storia e «storie» di un quartiere popolare romano, Edilazio, Roma 2003), «sanlorenzino, nipote del fiduciario del sindaco Ernesto Nathan e figlio di un sindacalista socialista, come il papà del mio amico padre Libero», ci racconta che la sua fede nella Provvidenza andò perduta tra le macerie del 19 luglio. Le bombe gli ferirono l’anima. Ma padre Libero gli è stato sempre vicino, malgrado la lontananza di vedute: «Il 5 giugno del ’44 noi avevamo vinto, eravamo convinti di dover fare l’insurrezione. Organizzammo una grande manifestazione a San Lorenzo, con le bandiere rosse. Ma c’era poca gente. Erano andati quasi tutti a San Pietro, dal Papa defensor civitatis, guidati da padre Libero e da Pietro Carucci, un grande democristiano sanlorenzino. In piazza con loro c’era pure don Paolo Pecoraro, antifascista e cattocomunista, che sventolava un bandierone rosso...».
Nel dopoguerra padre Libero continua il suo viaggio nella patria sanlorenzina. «Conosceva ladruncoli, scommettitori, giocatori e... qualcosa di peggio», raccontò ancora padre Cunial: «Tutti potevano parlargli e spesso era l’unico intermediario fra carcere e famiglia, l’unico chiamato al capezzale... Tutti lo hanno visto, questo sacerdote, passare tra le case o nei bar, magari criticato; erano i luoghi di appuntamento e di apostolato per gli amici, per chi non entrava in chiesa, per i poveri, perché non si vergognassero... Tutti hanno visto la sua automobile nelle vie adiacenti alla chiesa, sempre aperta, talora con una coperta. Qualcuno sapeva che, in mancanza di meglio, avrebbe trovato sempre un posto per dormire».
Sarà questa gente, insieme a tutti i parrocchiani, a organizzare una manifestazione sotto un grande striscione di protesta – «Aridàtece padre Libero!» – quando, nel 1957, verrà trasferito a San Paolo fuori le Mura: «Il cardinale Micara lo volle direttore del Pontificio Oratorio di San Paolo», raccontano padre Giorgio Marino e padre Antonino Toso, della comunità dei Giuseppini di San Lorenzo: «Con l’aiuto del cardinale Villot, padre Libero costruì anche una scuola tipografica, utilizzando le vecchie macchine del Corriere dello Sport. E poi un grande istituto professionale, che seguì fino ai primi anni Settanta». A San Paolo stringe i rapporti con la dirigenza dell’A.S. Roma, e diventa assistente spirituale della squadra di calcio della capitale. Poi torna a San Lorenzo, da dove non se ne andrà più.
La scuola, la “Spes”, la parrocchia. A un certo punto, pure il Comitato di quartiere, di cui è eletto presidente a furor di popolo. C’è già abbastanza per riempire la giornata. Il riposo è importante, importante staccare. Padre Libero lo fa, magari per un caffè al bar nella piazzetta del mercato, subito dopo la pennichella, o per una partita a carte in osteria. Spesso gli capitava, nella seconda metà degli anni Settanta, di incontrare i militanti di Autonomia operaia, o gli intellettuali engagé di Lotta continua, nei pressi di via dei Volsci, approdo storico dell’extraparlamentarismo romano. Là, era tutto un fare: volantini, striscioni, documenti, mobilitazioni quotidiane. Una volta, passando da quelle parti, gli scappò detto: «Ahó, ma nun ve riposate mai?». Li prese in contropiede e non riuscirono a replicare nulla. Nemmeno una parolaccia. Qualcuno aveva spiegato loro che quel prete era fatto così.
Era di San Lorenzo, aveva nel sangue l’ironia e la scanzonatezza del popolo romano col quale aveva condiviso tutta la vita e del quale ogni mattina portava sull’altare della parrocchia la preghiera e la speranza.
La domenica in cui morì, il 18 febbraio 1990, di sicuro molti sanlorenzini, anche quelli che non ci credevano, guardarono per un momento il cielo. Là, se chiedi una mano, non devi dichiarare prima da che parte stai. Padre Libero questa cosa l’aveva sempre saputa.