«A me importa a questo mondo unicamente la verità». Nasceva 100 anni fa Cristina Campo. Una delle autrici più defilate ma significative della letteratura italiana contemporanea. Fragile per una malattia, determinata a cercare la Bellezza. Il suo ritratto su Tracce, di Davide Perillo
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Davide Perillo pubblicato su Tracce del 28/4/2023 e disponibile on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Di Cristina Campo, su questo sito, vedi la tradizione dell’importantissimo saggio di Marcel Proust, La morte delle cattedrali. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (16/7/2023)
«Due mondi – e io vengo dall’altro». Un verso, e c’è tutta Cristina Campo. Ovvero, uno dei misteri più grandi – e affascinanti – della letteratura italiana contemporanea.
E uno degli sguardi più acuti su un mondo che dopo la guerra stava cambiando in fretta non solo la pelle, ma la radice, la concezione dell’uomo e del “destino”, una delle parole che ha amato di più. Poetessa, saggista, traduttrice, la Campo ha pubblicato poco, ma scritto tantissimo, spesso sotto pseudonimi.
Al suo attivo ha tre raccolte di poesie, un elenco sterminato di saggi (bellissimi quelli su Čechov e Simone Weil), traduzioni (Emily Dickinson, John Donne, William Carlos Williams, T.S. Eliot…), articoli. Ma soprattutto, lettere. Decine di lettere, ad amici, colleghi, compagni di letture – a caccia di chi cercasse come lei non solo di spremere «il sapore massimo di ogni parola», ma di arrivare al fondo delle cose. L’altro mondo, appunto.
Anche Cristina Campo è uno pseudonimo. Il nome vero è Vittoria Guerrini. Nasce giusto cent’anni fa, il 29 aprile 1923, a Bologna. Famiglia borghese. Il padre, Guido Guerrini, è musicista (riabilitato dall’epurazione post-fascista, finirà a dirigere il Conservatorio di Roma) con radici solide nei campi. «Mio padre mi ha invitato a una gita in campagna e io non ho potuto rifiutare», scrive lei in una lettera: «È uno degli ultimi a sapere con precisione i nomi delle cose (cioè a possedere ancora una realtà)».
Nel 1928 la famiglia si trasferisce a Firenze. Vittoria è una bimba sveglia. Legge tanto, di tutto. Partendo dalle fiabe, con cui manterrà sempre un filo. «Insegnano a ragionare alla rovescia, a sconfiggere la legge di necessità e passare a un nuovo ordine di rapporti», scriverà più tardi: «Poiché con un cuore legato non si entra nell’impossibile».
E il suo cuore è letteralmente da slegare, di continuo. È nata con una malformazione. Tecnicamente si chiama «dotto di Botallo pervio»: il passaggio tra arteria polmonare e aorta, invece di chiudersi subito dopo la nascita, è rimasto aperto. Per il cuore è un sovraccarico costante. Per Vittoria vorrà dire lasciare la scuola a 12 anni (studierà da autodidatta, sotto la guida del padre), ma soprattutto fare i conti per tutta la vita con momenti infiniti di stanchezza, sbalzi di fiato e pressione, giornate intere da passare a letto, crisi cardiache. In una parola, con una precarietà che la fa vivere sempre sul bordo dell’istante, e rende più acuta una sensibilità già spiccata.
A vent’anni, accade un altro fatto che le scava dentro: il 25 settembre 1943, durante un bombardamento, perde Anna Cavalletti, l’amica del cuore, una delle poche con cui è in sintonia profonda. Mancanza e solitudine sono ferite che non sanerà mai. In una lettera al padre scrive: «Ho tanto sofferto che non so se potrò parlare distintamente agli altri: se rileggo i miei ultimi appunti mi sembrano così soli e chiusi! Però voglio tentare tutto. Ho tante cose da dire! Quasi direi da salvare: (...) cose che io sola sento di aver visto e sentito fino alla sofferenza e che assolutamente non devono morire».
A Firenze, un po’ alla volta, conosce intellettuali e letterati. Fa amicizia con Mario Luzi (che di lei dirà: «Conosceva la gioia, gliel’ho vista in volto, negli occhi. Ma la felicità è un’altra cosa, che Cristina non ha mai avuto»). Il primo libro di poesie, Passo d’addio, esce nel 1956. Seguiranno raccolte di saggi (Fiaba e mistero è del 1962, Il flauto e il tappeto del ’71). E poi libri che mettono ordine, come Gli imperdonabili e La Tigre Assenza (ora la pubblica Adelphi).
Tra i suoi autori preferiti, dopo Hugo von Hofmannsthal (che la segna molto per la sua spiritualità), c’è un incontro quasi casuale: Simone Weil. Cristina la scopre nel 1950, quando Luzi le regala L’ombra e la grazia. Nella filosofa e mistica francese riconosce subito una sorella. Un tema soprattutto le diventa caro: l’attenzione, la necessità di avere uno sguardo sulla realtà teso allo spasimo, non superficiale. È «l’unica via verso la verità». Una radicalità che le fa dire a un’amica: «A me importa a questo mondo unicamente la verità». Leggendo la Weil si sente meno sola. La studia, la traduce. Ricopia passaggi a mano, per regalarli agli amici. Frasi come: «Aver l’anima vulnerabile alle ferite di ogni carne senza eccezione, come a quelle della propria carne, né più né meno». La verità, scrive, è che «Simone mi rende tangibile tutto ciò che non so credere». Ed è nell’impatto con lei che in qualche modo si apre anche la prospettiva della fede.
A provocarla è anche il contesto intorno, la “grande bellezza” di Roma. Ci si è trasferita e frequenta nomi importanti: Ignazio Silone, Corrado Alvaro (di cui diventa amica, e che assiste sul letto di morte, nel 1956). Collabora con riviste e case editrici. Gestisce un programma sulla Rai. Allo stesso tempo, si spende per gli altri con una passione che non ti aspetteresti dalla signora elegante che frequenta i salotti letterari. Aiuta i poveri, a decine. Per anni sostiene un invalido, Romualdo Penati, che dopo un tentato suicidio ha perso le gambe. E scrive e fatica, a ogni riga di più.
La sua è una ricerca continua della Bellezza. «È perfezionista fino all’eccesso», dicono gli amici: ma di quel perfezionismo non pedante che mira all’assoluto, e sa che in ogni caso qualsiasi parola è troppo poco per dirlo. È anche per questo – oltre che per la debolezza endemica, che a volte le impedisce di lavorare – che tanti dei suoi progetti rimarranno incompiuti: dall’idea di un’antologia di Ottanta poetesse, alla traduzione dell’opera di Donne, ai libri sulla liturgia. «Io sono come un cervo sempre in fuga nella foresta. Quando arriva a uno stagno dove potrebbe specchiarsi, ha tanta sete che subito lo intorbida».
Si lega a Elémire Zolla, intellettuale brillante, uno di quelli che hanno fatto conoscere in Italia Adorno e la Scuola di Francoforte, e che poi mostrerà interesse per lo gnosticismo e le filosofie orientali. È un amore travagliato che, tra alti e bassi, l’accompagnerà tutta la vita, ma senza darle pace.
Esattamente l’opposto dell’amicizia che nasce con María Zambrano, la grande filosofa spagnola. La Campo la conosce durante il suo esilio romano, tra il 1953 e il 1964. E non si staccherà più. Le lettere che le scrive, raccolte in un libro che già dal titolo dice tutto (Se tu fossi qui, Archinto), sono un tesoro di delicatezza e profondità. «Un’amicizia pura è rara», scrive Cristina nel saggio Parco dei cervi. Ecco, la Zambrano per lei è questa purezza. In María, vede «l’innocenza di un bambino che sa tutto». Una delle lettere, un dattiloscritto con dedica, è una poesia di Gialal al-Din Rumi, mistico persiano, tradotta per l’amica: «Il viandante di Dio s’inebria senza vino, / di tutto egli stupisce / lungo l’eterna strada». È questo stupore che le rende sorelle. Hanno in comune una radicalità estrema: l’essenziale, questo serve per vivere. Null’altro.
Nel carteggio c’è una pagina ricopiata a mano: è una delle poesie più belle della Campo, La Tigre Assenza, la Bestia che «ha tutto divorato / di questo volto rivolto / a voi! La bocca sola, / pura / prega ancora / voi: di pregare ancora / perché la Tigre, / la Tigre Assenza, / o amati, / non divori la bocca / e la preghiera…».
Non è un caso quel richiamo ostinato alla preghiera. Con María, la Campo condivide anche un punto di fuga, l’unico ormai possibile per una sensibilità così acuta: la fede. Sta prendendo sempre più spazio. In un’altra lettera parla di ciò che le scandisce le giornate: la Messa, il silenzio, la preghiera… «Ti ho allineato le cose che rendono ancora possibile la mia vita: è un atto di gratitudine a Dio, a quelle cose e a te, sempre vicina, testimone perfetta con il dito sul labbro…».
La Campo inizia a frequentare abbazie e conventi romani. È attratta dalla liturgia e dal gregoriano. La Bellezza, ancora. Va spesso a Subiaco, nella trappa romana di Tre Fontane e ogni tanto a Vitorchiano, affascinata dal silenzio («è tesaurizzazione di potenze») e dalle monache: «La religione non è altro che destino santificato». Legge i mistici, soprattutto Meister Eckhart e Angela da Foligno: «Non posso leggere che questa gente, da qualche mese; di qualunque cosa al mondo io desideri sentir parlare, essi ne parlano perfettamente». Lotta a lungo con Dio: «Continuiamo a girarci intorno, come due armati di lancia che cercano il punto giusto per colpire». Ma un po’ alla volta, cede.
Sono gli anni del Concilio Vaticano II e della riforma liturgica. Per la Campo, è come vedere minacciata quella Bellezza che stava iniziando a scoprire. Si oppone, si mobilita, firma manifesti. Si avvicina persino a monsignor Marcel Lefebvre e agli scismatici di Ecône. Ma anche qui, il discorso è più sottile e profondo del contrasto tra progressisti e conservatori che anima il dibattito postconciliare. Cristina De Stefano, la sua biografa (Belinda e il mostro, Adelphi), parla di un «orrore per la società di massa, dove volti, abiti, usi agonizzano nell’omogeneità, dove ogni gesto è intercambiabile e quindi ormai privo di senso. Un mondo dove si è persa per sempre l’idea di destino». Lei lo dice con frasi asciutte: citando Abraham Heschel, ricorda che «se noi cessiamo di chiamare Dio sui nostri altari, li occuperanno ineluttabilmente i demoni».
Nel 1969, quando Zolla fonda il trimestrale Conoscenza religiosa, la Campo è tra i collaboratori più continui. Sfiora posizioni gnostiche, e a volte ci cade dentro. Sono gli anni in cui scopre il rito bizantino, le icone, i Racconti di un pellegrino russo (per il quale scriverà una bellissima introduzione all’edizione di Rusconi). Comincia a frequentare il Russicum, il seminario romano degli slavi. Si appassiona alla cultura di un Paese che Rilke chiamava «la contrada confinante con Dio».
È da qui che vengono fuori le poesie di Diario bizantino. E quei versi che sono quasi un testamento, la sintesi di una vita sospesa di continuo tra tempo ed eterno: «Due mondi – e io vengo dall’altro. / Dietro e dentro / le strade inzuppate / dietro e dentro / nebbia e lacerazione / oltre caos e ragione / porte minuscole e dure tende di cuoio, / mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo, / inenarrabilmente ignoto al mondo, / dal soffio divino / un attimo suscitato, / dal soffio divino / subito cancellato…».
Quel soffio si interrompe di colpo, durante una delle solite crisi, la notte tra il 10 e l’11 gennaio 1977. Cristina muore così, defilata come aveva vissuto. Beghe testamentarie impediscono di mettere ordine tra le carte: un baule pieno di appunti e lettere finirà buttato, nello svuotare la casa. Un peccato enorme. Ma erano cronache dell’altro mondo: forse è giusto che su quelle resti il mistero.