Una lezione che ha ancora molto da insegnare a clericali e ad anti-clericali, ma in fondo a tutti: lo stile e i contenuti proposti dall’allora papa Benedetto XVI in occasione della mancata visita alla Sapienza Università di Roma, di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Laicità, Cristianesimo e Università.
Il Centro culturale Gli scritti (4/1/2023)
Quando Benedetto XVI si rese conto che la sua visita alla Sapienza programmata per il 17 gennaio 2008 sarebbe stata turbata da docenti e studenti contrari che ne avrebbero alterato le intenzioni fece emettere uno scarnissimo comunicato, senza offendere e senza accusare nessuno, proprio per rispetto dell’Università stessa:
«A seguito delle ben note vicende di questi giorni in rapporto alla visita del Santo Padre all’Università degli Studi "La Sapienza", che su invito del Rettore Magnifico avrebbe dovuto verificarsi giovedì 17 gennaio, si è ritenuto opportuno soprassedere all’evento. Il Santo Padre invierà, tuttavia, il previsto intervento».
Il comunicato venne reso pubblico due giorni prima dell’incontro, il 15 gennaio.
Solo un mese dopo, l’8 febbraio, L’Osservatore Romano pubblicò un brevissimo commento al fatto che i professori che si erano opposti non avevano letto la relazione per la quale incriminavano Benedetto XVI, perché avevano ripreso la citazione contestata da Wikipedia: prova del loro atteggiamento non scientifico verso Benedetto XVI era il fatto che i docenti indicavano Parma come sede dell’intervento, esattamente come Wikipedia, mentre in realtà la conferenza era avvenuta proprio alla Sapienza.
Nell’intervento, inoltre, l’allora prof. Ratzinger non esprimeva un proprio parere su Galilei, bensì citava un’espressione di Feyerabend non per avvalorarla, quanto per mostrare la complessità delle riflessioni che agitavano la filosofia della scienza (qui il commento firmato con tre asterischi, verosimilmente scritto dall’allora direttore de L’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian, anch’egli docente della Sapienza: Copia e incolla con errore: è Wikipedia la fonte dei docenti che non hanno voluto la visita di Benedetto XVI alla Sapienza).
Quanto è lontano lo stile cristiano, di amore alla cultura e alle sue istituzioni, proprio di Benedetto XVI da quello di tanti clericali che, invece, alzano i toni, con una visceralità e un’animosità che poco hanno a che fare con la finezza del papa emerito.
Fu il suo stesso intervento, già preparato per essere pronunciato e inviato invece per iscritto, a parlare per lui, poiché Benedetto è sempre stato interessato al fatto di poter liberamente proporre la verità, non invece di imporla utilizzando parole offensive.
Se si rilegge oggi la relazione che avrebbe tenuto (per il testo completo, cfr. Allocuzione del Santo Padre Benedetto XVI per l’incontro con l’Università degli studi di Roma "La Sapienza"), ci si accorge della grandezza del suo sguardo.
Egli ricorda come La Sapienza sia stata fondata da un suo predecessore, Bonifacio VIII, e come poi la vita dell'università sia continuata indipendentemente dalla Chiesa, dal momento dell'unità d’Italia.
Benedetto XVI dichiara poi con quali “panni” si rivolge all’Università:
«Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed attualità. Nell’università "Sapienza", l’antica università di Roma, però, sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come tale. Certo, la "Sapienza" era un tempo l’università del Papa, ma oggi è un’università laica con quell’autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università, la quale deve essere legata esclusivamente all’autorità della verità. Nella sua libertà da autorità politiche ed ecclesiastiche l’università trova la sua funzione particolare, proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di un’istituzione del genere».
Cosa ha da dire, in un luogo che riconosce l’autorità della verità, il vescovo di Roma? Benedetto spiega, fedele al suo ministero e insieme alla missione propria dell’università:
In un’università «il papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica».
Riferendosi a John Rawls, filosofo statunitense che scrisse dell’importanza dell’apporto delle diverse tradizioni nell’elaborazione del diritto, precisa:
«Nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina [delle diverse tradizioni religiose]. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee».
D’altro canto, cos’è l’università, si domanda Benedetto?
«La vera, intima origine dell’università [sta] nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio – per menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b – c)».
E subito dichiara:
«In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto sé stessi e il loro cammino».
La ricerca della verità, propria dell’uomo e dell’università, si origina anche dal discutere delle tradizioni religiose: i cristiani non sentono tale messa in discussione delle tradizioni religiose, da parte della ragione e dell’università, come contraria alla propria fede, anzi la coltivano e la incentivano.
I cristiani «non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera».
Ecco perché «poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università».
La fede cristiana ha generato il concetto stesso di università e della stessa istituzione universitaria, proprio perché avvertiva l’esigenza di questa ricerca della verità da parte della ragione e della libertà umane.
Benedetto XVI pone poi al centro del suo intervento la questione del rapporto fra prassi e verità, se cioè l’università debba occuparsi solo di ciò che si può fare, oppure se debba conservare sempre come essenziale la ricerca della verità. E spiega:
«Jürgen Habermas esprime […] un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa "forma ragionevole" egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione sensibile alla verità" (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico "processo di argomentazione" sono – lo sappiamo – prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico».
Non basta, insomma, avere la maggioranza dei voti per essere nel bene, perché esiste un altro elemento, quello della verità: il dialogo fra la semplice conta dei voti e la ricerca di ciò che è vero determinano una vera democrazia, ben differente dal populismo – diremmo oggi – dove chi ha la maggioranza ha ragione.
Benedetto ricorda allora che il grande pericolo che corre il mondo contemporaneo è quello di rinunciare alla ricerca della verità, di basarsi solo sull’utile e sulla ricerca del potere da parte delle gerarchie politiche ed economiche:
«Il pericolo del mondo occidentale […] è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma».
Quale senso ha dunque l’invito dell’Università perché il vescovo di Roma la visiti e vi tenga una relazione?
«Sicuramente [un papa] non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà, [invece] è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro».
Sappiamo, per avere ascoltato direttamente la loro voce, che più volte i rettori della Sapienza avrebbero voluto sanare la ferita causata dai docenti di quel tempo che impedirono a Benedetto di tenere un discorso di tale altezza culturale e di sguardo: essi attendevano l’occasione per poter invitare nuovamente prima Benedetto XVI - e poi papa Francesco - per rimediare all’errore compiuto nel 2008.
Hanno sempre avuto consapevolezza, insomma, che il rifiuto di accogliere Benedetto fu un momento triste della storia della Sapienza che si era sempre, invece, caratterizzata per apertura e visione, come quando aveva invitato in Aula Magna Tenzin Gyatso XIV Dalai Lama del Tibet, nel 1996.
Benedetto insegnò, comunque, quel giorno, con il suo stile e con le sue argomentazioni, che l’università e la cultura, se si chiudessero alle grandi tradizioni religiose, diverrebbero parziali al punto da rinnegare sé stesse e che, al contempo, se il cristianesimo dimenticasse l’importanza della ragione e dell’elaborazione culturale, smetterebbe di essere sé stesso.