Uno sguardo critico sul turismo: un fenomeno che segna la nostra epoca. Una recensione di Giuseppe Romiti al volume di Marco D’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo da Mark Twain al Covid-19
Riprendiamo sul nostro sito una recensione di Giuseppe Romiti a Marco D’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo da Mark Twain al Covid-19, Torino, Feltrinelli, 2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educazione ed Ecologia.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2023)
Un perenne, inesausto viavai
Marco D’Eramo definisce così il turismo nelle prime pagine del suo saggio “Il selfie del mondo – Indagine sull’età del turismo” (2019 -Feltrinelli Editore): “Complessivamente, i viaggiatori internazionali erano 25,3 milioni nel 1950; 69,3 milioni nel 1960; 158,7 milioni nel 1970; 204 milioni nel 1980; 425 milioni nel 1990; 753 milioni nel 2000; 946 milioni nel 2010; 1,4 miliardi nel 2018 (dati della World Tourism Organization). (…) E che il turismo sia ormai globale non c’è dubbio: un miliardo e 400 milioni di arrivi l’anno significa che un umano su sette compie viaggi internazionali: una marea mostruosa, un’orda di cui a ognuno di noi tocca far parte.
Se si contassero poi i viaggi del turismo interno (di solito per valutare il numero di turisti domestici si moltiplica per 4 quello dei turisti internazionali), si avrebbe l’immagine di tutta un’umanità in perenne, inesausto viavai”. Anche se il Covid ha inferto un duro colpo ai flussi turistici, questa riflessione è ancora attuale se confrontiamo i numeri riscontrati negli anni 2021 e 2022, che indicano la tendenza al riallineamento ai valori precedenti l’emergenza pandemica.
Perché l’uomo viaggia?
Il turismo, così come l’intendiamo oggi - un fenomeno di massa - è un’invenzione del XIX secolo, legata allo sviluppo dei mezzi di comunicazione e si espande in modo esplosivo nel XX secolo, grazie al miglioramento delle condizioni dei lavoratori (ferie retribuite) e di viaggio (trasporti e sistemazioni low cost), mentre nei secoli precedenti era una attività riservata per lo più ai membri delle famiglie aristocratiche.
Ai suoi albori, c’era il cosiddetto “Grand Tour”, che comprendeva obbligatoriamente la visita delle grandi città d’arte italiane. Lo si intraprendeva dopo aver letto o ascoltato le descrizioni di quei luoghi, per provare l’emozione di confrontare quel che si vede con ciò che si era immaginato in precedenza, la realtà con il mito.
Si viaggiava attratti dalle rovine dei monumenti antichi, capaci “di trasformare la contemplazione dello spazio in una meditazione sul tempo”, mentre una dolce malinconia pervadeva l’animo del viaggiatore. “Un consiglio che veniva instancabilmente dato ai rampolli in procinto di partire, era quello di avere sempre un blocco da disegno in cui ritrarre (a tempera o acquerelli) paesaggi o spettacoli visti in viaggio, per cui i viaggiatori finirono per privilegiare la “dipingibilità” in quel che osservavano.
Da qui il sorgere della categoria di “pittoresco” (letteralmente “ciò che è adatto a essere dipinto”) che diventerà uno dei criteri fondamentali (e poi più derisi) del futuro turismo.”
Queste motivazioni, cambiando quello che va cambiato (gli acquerelli con l’apparecchio fotografico), sembrano restare valide ancora oggi, come sembra restare valida un’altra: l’esigenza di elevare la propria posizione nella società: “il viaggio in Italia è componente indispensabile del capitale simbolico di una persona comme il faut (come si deve – NdR), perché chi ne è privo è “sempre in stato d’inferiorità”: a sua volta, il viaggio necessita di risorse (capitale economico) e relazioni (capitale sociale) che definiscono la persona distinta.”
Una distinzione solo apparente
Con l’arrivo del turismo di massa, popolato da una classe media costretta entro limiti temporali e finanziari molto più ristretti, si fa largo la distinzione fra il “turista mordi e fuggi”, frettoloso e superficiale, che in pochi giorni è tenuto a rispettare una rigida tabella di marcia e il “viaggiatore”, colui che ha la pretesa di essere in grado di assaporare lo spirito dei luoghi, la loro autenticità.
Ma cos’è veramente “autentico”? “Il paradosso, il dilemma dell’autenticità è che per essere vissuta come autentica deve essere marcata come autentica, ma quando è marcata come autentica è mediata” cioè è necessario che qualcuno la segnali agli altri, dopo aver calpestato quel suolo, interagito con quella popolazione, rappresentato in modo “pittoresco” quel monumento.
E tanto più quell’”autenticità” è marcata tanto meno può essere considerata sinonimo di purezza, originalità e incontaminazione.
Quindi, l’élite dei “viaggiatori”, per non precipitare nel “volgare” status di “turista”, è costretta “sempre a trovare nuove destinazioni, incontaminate dalle masse – posti che ancora veicolano un alto livello di capitale simbolico e la cui rarità è garantita come differente dalla difficoltà di giungervi, per costo o per disagio.”
Conseguenza non secondaria è, secondo l’autore, che “Il turismo moderno è perciò un’economia intrinsecamente espansiva, che costruisce e si appropria costantemente di nuove esperienze e nuovi luoghi. E però una tale attività porta in sé i semi della propria distruzione, dato che la semplice presenza del turista corrompe l’idea del raggiungere una cultura autentica e totalmente diversa”.
È facile così cadere in una “sterminata serie di delusioni” che ormai possiamo registrare su TripAdvisor o altre analoghe piattaforme online. Per esempio, un visitatore tra i 134.075 recensori (al 4 marzo 2019) sul Colosseo di Roma, mostra la sua delusione: “Il nulla a pagamento. Colosseo, arena dove gli antichi Romani facevano le loro performance, ha un costo di circa 12 euro per vedere sassi senza cura”.
Il turista è deluso perché non visita i luoghi, ma visita le guide, nel senso che il suo è un confronto costante tra come gli hanno precostituito l’esperienza della visita e come essa avviene realmente. È come se l’industria turistica offrisse una promessa impossibile da mantenere, una “cambiale che non è mai onorata ma sempre protratta: a modo suo (…) il turista non fa altro che inseguire l’irraggiungibile. Un “desiderio di fuga dalla vita quotidiana, come impulso a liberarsi, per il breve periodo delle ferie, dai vincoli della società” una “fuga” illusoria, perché: “La liberazione dal mondo dell’industria si è stabilita essa stessa come industria: il viaggio dal mondo delle merci è diventato una merce”.
Una industria “pesante” e “inquinante”
Anche se l’accostamento del turismo alle industrie cosiddette “pesanti” (come quella siderurgica o mineraria) non è immediato, l’autore propone alcuni argomenti che lo rendono calzante.
Non sono solo le emissioni di aeroplani, auto e navi a renderlo “inquinante” ma anche la sua capacità di stravolgere l’ambiente naturale ed umano non appena si afferma in una città, un borgo, un tratto di costa, una valle montana.
Prendendo il caso delle città (ma il ragionamento è esteso anche agli altri luoghi): “In senso lato, sono turistiche le città in cui il numero di visitatori annui supera di gran lunga il numero di abitanti (…). Il superamento della soglia di transizione ha conseguenze impreviste e irreversibili.
Questo è chiaro nei ristoranti. Sotto la soglia, i turisti mangiano in ristoranti che cucinano per i locali, oltre quella soglia i residenti dovranno mangiare in trattorie mirate al mercato turistico.
Trent’anni fa era praticamente impossibile mangiare male a Roma o Firenze. Oggi è difficilissimo mangiarci bene. Perché un ristoratore dovrebbe dannarsi per cucinare con cura per un cliente che non tornerà mai? (…) il mercato per la domanda dei residenti non coincide con il mercato per la domanda dei turisti, ma i due mercati si sovrappongono nel tempo e nello spazio ed entrano in conflitto o divergono.
Se il residente ha bisogno di riparare le scarpe, mentre il turista ha fame di uno snack, e se i turisti spendono più dei residenti, il risultato è che scompare la bottega artigiana del ciabattino e si moltiplicano i fast-food.”
Non basta. “Nella città turistica non è solo la tipologia dei servizi a mutare drasticamente, ma viene stravolta la stessa funzione degli edifici. Una volta l’ingresso nelle chiese era non solo libero ma auspicato (…). Oggi invece (…) In tutto il mondo, chiese, cattedrali, moschee e templi si stanno convertendo da funzioni religiose a funzioni turistiche”.
Il turismo stravolge non solo il paesaggio fisico, ma anche quello umano: proprio perché il nucleo della città turistica “tende a essere dominato dal commercio al dettaglio e da locali di svago piuttosto che da uffici, i quartieri residenziali della classe lavoratrice situati in centro diventano una rarità”.
Così i ceti meno agiati vengono esclusi dal centro città che diventa appannaggio dei visitatori. In modo subdolo avviene un cambiamento nella vita della città che, da luogo di quotidiana vita pulsante, lentamente si trasforma in scena teatrale.
“Ogni città deve “recitare” sé stessa: Roma deve mettere in scena la romanità, Parigi deve corrispondere all’idea che un americano si fa di Parigi. Il bistrot diventa la caricatura del bistrot. Nello stesso modo, Trastevere è la caricatura del romanaccio. È un processo che si riproduce sotto i nostri occhi in tutte le città del mondo, senza che ce ne accorgiamo. (…) Se si accoppiano gli effetti della messa in scena da un lato e dell’eliminazione delle altre attività produttive dall’altro, si ottiene un deperimento complessivo della città turistica”.
Non c’è proprio niente da salvare nel turismo?
Accumulando gli argomenti a sfavore (mercificazione, alienazione, inautenticità) l’autore sente comprensibilmente il bisogno di mettere in guardia il lettore dalla tentazione di assumere uno sguardo sprezzante nei confronti del popolo del turismo.
Anche perché, diciamo la verità, chi è che non è mai stato “turista”? e chi non è stato partecipe almeno una volta dei fenomeni sinora raccontati?
Quindi, per rendergli giustizia, ma anche per buon senso, si deve ammettere che fra le motivazioni del turismo ci deve essere anche una sana e umana curiosità verso ciò che è diverso e inesplorato, e l’implicito piacere di poter avere questa “alterità” a disposizione, grazie all’efficacia dei mezzi messi a disposizione dallo sviluppo tecnologico.
Accanto a questo, non c’è niente di male nell'ammettere l’esigenza di puro e semplice divertimento, svincolato da motivazioni romantiche o culturali. Il divertimento che si può provare anche visitando luoghi “non autentici” per definizione come Disneyland, o Las Vegas, dove i più si convincono a mettere da parte l’imperativo della ricerca di “autenticità” per godersi l’euforia e l’ironico stupore che offre l’attraversamento della Strip di Las Vegas, fra le improbabili ricostruzioni di piramidi e palazzi dell’antica Roma. Uno spasso fine a sé stesso, che può trasmettere allegria.
Tempo libero: ci sono alternative al turismo?
D’Eramo prende le distanze dagli autori (puntualmente citati nel libro) per i quali il turista resta comunque una figura problematica, portatore di una “coscienza triste”, delusa e nostalgica, che insegue un desiderio destinato a non essere mai soddisfatto.
In questo senso, dedica molte pagine per suggerire che l’origine dei problemi è nel contesto storico, sociale ed economico in cui si muove il turista, che è “l’esito di una relazione di dominio e subordinazione” in cui la critica deve essere rivolta essenzialmente alle “istituzioni che esercitano un controllo sull’individuo” per occupare ogni suo spazio vitale, compreso quello del tempo libero.
Da questo punto in poi il saggio, fino ad ora avvincente, diventa meno convincente. Spostando l’attenzione dalle motivazioni individuali e di gruppo verso i “dispositivi di controllo sociale” e il “conflitto fra dominati e dominanti”, il turista sembra diventare la vittima impotente di un processo storico che lo sovrasta.
Diventa così possibile sostenere che: “L’ottusità, l’ebetudine di cui sono tacciate “le masse”, non è certo dovuta alla stupidità delle singole persone che queste moltitudini compongono, ma a una millenaria storia di violenza materiale e simbolica, a una politica” volta ad “assicurare una relazione disciplinare di potere”.
L’argomentazione, sino a quel punto acuta e brillante, sembra cadere in una sorta di pessimismo fatalista, secondo il quale il tempo libero sarebbe uno spazio vuoto e arido “in una società dominata dal rapporto di scambio mercantile, come si fa ad avere un tempo libero non mercificato? Ovvero: è realistico un uso non capitalistico del tempo in una società capitalista? Evidentemente no.”.
Se gli umani “non investissero nel turismo il loro tempo libero, in quale altra occupazione potrebbero investirlo, che produca un rendimento superiore (cioè che li renda più felici)? Facendo puzzle o pedalando sulla cyclette a casa propria? In questo orizzonte manca completamente la prospettiva della società civile, e di tutte le infinite occasioni di aggregazione delle persone sulla base di specifici interessi.
Di conseguenza vengono ignorati le tante attività che, almeno a detta di chi le compie, realizzano la persona umana. Molte di queste attività si basano su moventi quali la solidarietà, l’attenzione di cura (dentro i nuclei famigliari o fuori di essi) verso i bambini, gli anziani, i disabili, in genere le persone più fragili, e l’enorme preoccupazione per le condizioni dell’ecosistema.
Sono interessi umani che, per la loro gratuità, si sottraggono più facilmente (anche se non sempre) alle mire “di dominio e subordinazione” e contribuiscono a rafforzare il tessuto sociale affinché i luoghi siano veramente “vissuti” e non “usati”.
Il mondo gira, le realtà cambiano, e il fenomeno del “turismo”, anche secondo l’autore di questo libro, è destinato a declinare a favore di qualcosa che non sappiamo bene cosa sarà.
L’invito che noi facciamo al lettore è di lasciare uno spiraglio di fiducia nella capacità dell’uomo di operare per il bene perché, come sostiene anche l’autore: “Se per correggere tutto ciò che di sbagliato i suoi critici hanno imputato al turismo dobbiamo aspettare di abbattere il capitalismo mondiale, allora siamo freschi.”.