È nuovamente vivo il dibattito fra “presenza” e “mediazione culturale”, già proposto un tempo intorno all’aborto, al divorzio e alle modalità dell’annuncio e oggi risorto su altri temi a parti invertite, di Giovanni Amico
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Teologia pastorale e Carità e giustizia.
Il Centro culturale Gli scritti (1/1/2023)
Alla fine degli anni ’70, dopo la morte di Paolo VI, si scatenò fra cristiani un dibattito che ha molto da insegnare alla chiesa di oggi.
1/ Presenza e mediazione culturale alla fine degli anni ‘70
Furono la FUCI, l’AC e il gesuita padre Bartolomeo Sorge a fornire i termini di una questione precedente a tale terminologia che dilaniava le menti di allora[1].
Il dilemma che esisteva nella realtà venne posto in evidenza con questi termini: “presenza” o “mediazione culturale”?
Cerchiamo di chiarire i termini della questione.
“Presenza” era il modo di concepire, allora, la testimonianza cristiana da parte di movimenti importanti, come Comunione e Liberazione, ma anche – si riteneva – del pontefice stesso, allora Giovani Paolo II.
“Mediazione culturale” era, invece, la posizione difesa da chi si contrapponeva a tale impostazione: ci si rifiutava di dedurre una posizione legislativa a partire dalla visione “cattolica”, che andava invece, mediata in maniera pluralista con specifiche opzioni che dovevano godere del supporto della riflessione culturale e elaborare il principio in sé con una concreta visione della realtà che rendesse applicabile ciò che il valore implicava.
I fautori della mediazione culturale ricordavano saggiamente che il cristianesimo è inculturazione, considerazione delle condizioni storiche e culturali, elaborazione di processi decisionali e culturali che erano pluralisti proprio perché non dipendevano direttamente dalla fede, ma implicavano l’esercizio della laicità e delle sue molteplici opzioni politiche dinanzi a questioni concrete. I fautori della presenza rimandavano al Vangelo che difendeva la dignità umana sempre e comunque, al di là di punti di vista storici[2].
Tale dibattito era tutt’altro che teorico, perché esso veniva applicato a qualsivoglia questione quegli anni ponessero.
Ad esempio, dinanzi alla grande questione dell’aborto i difensori della “presenza” sostenevano che, essendo il tema decisivo e implicando la stessa vita umana, non ci fosse altra possibilità che schierarsi tout court contro qualsivoglia ipotesi legislativa che prevedesse un intervento dello Stato a fianco di una donna che intendesse abortire.
All’opposto i difensori della “mediazione culturale”, pur essendo teoricamente d’accordo sul fatto che l’aborto fosse un grave male, ritenevano che il cristiano non si potesse esimere dal lavorare ad ipotesi concrete di intervento legislativo.
Lo stesso avveniva dinanzi alla grande questione del divorzio già affrontata precedentemente in via referendaria. I cristiani della “presenza” affermavano che la fede cristiana implicava in sé stessa l’affermazione che la famiglia è un bene e il divorzio un male, mentre i teorici della “mediazione culturale” affermavano che, pur essendo di principio d’accordo con l’altra parte, bisognasse comunque riflettere su quali leggi fossero adatte alla concreta situazione dell’Italia di allora, prevedendo soluzioni concrete adeguate.
L’appoggio a questo o a quel partito veniva, in conseguenza di questo, dato dalle due parti in maniera differente: l’una, quella della “presenza”, intendeva premiare quello che affermasse il principio in sé, l’altra riteneva che andasse votato chi non si limitava ad enunciare principi, ma chi, realisticamente, sapesse individuare modalità concrete risolutive, anche se solo parzialmente.
Viste col senno di poi si comprende oggi come entrambe le posizioni avessero le loro ragioni, poiché la fede è attestazione di una novità presente e donata, senza ulteriori “se” e “ma”, ma, d’altro canto, è necessaria un’elaborazione culturale, legislativa e politica perché le questioni che si pongono storicamente trovino soluzioni praticabili, nell’accettazione di un’imperfezione che sempre caratterizza la politica. In politica sempre bisogna fare i conti con la controparte e sempre bisogna individuare percorsi concreti, anche quando sono in gioco valori assoluti come la famiglia o la vita di un bambino nel grembo, perché bisogna passare dalle enunciazioni di valore al vissuto e al normato.
2/ Presenza e mediazione culturale oggi
Ora, paradossalmente, è come se le posizioni fossero rovesciate, dinanzi a talune questioni morali altrettanto scottanti del presente.
Si prenda, ad esempio, la questione dell’accoglienza dei migranti.
La parte che allora difendeva una “mediazione culturale” e sfumature legislative dinanzi all’aborto e al divorzio, oggi sembra predicare un’accoglienza tout court, affermando che l’accoglienza è un valore insindacabile della fede cristiana. Il valore dell’accoglienza della vita di chi migra è giustamente un valore assoluto esattamente come si pretendeva precedentemente da altri fosse la vita già concepita. È un valore assoluto e ciò basta, senza che siano operato dei distinguo, senza che siano apprestati degli strumenti amministrativi e legislativi per la concretezza della vita: la “presenza” del valore della vita era ed è sufficiente e l’importante è enunciarla (cultura della “presenza”), anche se nessuno si preoccupa di elaborare processi effettivi di accompagnamento (cultura della “mediazione”).
L’altra parte – oggi a gruppi invertiti rispetto al passato - difende lo stesso principio della vita in sé come valore assoluto, ma ritiene che per difendere tale valore sia necessaria una precisa indicazione di passi sia di politica europea (con una suddivisione di quote), sia di passi di dialogo con le sedi di provenienza dei migranti (in modo da avere una collaborazione con i governi in questione), sia soprattutto con una valutazione delle modalità di inserimento e di integrazione: senza di essa – si afferma – la sola enunciazione del principio in sé si risolverà nel riempire le strade delle città di povera gente senza futuro.
Insomma si chiede una “mediazione culturale”. Si chiede, cioè, una riflessione legislativa ed economica concreta, per operare il possibile e non limitarsi a ricordare un’impossibile integrazione che avvenga magicamente da sé, così come un tempo si pretendeva di difendere la vita senza considerare la situazione concreta delle donne con gravidanze indesiderate.
Oggi chiunque si dicesse favorevole all’accoglienza, ma pretendesse previamente una serie di dispositivi per un’accoglienza non assoluta, ma entro contorni specifici, verrebbe tacciato di non essere cristiano, esattamente come i cattolici della “presenza” denunciavano un tempo come non cristiani tutti coloro che dinanzi all’aborto esigessero specificazioni ulteriori, in maniera da prevedere una serie di “se” e di “ma” dinanzi alla vita nascente.
Alla resa dei conti, appare a distanza di tempo che la contrapposizione non fu fra difensori della “presenza” e della “mediazione culturale”, ma piuttosto di visione partitiche, se oggi le due logiche sono cavalcate da campi opposti al passato.
Esistono, insomma, in entrambe le parti questioni dinanzi alle quali è bene scegliere lo stile di una “presenza” cristiana, senza preoccuparsi della “mediazione” e altri in cui è bene utilizzare la “mediazione”, dimenticando la “presenza”.
È ben per questo che una riflessione sulla questione delle modalità di testimonianza cristiana è urgente e il confronto sul perché si sia passati da uno stile al suo opposto, in entrambe le parti, potrebbe aiutare ad una ricomposizione dell’area cattolica in Italia.
Tutto questo gioverebbe non primariamente alla stessa area cattolica, bensì a chiarire il moralismo di tanta parte politica politicamente corretta che enuncia principi senza che nessuno si preoccupi poi di concretizzarli in decisioni legislative e politiche serie e accorte.
Il mondo cattolico, con la sua grande esperienza di presenza che si concretizza sempre in scelte e mediazioni sostenibili culturalmente, economicamente e amministrativamente, molto potrebbe insegnare, in una visione riconciliata, ad un mondo che enuncia e auspica senza affrontare concretamente nessun problema.
Proprio in questi giorni diversi amici mi ripetevano che, in città diverse, a poveri che si erano rivolti per un alloggio o per un lavoro, le autorità civili avevano risposto: “Rivolgetevi alla Caritas”. Ebbene questo scaricabarile del mondo politico e locale non è ammissibile mai, ma soprattutto oggi, in questi tempi così difficili.
Come insegnava Sorge, "presenza" e "mediazione culturale" non sono da contrapporre, bensì forse da integrare, allora come oggi: nel dialogo fra le due modalità è da individuarsi una concreta risposta al dramma irrisolto dell'oggi che sembra dimenticare sia la testimonianza della fede sia, d'altro canto, concrete linee di mediazione e azioni realisticamente percorribili.
Note al testo
[1] Cfr. ad esempio, B. Sorge, Una nuova inculturazione della fede nel nostro tempo, su NPG 1986-06-12, disponibile on-line, oltre a G. Tonini, La mediazione culturale. L'idea, le fonti, il dibattito, AVE, Roma 1985; B. Sorge, I cristiani nel mondo postmoderno. Presenza, assenza, mediazione, in “Civiltà Cattolica”, 1983, II, pp. 243-254. Sorge vi ricorda come alla linea della «mediazione culturale» si rifacciano teologi come Y. Congar, M.D. Chenu, K. Rahner e studiosi come J. Delumeau, Il cristianesimo sta per morire?, SEI, Torino 1978 o ancora Due modelli di cristianesimo, in Foi et Dévelopment, Centre Lebret, n. 77, maggio 1980; Fra lo «ieri» e il «domani», in Storia vissuta del popolo cristiano, SEI, Torino 1985, pp. 1051 ss.; G. Lazzati, La città dell'uomo, AVE, Roma 1985; P. Scoppola, La «nuova cristianità» perduta, Studium, Roma 1985. Sorge era tornato sul tema, poco prima di morire, nel suo Un «probabile sinodo» della chiesa italiana? Dal I Convegno ecclesiale del 1976 a oggi, in “Civiltà Cattolica”, Quaderno 4062, 2019, III, pp. 449 – 458, dichiarandosi a favore di una integrazione delle due posizioni.
[2] Per una lettura più equilibrata della questione dal punto di vista della teologia pastorale che non deve dedurre, né indurre, cfr. le riflessioni della Scuola di Teologia pastorale detta dei Laterani, di S. Lanza e di P. Asolan, con i suoi diversi volumi in merito.