Il frate Filippo Lippi e il figlio Filippino Lippi avuto dalla monaca Lucrezia Buti, di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito un testo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Arte e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (25/12/2022)
Non ci fu solo Caravaggio ad essere immorale e a dipingere, al contempo, opere amatissime dalla chiesa che gliele aveva commissionate. Innanzitutto perché al tempo del Merisi moltissimi pittori conducevano vite non sempre all’altezza delle loro opere (cfr. su questo Caravaggio come altri pittori dell’epoca nella vita sregolata Da Caravaggio al barocco: Roma ed i suoi bassifondi, di Andrea Lonardo).
Ma anche perché così è avvenuto infinite volte.
Si pensi al caso di Filippo Lippi che ebbe due figli – uno è il famoso Filippino Lippi – da una monaca conosciuta mentre era padre spirituale del convento a Prato.
Prato, Convento delle agostiniane di Santa Maria Margherita
«[Filippino Lippi] nacque a Prato dall'unione illegittima tra il celebre pittore e frate carmelitano, Filippo, e la monaca agostiniana Lucrezia Buti, figlia del fiorentino Francesco, mercante di seterie. L'anno di nascita è incerto: il 1457 rimane, ancora oggi, il riferimento cronologico che raccoglie maggiori consensi.
Lucrezia Buti era entrata nel 1451 con la sorella Spinetta nel convento di S. Margherita a Prato, del quale - secondo Milanesi - nel 1456 sarebbe diventato cappellano Filippo Lippi.
Questi i precedenti della vicenda di cui, a distanza di un secolo, Vasari (1568, II, pp. 620 s.) offrì la prima versione "romanzata": "Fra Filippo, dato d'occhio alla Lucrezia; […] fece poi tanto, per via di mezzi e di pratiche, che egli sviò la Lucrezia dalle monache; e la menò via il giorno [1° maggio] appunto ch'ella andava a vedere mostrare la Cintola di Nostra Donna".
Partendo dal racconto vasariano, le ricerche documentarie di Milanesi hanno appurato che le sorelle Buti e altre tre monache fuggirono dal convento il 1° maggio 1456 per farvi ritorno probabilmente alla fine del 1458, visto che poi tutte e cinque rinnovarono i voti nel dicembre dell'anno successivo. Sulla base di questi elementi il concepimento e la nascita del L. si collocherebbero nel biennio 1456-58. Vi è chi propende per l'inizio del 1457, anticipando la data di nascita il più possibile in considerazione della precoce attività spoletina (Zambrano, in Nelson - Zambrano, 2004). Ruda (1993), al contrario, ritiene che il pittore sia nato nel 1458, basandosi su un passo di una nota lettera di Giovanni de' Medici a Bartolomeo de' Serragli, datata al 27 maggio di quell'anno, nella quale si ricorda che alla corte aragonese "dello errore di Fra Filippo naviamo riso un pezzo". L'errore, che aveva suscitato l'ilarità dei cortigiani, potrebbe essere appunto la nascita del figlio; ma non si può escludere che si tratti invece di qualche altro episodio della vita del carmelitano che allora attraversava un momento tormentato e difficile.
Il primo documento nel quale si fa esplicito riferimento al L. è una tamburagione - una denuncia anonima - dell'8 maggio 1461, indirizzata agli Ufficiali di notte e conservatori dell'onestà dei monasteri contro il procuratore del convento di S. Margherita, Piero d'Antonio di ser Vannozzo, e contro il cappellano, Fra Filippo Lippi (Milanesi, 1878), entrambi accusati di avere commerci carnali con le religiose. "E 'l detto Frate Filippo à avuto uno figliolo maschio d'una che si chiama Spinetta. E detto fanciullo à in casa, è grande e à nome Filippino". Nella denuncia si confondono le sorelle Buti. Mentre nel testamento del 1488 (Milanesi, 1901, pp. 148-150), il L. ricorda Lucrezia "eius dilecte matris et filie Francisci de Buti de Florentia" nonché la propria sorella Alessandra, anch'essa figlia di Fra Filippo.
Le sue vicende sono registrate molto presto sia in testi di carattere letterario e storico sia dalla letteratura artistica, con informazioni che, arricchite e integrate, sono poi confluite nelle Vite vasariane (1550; 1568), testo che ne ha condizionato in profondità e nel tempo gli studi»[1].
Del padre di Filippino, Filippo Lippi, così racconta in un’altra voce il Dizionario biografico degli italiani Treccani:
«Nel 1452 il Lippi fu nominato cappellano delle monache di S. Nicolò dei Frieri, a Firenze, e con quella carica, di lì a poco, fu trasferito a Prato, presso le monache agostiniane di S. Margherita.
[…]
Prato, Filippo Lippi, Duomo
l'impresa di gran lunga più importante alla quale attese il L., tra gli anni Cinquanta e la prima metà del decennio successivo (e forse la sua maggiore in assoluto), fu il ciclo di affreschi nella cappella maggiore del duomo di Prato, superba testimonianza della sua maturità, del suo magistero disegnativo e delle sue capacità di resa realistica della narrazione, in cui si rinviene la memoria dei più alti esempi della tradizione pittorica toscana, da Giotto a Masaccio.
La delibera con cui si decise di procedere alla decorazione fu promulgata al principio del 1452 dal Comune, patrono della cappella maggiore, che fissò un tetto massimo di spesa di 1200 fiorini, comprensivo della grande vetrata centrale (il 5 apr. 1456 sarebbe stato stipulato un nuovo accordo che alzava il compenso a 1725 fiorini per i soli affreschi, purché fossero ultimati di lì a due anni: condizione che in effetti non ebbe a verificarsi). La Compagnia del Ceppo Vecchio, quella del Ceppo Nuovo e l'Opera del Sacro Cingolo (le più importanti associazioni caritatevoli e religiose attive a Prato, nonché principali finanziatori degli affreschi), su consiglio del preposto Geminiano Inghirami, tentarono vanamente di affidare gli affreschi al Beato Angelico, il quale, pur recatosi a Prato a fine marzo, dovette declinare l'impegno a causa della sua incompatibilità con l'incarico ricevuto in Vaticano per la cappella Niccolina. L'accordo con il L. fu raggiunto nel maggio del 1452: nel giro di poche settimane lui e la sua bottega diedero avvio all'imponente cimento (il primo pagamento al L. si ebbe l'11 luglio del 1452) e furono impegnati negli affreschi con relativa continuità (e sia pure fra svariate interruzioni, anche per mancanza di fondi, e non pochi ritardi) sino alla fine del 1465. Il saldo fu versato al L. il 28 nov. 1465. La grande vetrata, con al centro la Vergine che porge la cintola a s. Tommaso (la sacra cintola, o sacro cingolo, costituisce la più importante e venerata reliquia custodita nel duomo pratese, portata in città da Gerusalemme nel 1141), fu ultimata dal maestro vetraio Lorenzo da Pelago nel dicembre del 1459 e montata nella parete di fondo della cappella maggiore nel maggio del 1460. I dipinti murali raffigurano sul lato destro Storie di s. Giovanni Battista (contitolare della chiesa e protettore della città) con i principali episodi canonici che lo riguardano, dalla Nascita all'Orazione nel deserto, dalla Predica alla Decollazione, e sul lato sinistro Storie di s. Stefano (il santo titolare della chiesa), dalla Nascita sino alla Lapidazione e alle Esequie (probabilmente l'ultimo episodio a essere compiuto). Il L. fu abile nell'evidenziare le analogie e l'ideale relazione fra i due santi, facendo procedere il racconto delle loro vite in una sorta di serrato parallelismo. Ai lati del finestrone, le due nicchie dipinte contengono le immagini di S. Giovanni Gualberto, il fondatore dell'Ordine vallombrosano, e del carmelitano S. Alberto da Trapani (interpretato anche come S. Alberto patriarca di Costantinopoli, colui che dettò la regola dei carmelitani). Infine sulla volta sono rappresentati gli Evangelisti. Il L. integrò abbondantemente la realizzazione in buon fresco con frequenti interventi a secco, ciò che spiega i guasti estesi che le pitture ebbero a subire nel corso del tempo, e già a partire dal Cinquecento. Per quest'opera monumentale il L. si avvalse di cospicui interventi dei suoi aiutanti: il suo principale collaboratore fu l'inseparabile fra Diamante, ma possono essere associati all'impresa anche i nomi di Domenico di Zanobi (nel quale viene oggi prevalentemente risolta l'identità del cosiddetto Maestro della Natività Johnson) e del pittore locale Giannino della Magna.
Prato, Duomo, Filippo Lippi
Nei primi mesi del 1453, quasi contemporaneamente all'inizio dei lavori nel duomo, il L. dipinse la Madonna col Bambino in trono e santi, con Francesco di Marco Datini che presenta i provveditori della Pia Casa del Ceppo.
L'opera, detta Madonna del Ceppo, fu saldata il giorno 28 maggio per un totale di 85 fiorini comprensivo del tabernacolo che doveva contenerla, e venne posta nel cortile di palazzo Datini a Prato, dove fu vista da Vasari e rimase sino al 1858, quando fu donata al Comune ed esposta nel locale Museo civico (dove si trova tuttora). Vasari (1568, pp. 621 s.) specificò come nella tavola fosse presente il ritratto di Francesco di Marco Datini, morto da quarant'anni e fondatore della Pia Casa del Ceppo Nuovo, che nel palazzo di famiglia aveva sede. La critica conviene nel ritenere che le altre quattro figure di devoti, effigiati in scala minore rispetto a Datini, corrispondano ai provveditori in carica nel 1452-53: Andrea di Giovanni Bertelli, Filippo Manassei, Pietro Pugliesi e Iacopo degli Obizi.
Nel sesto decennio, forse immediatamente prima dell'inizio dei lavori nel duomo e comunque entro la metà degli anni Cinquanta, il L. dipinse la grande tavola raffigurante Le esequie di s. Gerolamo, già nella cattedrale e attualmente nel Museo dell'Opera del duomo di Prato, ancora accompagnata dalla cornice trilobata originale.
[…]
Al principio del 1456 il L. fu nominato cappellano del convento di S. Margherita a Prato, dove conobbe Lucrezia Buti, da poco monacata, di cui si innamorò e che convinse a fuggire con lui.
Dalla loro unione illegittima, probabilmente nel 1457, nacque segretamente a Prato il figlio Filippino. Alla fine del 1458 Lucrezia tornò nel convento, dove fu riammessa come novizia e pronunciò i voti, nel dicembre dell'anno successivo, pur continuando la sua relazione col Lippi.
Per questo, nel maggio 1461, entrambi furono accusati da una denuncia anonima, nella quale veniva svelata anche la nascita del figlio. Grazie ai buoni uffici di Cosimo de' Medici presso papa Pio II, il L. e la sua compagna furono sciolti dai voti e uniti legittimamente in matrimonio. (G. Milanesi, Commentario alla vita di fra Filippo Lippi, in Vasari, Le opere…, II, Firenze 1906, p. 638). Tale romanzesca vicenda amorosa espose il L. a un giudizio piuttosto severo da parte di Vasari (1568, pp. 620 s.). I due sposi nel 1465 ebbero un'altra figlia, Alessandra»[2].
Giorgio Vasari, che romanza la vicenda di Filippo Lippi, racconta altri fatti importanti della vita del pittore e innanzitutto della sua abitazione vicino alla Cappella di Santa Maria del Carmine nella quale Masolino e Masaccio dipinsero opere immortali della storia dell’arte e che furono il motivo dell’avvicinarsi del Lippi bambino e orfano alla pittura.
In secondo luogo raccontano del fatto che Lippi venne fatto schiavi dai turchi musulmani e poté essere liberato solo a motivo della sua bravura di ritrattista.
Ma soprattutto racconta come i suoi amori fossero svariati: qui certamente la leggenda si è impadronita del pittore e non è possibile seguire in tutto il Vasari come storico.
Così scrive Vasari:
Prato, Filippo Lippi, Madonna della Cintola
«VITA DI FRA’ FILIPPO LIPPI PITTORE FIORENTINO
Fra’ Filippo di Tommaso Lippi, carmelitano, il quale nacque in Fiorenza, in una contrada detta Ardiglione, sotto il canto alla Cuculia, dietro al convento de’ frati Carmelitani, per la morte di Tommaso suo padre restò povero fanciullino d’anni due, senza alcuna custodia, essendosi ancora morta la madre non molto dopo averlo partorito.
Rimaso dunque costui in governo d’una Mona Lapaccia sua zia, sorella di Tommaso suo padre, poi che l’ebbe allevato con suo disagio grandissimo, quando non potette più sostentarlo, essendo egli già di 8 anni lo fece frate nel sopra detto convento del Carmine, dove standosi, quanto era destro et ingenioso nelle azzioni di mano, tanto era nella erudizione delle lettere grosso e male atto ad imparare, onde non volle applicarvi lo ingegno mai, né averle per amiche.
Questo putto, il quale fu chiamato col nome del secolo Filippo, essendo tenuto con gl’altri in noviziato e sotto la disciplina del maestro della gramatica, pur per vedere quello che sapesse fare, in cambio di studiare non faceva mai altro che imbrattare con fantocci i libri suoi e degl’altri.
Onde il priore si risolvette a dargli ogni commodità et agio d’imparare a dipignere. Era allora nel Carmine la cappella da Masaccio nuovamente stata dipinta, la quale, perciò che bellissima era, piaceva molto a fra’ Filippo; laonde ogni giorno per suo diporto la frequentava e quivi esercitandosi del continovo in compagnia di molti giovani che sempre vi disegnavano, di gran lunga gl’altri avanzava di destrezza e di sapere, di maniera che e’ si teneva per fermo che e’ dovesse fare col tempo qualche maravigliosa cosa.
Ma negl’anni acerbi, nonché ne’ maturi, tante lodevoli opere fece che fu un miracolo. Perché di lì a poco tempo lavorò di verde terra nel chiostro vicino alla sagra di Masaccio, un papa che conferma la Regola de’ Carmelitani, et in molti luoghi in chiesa in più pareti, in fresco dipinse, e particolarmente un San Giovanni Batista et alcune storie della sua vita; e così ogni giorno facendo meglio, aveva preso la mano di Masaccio, sì che le cose sue in modo simili a quelle faceva che molti dicevano lo spirito di Masaccio era entrato nel corpo di fra’ Filippo.
Fece in un pilastro in chiesa la figura di San Marziale presso all’organo, la quale gli arrecò infinita fama, potendo stare a paragone con le cose che Masaccio aveva dipinte. Per il che sentitosi lodar tanto per il grido d’ognuno, animosamente si cavò l’abito, d’età d’anni XVII.
E trovandosi nella Marca d’Ancona, diportandosi un giorno con certi amici suoi in una barchetta per mare, furono tutti insieme dalle fuste de’ Mori, che per quei luoghi scorrevano, presi e menati in Barberia, e messo ciascuno di loro alla catena e tenuto schiavo, dove stette con molto disagio per XVIII mesi.
Ma perché un giorno, avendo egli molto in pratica il padrone, gli venne commodità e capriccio di ritrarlo, preso un carbone spento del fuoco, con quello tutto intero lo ritrasse co’ suoi abiti indosso alla moresca, in un muro bianco; onde, essendo dagli altri schiavi detto questo al padrone, perché a tutti un miracolo pareva, non s’usando il disegno né la pittura in quelle parti, ciò fu causa della sua liberazione dalla catena dove per tanto tempo era stato tenuto. Veramente è gloria di questa virtù grandissima, che uno a cui è conceduto per legge di poter condennare e punire, faccia tutto il contrario, anzi in cambio di supplicio e di morte, s’induca a far carezze e dare libertà.
Avendo poi lavorato alcune cose di colore al detto suo padrone, fu condotto sicuramente a Napoli, dove egli dipinse al re Alfonso, allora Duca di Calavria, una tavola a tempera nella cappella del castello dove oggi sta la guardia.
Appresso gli venne volontà di ritornare a Fiorenza dove dimorò alcuni mesi; e lavorò alle donne di S. Ambruogio all’altare maggiore una bellissima tavola, la quale molto grato lo fece a Cosimo de’ Medici, che per questa cagione divenne suo amicissimo.
Fece anco nel capitolo di Santa Croce una tavola, et un’altra che fu posta nella cappella in casa Medici, e dentro vi fece la Natività di Cristo; lavorò ancora per la moglie di Cosimo detto, una tavola con la medesima Natività di Cristo e San Giovanni Batista, per mettere all’ermo di Camaldoli, in una delle celle de’ romiti che ella aveva fatta fare per sua divozione, intitolata a S. Giovanni Batista; et alcune storiette che si mandarono a donare da Cosimo a Papa Eugenio IIII viniziano, laonde fra’ Filippo molta grazia di quest’opera acquistò appresso il Papa.
Dicesi ch’era tanto venereo, che vedendo donne che gli piacessero, se le poteva avere, ogni sua facultà donato le arebbe; e non potendo, per via di mezzi, ritraendole in pittura, con ragionamenti la fiamma del suo amore intiepidiva. Et era tanto perduto dietro a questo appetito, che all’opere prese da lui quando era di questo umore, poco o nulla attendeva.
Onde una volta fra l’altre, Cosimo de’ Medici, faccendoli fare una opera in casa sua, lo rinchiuse perché fuori a perder tempo non andasse, ma egli statoci già due giorni, spinto da furore amoroso, anzi bestiale, una sera con un paio di forbici fece alcune liste de’ lenzuoli del letto, e da una finestra calatosi, attese per molti giorni a’ suoi piaceri.
Onde, non lo trovando e facendone Cosimo cercare, alfine pur lo ritornò al lavoro; e da allora in poi gli diede libertà che a suo piacere andasse, pentito assai d’averlo per lo passato rinchiuso, pensando alla pazzia sua et al pericolo che poteva incorrere; per il che sempre con carezze s’ingegnò di tenerlo per l’avvenire, e così da lui fu servito con più prestezza, dicendo egli che l’eccellenze degli ingegni rari sono forme celesti e non asini vetturini.
Lavorò una tavola nella chiesa di S. Maria Primerana in su la piazza di Fiesole, dentrovi una Nostra Donna annunziata dall’Angelo, nella quale è una diligenza grandissima, e nella figura dell’Angelo tanta bellezza che e’ pare veramente cosa celeste.
Fece alle monache delle Murate due tavole, una della Annunziata, posta allo altar maggiore, l’altra nella medesima chiesa a un altare, dentrovi storie di San Benedetto e di San Bernardo, e nel palazzo della Signoria dipinse in tavola un’Annunziata sopra una porta, e similmente fece in detto palazzo un San Bernardo sopra un’altra porta, e nella sagrestia di San Spirito di Fiorenza una tavola con una Nostra Donna et Angeli d’attorno e Santi da lato, opera rara e da questi nostri maestri stata sempre tenuta in grandissima venerazione.
In S. Lorenzo, alla cappella degli Operai, lavorò una tavola con un’altra Annunziata; et a quella della Stufa, una che non è finita. In S. Apostolo di detta città, in una cappella, dipinse in tavola alcune figure intorno a una nostra Donna; et in Arezzo, a Messer Carlo Marsupini, la tavola della cappella di S. Bernardo ne’ monaci di Monte Oliveto, con la incoronazione di Nostra Donna e molti santi attorno, mantenutasi così fresca che pare fatta dalle mani di fra’ Filippo al presente. Dove dal sopra detto Messer Carlo gli fu detto che egli avvertisse alle mani che dipigneva, perché molto le sue cose erano biasimate.
Per il che fra’ Filippo nel dipignere da indi innanzi, la maggior parte, o con panni o con altra invenzione, ricoperse per fuggire il predetto biasimo. Nella quale opera ritrasse di naturale detto Messer Carlo.
Lavorò in Fiorenza alle monache di Analena una tavola d’un presepio, et in Padova si veggono ancora alcune pitture.
Mandò di sua mano a Roma due storiette di figure picciole al cardinal Barbo, le quali erano molto eccellentemente lavorate e condotte con diligenzia. E certamente egli con maravigliosa grazia lavorò, e finitissimamente unì le cose sue, per le quali sempre dagli artefici in pregio e da’ moderni maestri è stato con somma lode celebrato; et ancora mentre che l’eccellenza di tante sue fatiche la voracità del tempo terrà vive, sarà da ogni secolo avuto in venerazione.
In Prato ancora vicino a Fiorenza dove aveva alcuni parenti, in compagnia di fra’ Diamante del Carmine, stato suo compagno e novizio insieme, dimorò molti mesi lavorando per tutta la terra assai cose.
Essendogli poi, dalle monache di Santa Margherita, data a fare la tavola dell’altar maggiore, mentre vi lavorava gli venne un giorno veduta una figliuola di Francesco Buti cittadin fiorentino, la quale o in serbanza o per monaca era quivi.
Fra’ Filippo dato l’occhio alla Lucrezia, che così era il nome della fanciulla, la quale aveva bellissima grazia et aria, tanto operò con le monache che ottenne di farne un ritratto, per metterlo in una figura di Nostra Donna per l’opra loro; e con questa occasione innamoratosi maggiormente, fece poi tanto per via di mezzi e di pratiche, che egli sviò la Lucrezia da le monache e la menò via il giorno appunto ch’ella andava a vedere mostrar la cintola di Nostra Donna, onorata reliquia di quel castello.
Di che le monache molto per tal caso furono svergognate, e Francesco suo padre non fu mai più allegro e fece ogni opera per riaverla, ma ella o per paura o per altra cagione, non volle mai ritornare, anzi starsi con Filippo il quale n’ebbe un figliuol maschio, che fu chiamato Filippo egli ancora, e fu poi, come il padre, molto eccellente e famoso pittore.
In S. Domenico di detto Prato sono due tavole, et una Nostra Donna nella chiesa di S. Francesco nel tramezzo, il quale levandosi di dove prima era, per non guastarla, tagliarono il muro dove era dipinto, et allacciatolo con legni attorno lo trasportarono in una parete della chiesa dove si vede ancora oggi. E nel Ceppo di Francesco di Marco, sopra un pozzo in un cortile, è una tavoletta di man del medesimo col ritratto di detto Francesco di Marco, autore e fondatore di quella casa pia. E nella pieve di detto castello fece in una tavolina sopra la porta del fianco, salendo le scale, la morte di S. Bernardo, che rende la sanità, toccando la bara, a molti storpiati; dove sono frati che piangono il loro morto maestro, ch’è cosa mirabile a vedere le belle arie di teste, nella mestizia del pianto con arteficio e naturale similitudine contrafatte. Sonvi alcuni panni di cocolle di frati che hanno bellissime pieghe e meritano infinite lodi, per lo buon disegno, colorito, componimento e per la grazia e proporzione, che in detta opra si vede, condotta dalla delicatissima mano di fra’ Filippo.
Gli fu allogato dagli Operai della detta pieve per avere memoria di lui, la cappella dello altar maggiore di detto luogo, dove mostrò tanto del valor suo in questa opera ch’oltra la bontà e l’arteficio di essa, vi sono panni e teste mirabilissime. Fece in questo lavoro le figure maggiori del vivo, dove introdusse poi negli altri artefici moderni il modo di dar grandezza, alla maniera d’oggi. Sonvi alcune figure con abbigliamenti in quel tempo poco usati, dove cominciò a destare gli animi delle genti a uscire di quella semplicità che più tosto vecchia che antica si può nominare.
In questo lavoro sono le storie di S. Stefano, titolo di detta pieve, partite nella faccia della banda destra, cioè la disputazione, lapidazione e morte di detto protomartire; nella faccia del quale disputante contra i Giudei dimostrò tanto zelo e tanto fervore, che egli è cosa difficile ad imaginarlo nonché ad esprimerlo, e nei volti e nelle varie attitudini di essi Giudei l’odio, lo sdegno e la collera del vedersi vinto da lui; sì come più apertamente ancora fece apparire la bestialità e la rabbia in coloro che l’uccidono con le pietre, avendole afferrate chi grandi e chi piccole, con uno strignere di denti orribile, e con gesti tutti crudeli e rabbiosi. E nientedimeno, infra sì terribile assalto, S. Stefano sicurissimo e col viso levato al cielo, si dimostra con grandissima carità e fervore supplicare a l’Eterno Padre, per quegli stessi che lo uccidono. Considerazioni certo bellissime e da far conoscere altrui quanto vaglia la invenzione et il saper esprimer gl’affetti nelle pitture. Il che sì bene osservò costui, che in coloro che sotterrano S. Stefano fece attitudini sì dolenti et alcune teste sì afflitte e dirotte nel pianto, che non è a pena possibile di guardarle senza commuoversi.
Da l’altra banda fece la natività, la predica, il battesimo, la cena d’Erode, e la decollazione di S. Giovanni Batista, dove nella faccia di lui predicante, si conosce il divino spirito, e nelle turbe che ascoltano, i diversi movimenti e l’allegrezza e l’afflizione, così nelle donne come negli uomini, astratti e sospesi tutti negli ammaestramenti di S. Giovanni. Nel battesimo si riconosce la bellezza e la bontà; e nella cena di Erode, la maestà del convito, la destrezza di Erodiana, lo stupore de’ convitati e lo attristamento fuori di maniera nel presentarsi la testa tagliata dentro al bacino.
Veggonsi intorno al convito infinite figure con molto belle attitudini e ben condotte, e di panni e di arie di visi, tra i quali ritrasse allo specchio se stesso vestito di nero in abito da prelato, et il suo discepolo fra’ Diamante dove si piange S. Stefano. Et invero questa opera fu la più eccellente di tutte le cose sue, sì per le considerazioni dette di sopra, e sì per aver fatto le figure alquanto maggiori che il vivo; il che dette animo a chi venne dopo lui di ringrandire la maniera.
Fu tanto per le sue buone qualità stimato, che molte cose che di biasimo erano alla vita sua, furono ricoperte mediante il grado di tanta virtù. Ritrasse in questa opera Messer Carlo figlio naturale di Cosimo de’ Medici, il quale era allora proposto di quella chiesa, la quale fu da lui e dalla sua casa molto beneficata.
Finita che ebbe quest’opera l’anno 1463, dipinse a tempera una tavola per la chiesa di S. Iacopo di Pistoia, dentrovi una Nunziata molto bella per Messer Iacopo Bellucci, il qual vi ritrasse di naturale molto vivamente. In casa di Pulidoro Bracciolini è in un quadro una Natività di Nostra Donna di sua mano; e nel magistrato degl’Otto di Firenze è, in un mezzo tondo dipinto a tempera, una Nostra Donna col Figliuolo in braccio. In casa Lodovico Caponi in un altro quadro una Nostra Donna bellissima; et appresso di Bernardo Vecchietto gentiluomo fiorentino, e tanto virtuoso e da bene quanto più non saperei dire, è di mano del medesimo in un quadretto piccolo un S. Agostino che studia, bellissimo. Ma molto meglio è un S. Ieronimo in penitenzia, della medesima grandezza in guardaroba del duca Cosimo.
E se fra’ Filippo fu raro in tutte le sue pitture, nelle piccole superò se stesso, perché le fece tanto graziose e belle, che non si può far meglio, come si può vedere nelle predelle di tutte le tavole che fece.
Insomma fu egli tale che ne’ tempi suoi niuno lo trapassò, e ne’ nostri, pochi; e Michelagnolo l’ha non pur celebrato sempre, ma imitato in molte cose.
Fece ancora per la chiesa di S. Domenico vecchio di Perugia, che poi è stata posta all’altar maggiore, una tavola, dentrovi la Nostra Donna, S. Piero, S. Paulo, S. Lodovico e S. Antonio abbate. Messer Alessandro degl’Alessandri, allora cavaliere et amico suo, gli fece fare per la sua chiesa di Villa a Vincigliata nel poggio di Fiesole, in una tavola, un S. Lorenzo et altri Santi, ritraendovi lui e dua suoi figliuoli.
Fu fra’ Filippo molto amico delle persone allegre e sempre lietamente visse. A fra’ Diamante fece imparare l’arte della pittura, il quale nel Carmino di Prato lavorò molte pitture, e della maniera sua imitandola, assai si fece onore, perché e’ venne a ottima perfezzione.
Stette con fra’ Filippo in sua gioventù Sandro Boticello, Pisello, Iacopo del Sellaio fiorentino, che in S. Friano fece due tavole et una nel Carmino lavorata a tempera, et infiniti altri maestri ai quali sempre con amorevolezza insegnò l’arte.
De le fatiche sue visse onoratamente, e straordinariamente spese nelle cose d’amore; delle quali del continuo, mentre che visse, fino a la morte si dilettò.
Fu richiesto, per via di Cosimo de’ Medici, dalla comunità di Spoleti di fare la cappella nella chiesa principale della Nostra Donna, la quale lavorando insieme con fra’ Diamante condusse a bonissimo termine, ma sopravenuto dalla morte non la potette finire. Perciò che dicono che essendo egli tanto inclinato a questi suoi beati amori, alcuni parenti della donna da lui amata lo fecero avvelenare.
Finì il corso della vita sua fra’ Filippo di età d’anni 57 nel 1438, et a fra’ Diamante lasciò in governo per testamento Filippo suo figliuolo, il quale, fanciullo di dieci anni, imparando l’arte da fra’ Diamante, seco se ne tornò a Fiorenza, portandosene fra’ Diamante 300 ducati che per l’opera fatta si restavano ad avere da le comunità, de’ quali comperati alcuni beni per sé proprio, poca parte fece al fanciullo.
Fu acconcio Filippo con Sandro Botticello, tenuto allora maestro bonissimo; et il vecchio fu sotterrato in un sepolcro di marmo rosso e bianco, fatto porre dagli Spoletini nella chiesa che e’ dipigneva. Dolse la morte sua a molti amici et a Cosimo de’ Medici particolarmente et a papa Eugenio, il quale in vita sua volle dispensarlo, che potesse avere per sua donna legitima la Lucrezia di Francesco Buti, la quale per potere far di sé e dell’appetito suo come gli paresse, non si volse curare d’avere.
Mentre che Sisto IIII viveva, Lorenzo de’ Medici, fatto ambasciator da’ Fiorentini, fece la via di Spoleti, per chiedere a quella comunità il corpo di fra’ Filippo per metterlo in S. Maria del Fiore in Fiorenza; ma gli fu risposto da loro che essi avevano carestia d’ornamento, e massimamente d’uomini eccellenti, per che per onorarsi gliel domandarono in grazia, aggiugnendo che avendo in Fiorenza infiniti uomini famosi, e quasi di superchio, che e’ volesse fare senza questo, e così non l’ebbe altrimenti.
Bene è vero che deliberatosi poi di onorarlo in quel miglior modo ch’e’ poteva, mandò Filippino suo figliuolo a Roma al cardinale di Napoli, per fargli una cappella. Il quale passando da Spoleti, per commessione di Lorenzo, fece fargli una sepoltura di marmo sotto l’organo e sopra la sagrestia, dove spese cento ducati d’oro, i quali pagò Nofri Tornaboni maestro del banco de’ Medici, e da Messer Agnolo Poliziano gli fece fare il presente epigramma, intagliato in detta sepoltura di lettere antiche:
Conditus hic ego sum picturae fama Philippus; nulli ignota meae est gratia mira manus. Artifices potui digitis animare colores; sperataque animos fallere voce diu. Ipsa meis stupuit natura expressa figuris; meque suis fassa est artibus esse parem. Marmoreo tumulo Medices Laurentius hic me condidit; ante humili pulvere tectus eram.
Disegnò fra’ Filippo benissimo, come si può vedere nel nostro libro di disegni de’ più famosi dipintori, e particolarmente in alcune carte, dove è disegnata la tavola di S. Spirito et in altre dove è la cappella di Prato.
FINE DELLA VITA DI FRA’ FILIPPO PITTORE FIORENTINO»[3].
Note al testo
[1] Dalla voce LIPPI, Filippino, di Enrico Parlato, in Dizionario Biografico degli Italiani Treccani - Volume 65 (2005), disponibile on-line.
[2] Dalla voce LIPPI, Filippo, di Luca Bortolotti, in Dizionario Biografico degli Italiani Treccani - Volume 65 (2005), disponibile on-line.
[3] Giorgio Vasari, Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri (1568), disponibile on-line e nell'edizione per i tipi di Giunti – Firenze, 1568, Newton Compton Editori, 1997.