Dell’importanza di non confondere i giovani lavoratori con gli universitari: di una questione importante di teologia pastorale e di impostazione di vita parrocchiale, di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Giovani e Teologia pastorale.
Il Centro culturale Gli scritti (25/12/2022)
In occasione del Sinodo dei giovani, papa Francesco ha voluto che l’età giovanile venisse caratterizzata come il periodo fino al raggiungimento dei 29 anni d’età: dopo quell’età non si è più giovani.
È questa prospettiva che mantiene vivo il desiderio di diventare adulti, di crescere e di assumersi responsabilità civili e vocazionali nel matrimonio o nel sacerdozio e nella vita religiosa.
La mia prima esperienza come vice-parroco è stata lunga, quasi nove anni nella stessa parrocchia, e mi ha permesso di vedere come cambiano i giovani in nove anni di vita non solo parrocchiale, ma ancor più personale, di studio, lavorativa, affettiva. È stato bellissimo vedere che alcuni, che avevo conosciuto da studenti dell’ultimo anno delle superiori, in nove anni si sono sposati e hanno avuto il primo figlio.
Nove anni vogliono dire che chi hai conosciuto a 18 anni, lo vedi ora a 27.
Chi hai visto a 23 lo vedi ora a 32 anni.
E chi aveva 28 anni ora ne ha 37.
37 anni sono quell’età che viene chiamata “orologio biologico”, perché fa scattare nelle donne la consapevolezza che è la stagione nella quale si deve ormai decidere se diventare madri o rinunciarvi per sempre.
Lì ho imparato che è problematico continuare a chiamare “universitario” chi non lo è più. Ho imparato che crea problemi continuare a proporre a giovani lavoratori ritmi di incontri e appuntamenti che erano, invece, da universitario.
È problematico perché crea dipendenza – ad esempio impiegando giovani lavoratori in troppi appuntamenti, mentre essi hanno orari esigenti di lavoro e pochissimo tempo libero.
Ma potrebbe creare anche rifiuto e rifiuto giustificato se la proposta non è adatta a loro, se li si tratta ancora come persone in formazione e non come adulti.
Inoltre, se così si facesse, diventerebbe impossibile mostrare a chi è ancora universitario che quel periodo avrà un termine e soprattutto uno sbocco: l’età universitaria porta un giorno finalmente al lavoro e alla costruzione di un matrimonio.
Se si persevera nel confondere gli universitari con i giovani lavoratori, si nasconde in fondo la vita vera e propria del laico che è caratterizzata non tanto da una presenza in parrocchia, quanto dalla scoperta della dignità della vita lavorativa e della vita affettiva. Questo è il laico cristiano: colui che va a Dio “nelle cose e con le cose” – nella felice espressione medioevale di Giovanni Taulero.
Anche oggi in parrocchia sto sperimentando la bontà del fatto che il passaggio da universitario a giovane lavoratore deve essere segnato da un’evoluzione non solo terminologica, ma anche di modalità di vita di gruppo.
Il passaggio può e deve essere graduale e progressivo, ma deve avvenire. Quando è stato creato il gruppo dei giovani lavoratori, lo si è visto all’inizio in parallelo con quelli degli universitari. Chi diveniva giovane lavoratore si incontrava alla stessa ora e con gli stessi ritmi degli altri che ancora studiavano. La riunione a due gruppi iniziava con un’introduzione comune, cui seguiva poi una suddivisione degli uni e degli altri. Questo ha permesso di far sentire a tutti – universitari e giovani lavoratori - di essere un’unica comunità, ma anche di affrontare la proposta di fede in modo diversa a seconda dell’età e dei problemi – perché un giovane lavoratore ha bisogno di formarsi proprio come lavoratore e un universitario proprio come universitario.
Si è passati poi ad una separazione più netta, di modo che le riunioni dei giovani lavoratori non si svolgono più alla sera di un giorno feriale, ma di sabato o di domenica, permettendo anche a chi si era trasferito per lavoro fuori Roma di partecipare ad incontri in forma di ritiro o di “convivenza”, più diradati nel tempo, ma più lunghi.
L’attenzione peculiare al mondo del lavoro si è declinata anche nella proposta di invitare nuovi colleghi del mondo del lavoro a tali incontri: formarsi, ma formarsi insieme a nuovi amici conosciuti proprio sul posto di lavoro.
La differenziazione non significa dire, però, estraneità. Alcuni incontri saranno nuovamente comuni ad universitari e giovani lavoratori – ad esempio il ritiro di due giorni di Quaresima – di modo che le due età possano scambiarsi esperienze e darsi testimonianza l’un l’altra. Ma ciò avvererà a partire dalla costruzione di una nuova identità personale e di gruppo, proprio perché per chi lavora si è aperto ormai pienamente l’età dell’impegno nel mondo del lavoro e della famiglia. Proprio questa apertura alla nuova prospettiva di vita invoglia gli universitari a crescere per raggiungere la condizione propria di chi lavora e si sposa.
In questa lenta evoluzione da gruppo di universitari a gruppo di giovani lavoratori servono creatività e comprensione dei tempi delle diverse età – così come serve attenzione ai trasferimenti di luogo, perché diversi giovani lavoratori possono essere costretti a trasferirsi in altre città per lavoro o per costruire le loro nuove famiglie.
Serve al contempo, mantenere viva la prospettiva del servizio che va anche qui modulata a seconda delle situazioni personali. Lo scoutismo ha elaborato, ad esempio, un’interessante distinzione fra servizio associativo e servizio extra-associativo, per indicare che lo spirito del servizio può essere portato, dopo la “partenza”, anche in realtà diverse da quelle della comunità.
Non è detto che, ad esempio, una giovane infermiera o una dottoressa che lavorasse tutta la settimana in ospedale debba necessariamente continuare a fare servizio in una mensa Caritas come prima, ma si potrebbe ipotizzare un diverso servizio: mons. Di Liegro amava ripetere che ogni professionista avrebbe dovuto offrire un’ora a settimana della propria competenza professione, per metterla a servizio di chi avesse bisogno e non potesse pagare.
Spiegava, così, che se qualcuno era dentista, doveva mettersi a disposizione per curare i denti gratis un’ora a settimana nel proprio studio, aiutando così una persona che non poteva permettersi la cura. Allo stesso modo voleva che un avvocato potesse prendersi a cuore almeno un cliente a settimana che non avesse i soldi per pagarsi un difensore, mettendo così la propria professionalità a servizio.
Insomma, è bene che sia la terminologia, sia le modalità di vita di un gruppo, cambino quando avviene il passaggio da universitari a giovani lavoratori, perché quei giovani sono ormai maturi: se li si trattasse ancora da universitari, questo vorrebbe dire misconoscere la loro vita.
Non si deve poi dimenticare che una questione analoga vale per gli anziani. Buffa è la terminologia di “adultissimi” che si è creata da parte di alcuni: “adultissimi” sarebbero gli adulti diventati anziani, quasi che sia disdicevole dichiarare che ad una certa età una persona è vecchia. “Vecchio” è, invece, un termine nobilissimo.
Io, ad esempio, lo sono, avendo compiuto già 62 anni. Sarebbe assurdo chiamarmi “adultissimo”! La consapevolezza della mia condizione mi mette, invece, nella giusta prospettiva per comprendere la vita. La persona anziana ha la ricchezza dell’esperienza del consiglio, mentre ha meno forza e vigore.
P.S. La comprensione dell’evoluzione di un gruppo giovanile, man mano che ci si avvicina al lavoro e al matrimonio, iniziai a maturarla, come già detto, fin dalla mia prima esperienza di vice-parroco: tale sguardo traspare da queste due vecchie lettere che scrissi allora, per spiegare ai giovani il cambiamento che andava avvenendo in loro e nella loro vita di gruppo e che andava letto nella fede: Due lettere sul cammino di un gruppo giovanile in parrocchia, di don Andrea Lonardo.