Domenico Fontana, l’architetto della traslazione dell’obelisco Vaticano e degli altri obelischi romani, del Palazzo Lateranense, della Cappella Sistina in Santa Maria Maggiore 1/ Domenico Fontana, le «invenzioni di tante opere». Una storia di storie, di Letizia Tedeschi 2/ Comunicato Stampa di presentazione della mostra Le “invenzioni di tante opere”. Domenico Fontana (1543-1607) e i suoi cantieri 3/ Le «invenzioni di tante opere»: la ricerca dell'Archivio del Moderno su Domenico Fontana si fa mostra
1/ Domenico Fontana, le «invenzioni di tante opere». Una storia di storie, di Letizia Tedeschi
Riprendiamo dal sito dello STUDIO ESSECI lo studio introduttorio del catalogo della mostra Le “invenzioni di tante opere”. Domenico Fontana (1543-1607) e i suoi cantieri, curata da Letizia Tedeschi (https://studioesseci.net/mostre/le-invenzioni-di-tante-opere-domenico-fontana-1543-1607-e-i-suoi-cantieri/). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (11/12/2022)
Perché una pluralità di contributi che privilegia il fronte artistico e non già quello architettonico in merito a Domenico Fontana (Melide 1543-Napoli 1607)? Sul suo conto è ancora attuale quanto ebbe a dichiarare nel 2011 Christof Thoenes, rilevando come, in opposizione all’esempio michelangiolesco, Fontana si distaccava dall’idea che «il massimo artista era di per sé anche il massimo architetto»[1].
Sennonché, «la sua carriera da costruttore, “muratore” secondo alcuni, lombardo-ticinese a primo architetto della corte papale e poi della corte vicereale a Napoli, sembra indicare una crisi dell’estetica rinascimentale; e sembra un fatto tutt’altro che casuale, se durante il quinquennio di Sisto V a Roma non nacquero opere d’arte figurativa di un certo rilievo, né architetture di un particolare significato artistico».
Al tempo stesso, ogniqualvolta affrontiamo questo autore si deve prendere atto che, come scritto da Thoenes, vi è un vuoto da colmare: «Che cosa sappiamo dell’umanità, del carattere, della vita interiore di Domenico Fontana? Ben poco, […] Percepiamo il contorno di un personaggio assai imponente, ma pochi particolari che lo riempiano di sostanza vitale»[2].
Anni addietro un testo a firma di Paolo Portoghesi, nel chiudere l’introduzione all’edizione in facsimile della Trasportatione dell’obelisco Vaticano[3], riconosceva a quest’impresa cartacea una «grande importanza anche per affrontare il problema della valutazione dell’opera architettonica di Domenico Fontana»[4].
Avvertiva che Fontana è stato “misurato” attraverso un metro comparativo rivolto ai contemporanei «che agivano in funzione di obbiettivi radicalmente diversi» e questo lo ha danneggiato. «L’identità dell’opera fontaniana emerge invece – sosteneva Portoghesi – quando […] si riflette sulle sue caratteristiche interne».
Una prima risposta alle ragioni del nostro volume è data. Se Fontana si interessa solo della grande scala, «del valore di relazione dell’oggetto architettonico rispetto allo spazio urbano, trascurandone [sovente] la definizione plastica» emerge con tutta evidenza la singolarità dei suoi apparati ornativi che sembrano orientati altrimenti e inoltre si manifesta pure «lo sfasamento tra la cultura pragmatica del Fontana e quella degli architetti suoi contemporanei [che] era un prodotto del salto di scala da lui operato passando da un ordine di problemi a un altro».
Secondo questo autore il problema di Fontana «è quello della forma della città». Tanto è vero che: «Il papa e il suo architetto si adoperano per dotare la città [di Roma] di una serie di funzioni collettive: le infrastrutture anzitutto, ma anche i luoghi simbolici del potere, le funzioni produttive e commerciali; i palazzi pontifici e le basiliche».
Perciò il suo linguaggio è «elementare» e badando poi a «effetti ideogrammatici adatti a identificare l’edificio anche nella veduta a distanza». Progetta «a vantaggio di una chiarezza additiva che porta, nel caso del palazzo pontificio del Laterano, a sovrapporre piani di uguale altezza e, nella loggia delle Benedizioni, a sovrapporre loggiati analoghi, salvando gli antichi campanili come un segno palese di identità».
Perciò nella Trasportatione le descrizioni si focalizzano sul modo di concepire l’architettura e ne esaltano «le sue parti attraverso i tipi».
Cosa che si riverbera pure nel palazzo Reale di Napoli, seppure a suo modo distaccato da ogni pregresso tornando a recuperare istanze più consone al lessico classico e ciò consentirà agli architetti del Seicento di ricercare una qualità dell’architettura non più nelle invenzioni figurative e distributive, tettoniche e plastiche, tipologiche e morfologiche, quanto all’interno di «una rinnovata qualità dell’ambiente urbano»[5].
Nel 2011, intervenendo in una pubblicazione che segnava un avanzamento degli studi, Francesco Paolo Fiore si riallacciava a queste problematiche venendo a osservare che la ricerca contemporanea ha stabilito la novità di Domenico nella «visione policentrica» del suo costruito[6].
Un costruito riscontrabile già nella collocazione e configurazione della villa Montalto; mettendo poi in discussione le scelte linguistiche di Fontana, rispondenti a quella che Bruschi, nel 2000, delinea come caratteristica dell’architettura di fine Cinquecento: una lingua «fortemente uniformata nella sua accentuata convenzionalità ma capace di adattarsi duttilmente ad esprimere volta a volta l’esteriore “magnificenza”»[7].
Con il che ogni richiamo vitruviano, anche «un possibile riferimento alle indicazioni del Vignola sembra sostituito [nella villa Montalto] dalla sovrapposizione delle paraste a fasce lisce e appena rilevate sul fondo così come nei palazzi dei Conservatori e Senatorio di Michelangelo in Campidoglio […]. Tuttavia appare sin da questa prima occasione la diversità di trattamento delle facciate» che in questi termini vengono riprese dall’architetto in più occasioni. Più interessante è «L’articolazione degli ordini che ritmano il volume della Cappella Sistina», il cui piano di calpestio propone paraste corinzie all’antica corrispondenti tra esterno e interno. Egualmente si possono segnalare i capitelli richiamanti la soluzione dei pilastri della cappella Sforza di Michelangelo, come pure il ricorso a modelli quali la facciata di palazzo Maccarani di Giulio Romano o al tamburo del tempietto di San Pietro in Montorio filtrato attraverso la chiesa della Madonna dei Monti di Giacomo Della Porta, e così si può meglio stabilire l’orizzonte delle referenze a cui Fontana guarda con maggiore insistenza.
Com’è attestato pure dal ricorso per le edicole delle finestre della stessa Cappella al Michelangelo della biblioteca Laurenziana a Firenze[8]. Altrove, è stato rilevato, si può cogliere una ulteriore suggestione, derivante però da palazzo Farnese o dalle paraste giganti delle pareti esterne di San Pietro, cosa che potrebbe suggerire un ampio asterisco in riferimento a questo cantiere.
Dunque il nostro architetto si riferisce in più modi e con insistenza alla problematica architettura del Buonarroti, non senza metabolizzarne l’esempio fino a trasfigurarlo in altro da sé. Tutto concorre allora a identificare la cultura architettonica fontaniana e al tempo stesso a identificarne l’originale elaborazione che viene proposta in termini più decisi, per esempio, nella mostra dell’Acqua Felice, di contro ai riferimenti michelangioleschi a cui Fontana affida la soluzione del monumento sepolcrale di Sisto V[9].
E ancora, la singolare soluzione contro cui si scaglierà il Milizia del fregio dorico della Scala Santa, dove appaiono metope eccentriche, «lunghe un miglio» secondo Milizia, ripetute nel cortile del palazzo del Laterano in palese competizione con il volume di palazzo Farnese. Edicole delle finestre, portali, dettagli del palazzo Lateranense che vengono raffigurati nelle tavole della Trasportatione, a tutta pagina, proponendo un inventario analitico del costruito financo nei particolari più minuti, a riprova della consapevolezza con cui opera il Fontana.
Si realizza secondo tali licenze anche il serto murario esterno del nuovo imponente palazzo Vaticano. Pertanto, “sedente” sul soglio pontificio, dal 1585 al 1590, papa Sisto V Peretti Montalto, Domenco Fontana può agire in piena libertà e discostarsi audacemente dal lessico classico e dai modelli pregressi.
Cosa che non si ripeterà a Napoli dove lo stesso palazzo Reale, rispetto ai palazzi romani del Laterano e del Vaticano, rappresenta «un ritorno verso una più aulica regolarità»[10].
Si direbbe allora uno stile ora canonico, ora anarchico, palesato «soprattutto nell’accostamento brusco di troppo diversi registri linguistici che pure costituiscono il principale e più originale carattere di molte delle sue architetture»[11].
Vi può essere, in quest’ultimo rilievo, un’assonanza con Portoghesi allorquando questi sostiene che non pochi ricorsi classici potrebbero essere una «conseguenza della pratica di stuccatore esercitata nella giovinezza dal Fontana»[12], e comunque, allargando l’inquadratura prospettica fino a comprendere la gran parte delle imprese fontaniane, segnale d’una libertà linguistica non priva di cultura architettonica. A voler smentire i denigratori, possiamo rilevare ulteriori testimonianze di una insospettabile duttilità e ricchezza di prelievi filtrati o di rimembranze sommesse non solo verso l’eredità cinquecentesca veicolata dalla generazione che precede, ma anche da ritorni all’antico che sottintendono una competenza e un qualche vezzo archeologico nel nostro.
Si possono spiegare in questa chiave le edificazioni che sfruttano il preesistente, gli interventi che vitalizzano l’antico restituendolo alla contemporaneità, inglobandolo nelle proprie fabbriche, com’è rilevato da Paolo Violini e Paola Carla Verde in questo volume.
Al tempo stesso, ciò può forse giustificare le sgrammaticature e le contraddizioni che abitano il costruito? Può motivarne anche il disinteresse formale che pur tuttavia assorbe strumentalmente quanto si è sin qui ricostruito e ciò finisce per giustificare ancor meglio il ricorso deliberato – e in controtendenza rispetto ai concorrenti – a moduli precostituiti, «nell’insistenza cioè sul tipico in antitesi con l’individuale»[13], entro cui Fontana compie le sue performance che, certo, domandano un approccio analitico.
Se in parte ciò è vero veniamo dunque ad allinearci a Portoghesi laddove questi viene ad affermare che l’opera architettonica di Fontana si propone «d’una correttezza sempre in bilico tra eleganza e ovvietà»[14].
Nondimeno, fragilità e incongruenze a parte, il dato storico lo comprova: egli è di fatto e di diritto un protagonista della crisi architettonica che riguarda lo scadere del XVI secolo.
Gli interni ripropongono a loro modo tutto questo e al contempo se ne distaccano in più occasioni, manifestando a tratti una lacerazione verso il costruito, dovuta talvolta a una insistita ricerca di uno scarto percettivo, tal altra piuttosto una compiuta continuità con quello che lascia intendere l’architettura involucrante. Maturano tali istanze nel corso degli anni romani, “anni ruggenti” per il nostro architetto che corrispondo ai cinque anni del papato sistino.
Anche se in merito non mancano, al contrario, studi specifici ripresi con rinnovato slancio in anni recenti[15], è stato rilevato nel corso della revisione storiografica che ha preceduto questa iniziativa editoriale il venir meno di un’inquadratura prospettica che affrontasse nelle sue varie componenti il portato del cantiere decorativo non mai considerato in un’apertura grand’angolare implicante gli apparati ornativi, scultorei e pittorici affrontati qui nei saggi di Patrizia Tosini, Serena Quagliaroli e Giulia Spoltore, Emmanuel Lamouche, Sante Guido, Mauro Vincenzo Fontana; apparati che costituiscono il contraltare ineludibile rispetto alle insistite ovvietà richiamate dall’impiego di segmenti tipologici precostituiti, che incentivano un linguaggio spoglio o che cerca la semplificazione, venendo a determinare nei riguardi del costruito le ricorrenti riserve tuttora agite dalla critica.
Dare la ribalta all’apparato decorativo, far dialogare i due cantieri, quello involucrante del costruito e quello complementare dell’ornato lasciando vedere in quali termini essi si incontrano, si allontanano e si avvicinano tra loro in un susseguirsi di relazioni sinergiche, può consentire di determinare nuove conoscenze e forse una nuova narrazione; una narrazione che tenti di delineare, da questa inquadratura meno esplorata, una più puntuale valutazione del lascito di Domenico Fontana.
Parimenti si viene a ricalcare la via tracciata dal suo primo biografo romano, Giovanni Baglione, sul conto del quale è in corso di stampa una nuova edizione delle Vite a cura di Barbara Agosti e Patrizia Tosini, a cui poter fare esplicito riferimento.
Scrivendone nel 1642[16], ma attingendo egualmente ai ricordi personali per aver esordito, giovanissimo, in età sistina e aver lavorato nei cantieri fontaniani, egli ricordava: «Venne [Domenico] in età giovanile a Roma, et essercitossi a lavorare di stucchi», per aggiungere: «e ne divenne buon maestro» prima di farsi architetto, in linea con una tradizione familiare («et avendo la prattica della fabrica, riuscì in breve buono architetto»).
Ancora Baglione, dopo aver ricordato che Sisto V «al Fontana diede la carica di architettore principale di tutte le fabriche che far si dovevano in quel pontificato», gli affidò come suo primo incarico ufficiale il trasporto in piazza San Pietro della gran guglia egizia che fu, dunque, per volontà del papa: «la prima opera, alla quale mettesse mano».
Un’impresa in cui «Il cavaliere vi fece grandissima diligenza» e, insiste Baglione, «con castelli che haverebbono alzata una cupola per grande, che ella fusse stata, finalmente dal primo sito l’alzò, la calò, la condusse, e nel luogo dove oggi si ammira, la rialzò, e mise in opera»[17].
Negli interventi di Fontana si presenta pure, come attesta lo studio del riuso del castello – impegnato nella traslazione degli altri obelischi, quei bersagli visivi che orientano le prospettive urbane ed esaltano l’incompiuto progetto di riordino topografico voluto da Sisto V – determinante una apprezzabile economia, la testimonianza delle notevoli capacità organizzative a cui viene attribuita la sua stessa affermazione.
Forse le cose non stanno esattamente così anche se egli manifesta una preziosa capacità applicativa degli avanzamenti tecnici di quel tempo che, sul fronte architettonico, si traducono, come ha osservato anche Antonio Becchi[18], in un’affermazione di macchinismi stupefacenti derivanti dall’evoluzione dell’ingegneria meccanica, una scienza che propone all’altezza di queste date un mutato abito mentale, altri e nuovi saperi.
L’attenzione va posta innanzi tutto sull’importanza dei materiali impiegati caso dopo caso dall’impresa fontaniana a cui si aggregano, attraverso molteplici vincoli contrattuali, altre imprese fino a coinvolgere una schiera di maestranze specializzate. Queste nel tempo del soggiorno romano vengono orchestrate dall’alto poiché tutto converge sullo stesso Domenico, mentre invece nel tempo napoletano si ha un orientamento orizzontale che consente la condivisione degli stessi ruoli direttivi. In più occasioni la critica ha sollevato sia le implicazioni tecniche e tecnologiche, sia le questioni legate a vario titolo alle problematiche richiamate dall’uso di materiali selezionati, dal reimpiego, dall’enfatizzazione degli ornamenti implicanti a loro volta elementi di tradizione e nuovi, e il coinvolgimento di maestranze specializzate e condotte da figure professionali qualificate.
Portoghesi viene a dire dell’assoluta rilevanza che lo stesso Fontana conferisce alla capacità di leggere il dato materiale del costruito. Insistendo nel voler sottolineare il primato della pratica (di cui Fontana argomenta nella Trasportatione) si dovrà tuttavia aggiungere che, in questo, il nostro architetto si distacca dalla tradizione artigianale finendo per far assumere alla materia, allo stesso radicarsi del cantiere architettonico e alle attività artigianali connesse un altro statuto affinché possa farsi così complemento attivo dell’invenzione; una invenzione che in Domenico Fontana è all’unisono tecnica e materiale, ideale e simbolica, formale e funzionale, economica e progettuale, giacché insorgente dalle pratiche di cantiere.
Pratiche che comprendono l’apparato ornativo, il complesso complemento decorativo. Questo suo affidamento sugli ornamenti a che si imponga, penetrando nelle singole fabbriche, una percezione inaspettata, generatrice di un programmato stupore, se nel costruito sembra prefigurare l’immediato domani, la proposta “barocca”, nel libro viene espunto a favore di una più nitida esposizione del dato architettonico, affrontato da Maria Felicia Nicoletti.
Omissioni e manipolazioni testuali, rivolte sia ai testi scritti sia ai testi figurati, guadagnano nella Trasportatione una posizione rilevante e converrà domandarsene i perché. Si possono registrare di primo acchito come appannaggio della strategia di comunicazione giostrata tra chiarezza e sobrietà.
L’esigenza, per adottare una raccomandazione di Giovanni Previtali[19] sempre attuale, di avanzamenti conoscitivi in grado di proporre acquisizioni «leggibili, filologicamente corrette», a cui pervenire «con tutti i mezzi a disposizione» induce a richiamare, al di là delle «coordinate storiche al di fuori delle quali [molto] è destinato a rimanere […] largamente incomprensibile», proprio il fronte editoriale attraverso cui si legge l’opera fontaniana qual è stata vista e idealizzata (aggiustata e ricomposta com’è in un costume da parata) dallo stesso Fontana.
La visione d’assieme – a cui concorrono tutti i saggi del libro – consente dunque di ridisegnare la mappa delle relazioni costituita dal Fontana nel costruire e avviare una macchina operativa efficiente che vede implicate maestranze diverse, impegnate in loco anche simultaneamente, ovvero attive nello stesso tempo in più cantieri, grazie a una regia perfetta e una concezione progettuale di nuovo conio, finendo con il ricomporre un quadro storico più articolato, come delinea Nicoletta Marconi, senza temere per questo l’accusa di tessere una tela troppo complessa dal momento che si è passati da una storia alle storie: una evoluzione che, scrive Orietta Rossi Pinelli, soggiace a «una liquidità di frontiere disciplinari che ha interagito con la storia dell’arte»[20].
Comprovata peraltro dallo strappo che si compie tra le “maniere” impostesi nel corso del XVI secolo e ciò che va caratterizzando il suo ultimo tempo e si rivolge già al futuro prossimo. Il contributo della tecnica declinata dal Fontana (ma dovrei dire, dai Fontana come insegna Nicola Navone) in quel macchinismo che Domenico sfoggia nei propri cantieri ed esalta nel suo libro viene a segnare profondamente l’affermazione di un rivolgimento a cui parteciperà lo stesso Maderno, ma che è già in atto, o più precisamente va prefigurando in quest’intorno di anni il suo stesso avvento dando così la stura all’età cosiddetta “barocca”.
E tuttavia occorre tornare a considerarne tutte le ricadute, ogni possibile sfumatura anche quando si è in procinto di abbandonare il problematico tempo di mezzo che salda e divide i due secoli accompagnando l’ascesa e l’affermazione del nostro Domenico Fontana, l’età della “maniera”, per dirla con Vasari, per predisporsi ad affrontare il nuovo secolo.
L’incontro e lo scontro tra i due mondi, quello che avviene in questo preciso frangente impone un ripensamento proprio in merito a ciò che divide e unisce i due secoli, quest’età della “maniera” giunta al tramonto, dalla “barocca” che sorge. Tanto più che l’agire fontaniano non può certo dirsi accidentale o passivo, bensì consapevole. Un agire condizionante lo stesso portato progettuale, il “come pensa” l’architettura Domenico Fontana, lasciando trasparire l’abito mentale del nostro.
Per darne contezza basterà ricordare l’attività comune spesa da bronzisti, doratori, stuccatori, pittori, mastri di muro, su cui graverà a breve, all’altezza del primo decennio del Seicento, la voce di Galileo che va rivendicando come mai prima di lui una rilevanza cruciale della tecnica tradotta in filosofia sperimentale, adiuvante la scienza ch’egli ha fondato.
Ma prim’ancora dobbiamo sforzarci di captare il clima in cui opera Fontana per ridisegnarne le coordinate. Conviene stabilire in quali termini proprio questa inferenza tecnico-scientifica venisse percepita una manciata di anni prima, negli anni della sua affermazione. In gioco vi è già l’incontro-scontro tra il dogmatismo di tradizione, rafforzato sotto Sisto V dall’imposizione di un programma edificante volto a arginare e combattere le defezioni e le criticità che assediano e fiaccano la Chiesa di Roma, e l’emergere di una nuova impostazione concettuale e comportamentale immaginata, pensata, promossa e poco a poco realizzata attraverso un fascio di vettori tra cui spicca appunto l’affermazione della tecnica ridefinita e rimodellata dalle nuove argomentazioni radicate su una nuova epistemologia.
2/ Comunicato Stampa di presentazione della mostra Le “invenzioni di tante opere”. Domenico Fontana (1543-1607) e i suoi cantieri
Riprendiamo dal sito dello STUDIO ESSECI il Comunicato stampa di presentazione della mostra Le “invenzioni di tante opere”. Domenico Fontana (1543-1607) e i suoi cantieri, curata da Letizia Tedeschi (https://studioesseci.net/mostre/le-invenzioni-di-tante-opere-domenico-fontana-1543-1607-e-i-suoi-cantieri/). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (11/12/2022)
Nell’immaginario collettivo Domenico Fontana è associato all’impresa del trasporto e dell’elevazione dell’obelisco Vaticano e alle trasformazioni apportate al tessuto urbano di Roma attraverso l’apertura di nuovi assi viari. La mostra Le “invenzioni di tante opere”. Domenico Fontana (1543-1607) e i suoi cantieri, promossa dalla Pinacoteca Cantonale Giovanni Züst di Rancate (Mendrisio, Cantone Ticino, Svizzera) e dall’Archivio del Moderno dell’Università della Svizzera italiana, in partenariato con i Musei Vaticani, e con il patrocinio della Biblioteca Apostolica Vaticana e della Fondazione della Guardia Svizzera Pontificia del Vaticano, si propone invece di osservare l’opera dell’architetto di Melide da un’altra angolazione, mettendone in luce il dialogo con i numerosi artisti e artigiani che collaborarono alla realizzazione dei grandi cantieri da lui progettati e diretti, tra Roma, Napoli, Amalfi e Salerno.
Curata da Nicola Navone, Letizia Tedeschi (Università della Svizzera italiana-Archivio del Moderno) e Patrizia Tosini (Università Roma Tre), e aperta al pubblico dal 27 novembre 2022 al 19 febbraio 2023, la mostra intende infatti mettere in luce le dinamiche attraverso cui, nelle opere più prestigiose di Domenico Fontana, di committenza papale e reale, l’opera delle botteghe artistiche di pittori, scultori, bronzisti, stuccatori, indoratori e incisori si sovrappone e si integra al lavoro di muratori, vetrai, stagnai e fabbri. Si ha così modo di vivere, in mostra, l’esperienza dei grandi cantieri artistici della Roma papale di fine Cinquecento e della Napoli vicereale del decennio successivo, attraverso la presenza di rilevanti opere d’arte di pittori quali il Cavalier D’Arpino, Cesare Nebbia, Giovanni Guerra, Paul Bril, Andrea Lilio, Ferraù Fenzoni, Giovanni Balducci, Belisario Corenzio, scultori in bronzo e in marmo, come Bastiano Torrigiani, Lodovico Del Duca e Leonardo Sormani, medaglisti come Domenico Poggini.
Di questa straordinaria coralità che unisce le più diverse competenze, vuole parlare la mostra, suddivisa in tre sezioni principali, articolate al loro interno in sottosezioni tematiche.
La prima sezione (Domenico Fontana: i luoghi, i committenti, l’impresa) oltre a render conto attraverso apparati multimediali dell’insieme delle opere realizzate dall’architetto a Roma e Napoli, si focalizza sui suoi committenti, rappresentati dal magnifico busto di Sisto V (pontefice dal 1585 al 1590), opera congiunta di Bastiano Torrigiani e Taddeo Landini, e da un ritratto di Filippo III proveniente dal Rijksmuseum di Amsterdam (il sovrano di Spagna salito al trono nel 1598, che avallò la costruzione del nuovo palazzo Reale di Napoli).
La seconda sezione (Il cantiere fontaniano: dal progetto all’esecuzione) indaga invece una delle straordinarie peculiarità dei cantieri allestiti da Domenico Fontana, vale a dire l’accordo armonioso e continuo tra lo spazio e le decorazioni al suo interno, siano esse affreschi, stucchi, sculture in marmo o bronzo. Lo spazio viene modellato e scandito da una profusione decorativa frutto di un’organizzazione complessa e sapiente, sotto la regìa di Fontana. La pittura (come nel caso della decorazione della villa Peretti Montalto) si intreccia all’architettura dipinta e allo stucco, vero o simulato, in un rapporto di continuità con gli ambienti e le superfici murarie.
La sezione mette in luce l’assetto di lavoro introdotto da Domenico Fontana e le sue novità rispetto al passato, come la molteplicità dei capicantiere, ognuno impegnato per la sua parte. Nei cantieri di pittura un ruolo rilevante fu svolto dagli artisti Cesare Nebbia e Giovanni Guerra, due specialisti già pienamente formati nel decennio precedente a quello di papa Sisto V (1585-1590), che si relazionano con Fontana per l’organizzazione delle superfici da affrescare, producendo numerosi disegni destinati ad essere messi in opera da artisti diversi.
Un altro aspetto degno di rilievo, che la mostra vuole illustrare, è il gusto per i materiali e le tecniche a confronto, in una continua sfida tra le arti intrecciate a vari livelli, dal più corsivo intervento artigianale, sino ai più alti raggiungimenti artistici in termini qualitativi ed estetici. Si è pertanto voluto esemplificare, attraverso delle opere emblematiche – ad esempio, il busto in marmi policromi di Pio V della Galleria Nazionale dell’Umbria, ma anche il già menzionato busto di Sisto V – l’abilità degli artisti attivi nei cantieri coordinati da Fontana e l’effetto di sorprendente virtuosismo tecnico raggiunto da questi ultimi.
La terza sezione (Saperi tecnici) è infine dedicata alla celebre impresa del trasporto e dell’innalzamento dell’obelisco Vaticano e degli altri obelischi di Roma, ma anche alla meno eclatante (ma di «non piccola difficultà», come ebbe a scrivere lo stesso Fontana) traslazione della medievale cappella del Presepe all’interno della cappella Sistina in Santa Maria Maggiore. Una speciale attenzione viene rivolta alla “officina del trattato”, vale a dire l’articolato processo di elaborazione e pubblicazione del volume di Domenico Fontana, Della Trasportatione dell’obelisco Vaticano, il cui Libro primo uscì a Roma nel 1590, seguito da un Libro secondo dato alle stampe a Napoli nel 1604. Particolarmente rilevanti sono due disegni preparatori di Giovanni Guerra per le incisioni di Natale Bonifacio (provenienti dagli Uffizi e dalle Beaux-Arts de Paris) come pure il fascicolo, conservato a Roma presso la Biblioteca Angelica, che raccoglie le bozze di gran parte delle tavole del Libro primo, corredate al margine dalle osservazioni manoscritte dell’Agostiniano Angelo Rocca, illustre filologo e teologo, sovrintendente della Tipografia Apostolica Vaticana fondata da Sisto V.
Una particolarità dell’allestimento è infine costituita dalle riproduzioni digitali, fotografie immersive e ricostruzioni multimediali, realizzate da Studio Visuale, che accompagnano le opere creando un ricco e sfaccettato apparato digitale che integra e arricchisce il racconto, interagendo in maniera diretta con il visitatore.
La mostra illustra i risultati del progetto di ricerca, finanziato dal Fondo Nazionale Svizzero per la ricerca scientifica (FNS), L’impresa Fontana tra XVI e XVII secolo: modalità operative, tecniche e ruolo delle maestranze” e si svolge nell’ambito del progetto FNS-Agorà The «invention of many works». Domenico Fontana (1543-1607) and his buildings works (CRAGP1_199500, 2022-2024), volto a favorire il dialogo tra comunità scientifica e società civile.
Domenico Fontana
Domenico Fontana nacque a Melide nell’attuale Cantone Ticino (Svizzera) nel 1543. Esordisce come stuccatore a Roma a partire dal 1563, dove interviene nei cantieri del cardinale Ricci (gli attuali Palazzo Sacchetti e Villa Medici), nel Palazzo del Campidoglio e nella Chiesa Nuova in Santa Maria in Vallicella. È attestato anche a Villa d’Este a Tivoli nel 1568. Nel 1584 costruisce la Cappella Sistina in Santa Maria Maggiore per il cardinale Felice Peretti, futuro papa Sisto V, che diventerà il suo principale committente. La nuova cappella incorporò la duecentesca Cappella del Presepio di Arnolfo di Cambio: il piccolo sacello fu trasportato all’interno della costruzione utilizzando complesse macchine di cantiere. Per lo stesso committente costruì la grandiosa Villa Montalto alle Terme. Con l’accesso al soglio di San Pietro di Felice Peretti, Fontana ricevette prestigiose committenze: costruì il complesso del Laterano che sostituì l’antico Patriarchio, con il Palazzo, la Loggia delle benedizioni e l’edificio della Scala Santa, il Palazzo Apostolico e la Biblioteca Apostolica Vaticana. È ancor oggi celebre per l’innalzamento dell’obelisco in Piazza San Pietro, impresa di cui pubblicò un resoconto nel suo libro Della Transportatione dell’obelisco Vaticano e delle fabriche di Sisto V, pubblicato a Roma nel 1590. Eseguì, inoltre, l’innalzamento di altri tre obelischi antichi nell’odierna Piazza del Popolo (Obelisco Flaminio), Piazza Santa Maria Maggiore (Obelisco Esquilino) e Piazza San Giovanni in Laterano (Obelisco Lateranense). Ottenne dal papa il titolo di cavaliere dell’Ordine dello Speron d’oro.
Alla morte di Sisto V, l’architetto, accusato di malversazioni, fu costretto a trasferirsi nel 1592 a Napoli dove fu al servizio dei viceré spagnoli, impegnati in grandi opere per la nuova e seconda capitale del Regno. Fece il progetto per il porto di Napoli e fu incaricato della progettazione del Palazzo Reale la cui costruzione fu avviata nel 1600. Morì a Napoli nel 1607 e fu sepolto nella chiesa di Sant’Anna dei Lombardi. A seguito del crollo della chiesa nel 1805, la salma fu traslata nel vestibolo della Chiesa di Monteoliveto dove l’Arciconfraternita dei Lombardi si trasferì.
Info: www.ti.ch/zuest
Ufficio Stampa: Studio ESSECI – Sergio Campagnolo tel +39 049.663499
Rif: Simone Raddi simone@studioesseci.net
3/ Le «invenzioni di tante opere»: la ricerca dell'Archivio del Moderno su Domenico Fontana si fa mostra
Riprendiamo dal sito dell’Archivio del Moderno la scheda di presentazione della mostra Le “invenzioni di tante opere”. Domenico Fontana (1543-1607) e i suoi cantieri (https://www.farchiviodelmoderno.org/attivita-adm/mostre/le-invenzioni-di-tante-opere-la-ricerca-dell-archivio-del-moderno-su-domenico-fontana-si-fa-mostra). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (11/12/2022)
Le «invenzioni di tante opere»: la ricerca dell'Archivio del Moderno su Domenico Fontana a cura di Nicola Navone, Letizia Tedeschi e Patrizia Tosini
Rancate (Mendrisio), Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, 27 novembre 2022 - 19 febbraio 2023
L’esposizione, promossa dall’Archivio del Moderno dell’Università della Svizzera italiana e dalla Pinacoteca Züst con il partenariato dei Musei Vaticani e il patrocinio della Biblioteca Apostolica Vaticana e della Fondazione della Guardia Svizzera Pontificia del Vaticano, fa parte di un ampio progetto di ricerca svolto dall’Archivio del Moderno e sostenuto dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica (FNS). La mostra, oltre a fruire del sostegno della Ernst Göhner Stiftung, della Fondazione ing. Pasquale Lucchini e della Fondazione Ferdinando e Laura Pica Alfieri, si giova della collaborazione della Fondazione per la ricerca e lo sviluppo dell’Università della Svizzera italiana e della Fondazione Archivio del Moderno.
Frontespizio della Trasportatione dell’obelisco
Vaticano et delle fabriche di Nostro Signore
Papa Sisto V, Roma 1590 (Lugano, Biblioteca cantonale)
Il 26 novembre alla Pinacoteca cantonale Giovanni Züst a Rancate (Mendrisio) si inaugurerà la mostra Le “invenzioni di tante opere”. Domenico Fontana (1543-1607) e i suoi cantieri curata da Nicola Navone, Letizia Tedeschi e Patrizia Tosini.
Domenico Fontana fu il capostipite degli architetti ticinesi. Insieme a Carlo Maderno e Francesco Borromini, diede alle maestranze e compagnie ticinesi un ruolo da protagonista nella costruzione della Roma barocca che si propagò per due secoli. Nei cinque anni di papato di Sisto V, Fontana ridefinì l’urbanistica romana gestendo tutti i cantieri accentrando per sé e la sua compagnia i ruoli di architetto, di impresario-appaltatore e di sovrintendente dei lavori.
L’esposizione, promossa dall’Archivio del Moderno dell’Università della Svizzera italiana e dalla Pinacoteca Züst con il partenariato dei Musei Vaticani e il patrocinio della Biblioteca Apostolica Vaticana e della Fondazione della Guardia Svizzera Pontificia del Vaticano, fa parte di un ampio progetto di ricerca svolto dall’Archivio del Moderno e sostenuto dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica (FNS). La mostra, oltre a fruire del sostegno della Ernst Göhner Stiftung, della Fondazione ing. Pasquale Lucchini e della Fondazione Ferdinando e Laura Pica Alfieri, si giova della collaborazione della Fondazione per la ricerca e lo sviluppo dell’Università della Svizzera italiana e della Fondazione Archivio del Moderno.
I progetti di ricerca
L’attività di ricerca su Domenico Fontana svolta dall’Archivio del Moderno ha preso avvio con l’organizzazione, nel 2007 in occasione dei 400 anni dalla morte dell’architetto e ingegnere, del Convegno internazionale di studi «Cosa è architetto». Domenico Fontana tra Melide, Roma e Napoli, a cura di Giovanna Curcio, Nicola Navone e Sergio Villari. Promosso dall’Archivio del Moderno-Accademia di architettura, USI e dalla Facoltà di architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, il convegno ha portato alla pubblicazione del volume, curato dai medesimi autori, Studi su Domenico Fontana, 1543-1607 (Mendrisio Academy Press-Silvana Editoriale, Mendrisio-Cinisello Balsamo 2011, disponibile in Open Access).
Da questa esperienza è nato il progetto di ricerca FNS L’impresa Fontana tra XVI e XVII secolo: modalità operative, tecniche e ruolo delle maestranze (FNS 100016_150268/1), promosso dall’Archivio del Moderno e al quale ha fatto seguito il progetto FNS-Agorà The «invention of many works». Domenico Fontana (1543-1607) and his buildings works (CRAGP1_199500), volto a favorire il dialogo tra comunità scientifica e società civile e nel quale rientra la mostra che si inaugurerà il 27 novembre alla Pinacoteca Züst.
Queste ricerche dedicate all’impresa Fontana, dirette da Nicola Navone e Letizia Tedeschi, hanno consentito di mettere in luce l’organizzazione dei cantieri coordinati da Domenico Fontana, chiarendo le sue modalità operative, sia a Roma (dove, come detto, si afferma compiutamente durante il pontificato di Sisto V, 1585-1590) sia a Napoli (dove Fontana si trasferisce nel 1592 per svolgere un ruolo cruciale nelle iniziative edilizie che caratterizzano il Vicereame a cavaliere tra XVI e XVII secolo). Un’indagine, dunque, che muove dall’interno del cantiere e che ha avuto un importante momento di confronto nel volume, promosso dall’Archivio del Moderno e curato da Maria Felicia Nicoletti e Paola Carla Verde, Pratiche architettoniche a confronto nei cantieri italiani della seconda metà del Cinquecento, Officina Libraria, Milano 2019 (disponibile in Open Access).
Dalla ricerca alla mostra
È sulla scorta di queste esperienze che si è definito il taglio particolare della mostra, che mette in luce il dialogo con i numerosi artisti attivi nei grandi cantieri progettati e diretti, tra Roma, Napoli, Amalfi e Salerno da Domenico Fontana. Nelle sue fabbriche più prestigiose, di committenza papale o reale, al lavoro di muratori, vetrai, stagnai e fabbri, si sovrappone l’opera delle botteghe artistiche di pittori, scultori, bronzisti, stuccatori, indoratori e incisori, oggetto della mostra.
Obiettivo dell’esposizione è dunque quello di presentare questa straordinaria coralità che unisce le più diverse competenze artistiche e di farlo rendendo accessibile al grande pubblico, nello spirito del cosiddetto “terzo mandato” dell’USI, un tema in sé articolato e complesso. Per fare questo, accanto alle opere provenienti da oltre 30 prestatori disseminati tra Italia, Svizzera, Spagna, Inghilterra, Olanda (tra i quali segnaliamo il Louvre, gli Uffizi, La Galleria d’Arte Antica di Palazzo Barberini, il Courtauld Institute of Art, il Rijksmuseum, il Museo Thyssen-Bornemisza), è stato previsto un apparato di ricostruzioni multimediali e fotografie immersive che integrano e arricchiscono il percorso espositivo e consentono al visitatore di interagire con la narrazione proposta attraverso le opere originali e le immagini virtuali. Apparato che è stato possibile progettare e realizzare grazie al progetto FNS-Agorà The «invention of many works». Domenico Fontana (1543-1607) and his buildings works. Questo progetto avrà un ulteriore sviluppo in una piattaforma web partecipativa che sarà dedicata alle maestranze edili di cultura italiana, nell’arco alpino occidentale, operanti tra XVI e prima metà del XX secolo.
Note al testo
[1] Thoenes 2011, pp. 9-19, cit. a p. 10.
[2] Anche questo studioso sente il dovere di avvertire, in linea con una tradizione storiografica: «La fonte più accessibile per me è stato il suo libro sull’obelisco Vaticano»; ivi, p. 12.
[3] Fontana 1590.
[4] Portoghesi 1978, pp. IX-XX, cit. a p. XVIII.
[5] Le citazioni sono tratte da ivi, pp. XVIII-XIX.
[6] Fiore 2011, pp. 127-141, cit. a p. 131.
[7] Bruschi 2000, pp. 13-42, cit. a p. 31.
[8] Fiore 2011, pp. 133-134.
[9] In non poche occasioni Fontana testimonia simultaneamente attingimenti michelangioleschi seppur filtrati o rimodellati ad usum delphini e «plateali trasgressioni» linguistiche che si ripetono fino alla fine: «a Napoli, in corrispondenza del raddoppio delle colonne ai fianchi del portale principale del palazzo Reale». Ovvero nel negare il «ritmo stabilito dagli intervalli metopa-triglifo»; ivi, pp. 136-137.
[10] Ivi, p. 139.
[11] Ivi, p. 140.
[12] Portoghesi 1978, p. XIII.
[13] Ivi, p. XVIII.
[14] Ivi, p. XIII.
[15] Ci si riferisce alla ricerca L’impresa Fontana tra XVI e XVII secolo: modalità operative, tecniche e ruolo delle maestranze, sostenuta dal Fondo Nazionale Svizzero per la ricerca scientifica (n.100016_150268/1), diretta da Letizia Tedeschi e Nicola Navone. Partner del progetto Giovanna Curcio, Francesco Paolo Fiore e Sergio Villari.
[16] Baglione 1642.
[17] Baglione 1642, p. 84. Discende da questo successo e dal clamore conseguente la fortuna di Domenico Fontana, la sequela delle allogazioni, l’ascesa costante fino alla morte del suo alto committente. Dopodiché egli si trasferisce a Napoli nel 1592 lasciando campo libero al fratello Giovanni che, infatti, continua a operare per il papato e va consolidando sempre più la propria posizione sotto papa Clemente VIII, nel mentre Domenico, sceso nel Vicereame, rinnova i successi romani fino alla fine della propria operosa esistenza. La stessa sepoltura attesta questa prestigiosa carriera e l’indiscutibile posizione di rilievo conquistata anche in quest’universo mondo.
[18] Becchi 2011, pp. 91-103.
[19] Previtali 2009, pp. IX-LX, cit. a p. X.
[20] Rossi Pinelli 2014, p. X.