Giovanni Paolo II: un padre santo (tpfs*) 1920-2005
Indice
- A Dio, padre santo Giovanni Paolo II di d.Andrea Lonardo
- Domenica 27 novembre 1988: il Papa a Santa Melania
- Parole di Giovanni Paolo II
- Ancora su Giovanni Paolo II sul nostro sito
A Dio, padre santo Giovanni Paolo II
di d. Andrea Lonardo
La santità non è un lusso
Il popolo di Dio sa che Giovanni Paolo II è santo. E’ evidente che tutti esitiamo a dire: “Signore, perdona i suoi peccati”. Dal nostro cuore sale piuttosto la preghiera: “Che preghi dal cielo per noi”, “Che il bene da lui seminato porti frutti e non si perda nella storia degli uomini”. E’ il sensus fidei, il “sentire della fede” che la Chiesa, per dono dello Spirito Santo, ha. Ma cosa è la santità? Come possiamo parlarne e capirla dinanzi alla morte di Giovanni Paolo II?
La Pasqua ci ha mostrato che il Cristo risorto non è un altro, rispetto al momento in cui camminava con i suoi apostoli. Si fa riconoscere dalle sue piaghe, dalle sue stimmate, dallo squarcio prodotto dalla lancia nel costato. Sono i segni dell’amore quelli che porta impressi nel corpo. E’ proprio il suo corpo! E’ proprio lui! A Pasqua ci domandavamo: quando saremo nella vita eterna, da quali segni saremo riconosciuti? Perché in Paradiso non si perde la propria identità! Se tanti segni ci saranno strappati via – quella giovinezza e bellezza a cui teniamo tanto, quei tatuaggi impressi a forza nel corpo per contraddistinguerlo, quei titoli di orgoglio a cui affidiamo a volte la nostra reputazione – quelli legati al nostro amore a Dio ed agli uomini, resteranno impressi per sempre! E saremo lieti di vederci portar via tutto ciò che è stato cattiveria o orgoglio o pessimismo o indifferenza o realtà effimera! Saremo stupiti di vedere cose a cui tenevamo tanto apparire nel loro vuoto, nel loro essere nulla. Ma il bene, fatto e ricevuto – quello sì! – ci contraddistinguerà per sempre.
Un’espressione paolina straordinaria dice: “Noi non desideriamo essere spogliati del nostro corpo, ma essere sopravvestiti”. Ecco: questa sarà la nostra condizione eterna, quando Dio porterà a compimento, a pienezza, il bene che ci ha donato di fare e di essere nella vita. Una vita sopravvestita, trasfigurata! E come Cristo porta tutto con sé nel cielo, niente viene gettato via e perso nel nulla, perché tutta l’umanità in Lui è stata presenza divina, così avviene per partecipazione nei santi.
La santità è proprio vivere in Dio la pienezza della nostra umanità. Non è un lusso, un extra, un di più. La nostra nostalgia è proprio quella che tutta la nostra vita sia viva, che ogni pensiero e gesto e affetto siano di bene, non siano inutili, superflui o addirittura dannosi, da perdere e da dimenticare!
Cosa il papa non ha portato in Dio? Quali pensieri o gesti o parole? Sentiamo che ogni passo del suo vivere ha partecipato di Dio, è stato segno di fede, speranza e carità. Ecco perché niente di lui sarà perduto. Noi preghiamo solo che Dio porti a compimento nella contemplazione piena del volto del Padre tutta la sua vita.
Proprio la liturgia di questi giorni, il leggere ogni giorno gli Atti degli Apostoli, ci riporta quotidianamente alla coscienza che Cristo non è presenza relegata al passato, ma è il capo che oggi vivifica la sua Chiesa. E Giovanni Paolo II ha partecipato di questa grazia carismatica che è il ministero petrino. E’ stato il 264° papa ed ha manifestato che l’opera di Dio è proseguita nella sua vita di capo della Chiesa, di ministro di Dio. E’ la grazia che sempre salva, che rende l’oggi pieno della presenza di Dio, come lo è stato per gli apostoli il vivere a fianco di Cristo Gesù – e la certezza cristiana è che lo stesso avverrà dinanzi al 265° successore, finché il tempo avrà fine ed il Cristo tornerà!
Padre dei tuoi figli
Chiamare Giovanni Paolo II “papa”, è aver riconosciuto in lui la paternità. Papa viene proprio da “abbà”, padre, simile al nostro termine d’infanzia “papà”. Giovanni Paolo II è “grande”, proprio nel suo senso più pieno, perché è stato un adulto in mezzo a noi, è stato un padre e non un bambino od un adolescente. Ecco il suo essere avanti a noi a guidare la Chiesa, il suo assumersi responsabilità, accettare di rispondere, di farsi carico, di decidere, di scegliere, di parlare indicando il cammino!
E’ l’amore del padre. Una delle forme più alte di amore. Ci ha amati da padre. Noi, come ogni figlio, qualche volta, abbiamo brontolato. Ricordo alcuni commenti alla pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, uno dei gesti più splendenti e carichi di futuro del pontificato, opera difficilissima ed altissima. Quante discussioni, quanti pensieri nella Chiesa. E, a distanza di anni, eccoci a ringraziare di quel lavoro benedetto, di quella luce di chiarezza.
Il padre vede più avanti, più lontano dei figli, imbocca la strada e, pian piano, i figli comprendono. Mi diceva questi giorni un sacerdote polacco: noi polacchi ci sentiamo oggi orfani! E non è questo il sentimento di tutti noi nei giorni della sede vacante? E’ l’attendere un padre. Ma questa paternità ci riporta alla paternità di Dio, al suo essere più grande, come nella vita del Figlio: “Il Padre mi ha mandato ed io faccio tutto ciò che vedo fare al Padre”. Ed il padre non è colui che fa tutto al posto del figlio, esonerandolo dalle sue responsabilità, ma è piuttosto colui che fa crescere il figlio proprio chiedendo a lui di essere a sua volta padre, di essere sorgente di fecondità nuova, di amore a nuovi figli. Conceda il Signore a tutti noi di essere padri e madri di nuove generazioni di credenti, di amare la fatica di essere grandi, di non voler mai tornare ad essere infantili, senza quella responsabilità che è, invece, il segno dell’amore.
Il vangelo per tutto il mondo
Quante volte abbiamo sentito Giovanni Paolo II annunciare il mandato dell’evangelizzazione, facendo eco a Cristo Signore: “Andate, predicate in tutto il mondo, annunciate la mia resurrezione, battezzate nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito, insegnando tutto ciò che vi ho comandato”. E come ci appare oggi più chiaro il significato del suo viaggiare infaticabile di tanti anni. Come fu per Pietro, come fu per Paolo, per Tommaso, per Andrea, per Giovanni, per la Maddalena, da Gerusalemme, a Roma, al mondo intero. Dio ha inviato, ha mandato. Ha donato perché noi a nostra volta donassimo. “Guai a me se non annunzio il vangelo. Non è un vanto per me, ma un dovere. Noi siamo debitori del vangelo a tutti” ripeteva l’apostolo.
Portare il vangelo, parlarne, desiderare che sia donato a tutti nasce da un duplice amore. Solo chi ha amato Cristo, chi ha creduto che il vero Dio è Trinità, ma allo stesso tempo ha amato l’uomo, la sua nostalgia di un senso del vivere, con la tristezza e la paura che alberga negli animi, diviene servitore della Parola che salva. La ama, ma per donarla, per condividerla. Ecco il motivo di quella fede salda, certa, immutabile nei secoli ed insieme di quel desiderio di dialogo con tutti, di quel rispetto e attenzione per ogni cultura, di quell’annunzio instancabile dei diritti dei piccoli e della necessità della pace e della libertà religiosa.
Tanti commentatori restano spiazzati perché non riescono a catalogare Giovanni Paolo II, rilevano una contraddizione tra la sua ferma ortodossia, il suo amore al cattolicesimo ed i suoi gesti che hanno demolito muri e costruito ponti. Tutto questo appare invece a noi segno della fede cristiana che, proprio per essere tale, per aver riconosciuto in Cristo l’unico Salvatore del mondo, scopre in Lui la misericordia che abbraccia l’universo. Giovanni Paolo II, proprio perché uomo della Trinità e del Cristo, non ha amato solo i suoi, i cristiani, ma i figli dell’umanità tutta, dispersi nel mondo intero. La Chiesa ha sempre annunziato che il vescovo di Roma è sì vescovo della propria Diocesi, ma ha anche una responsabilità che abbraccia il mondo intero.
In Giovanni Paolo II abbiamo contemplato proprio questa paternità che è stata tale anche dove era rifiutata. Il papa ha sentito e vissuto la sua responsabilità verso tutti, anche verso chi non si è mai riconosciuto come figlio suo, pur essendolo in realtà! E’ stato il padre che riconosce i suoi figli, anche se essi possono fingere di non avere padre. Ed ha chiesto non tanto di essere riamato, ma che gli uomini amassero il vero Dio, che si amassero fra di loro nella Chiesa, che come cristiani amassero ogni uomo che viene concepito in questo mondo, che condividessero con passione la storia che gli uomini costruiscono insieme, nell’attesa del regno divino che porterà a compimento e salverà l’uomo. Dall’identità cristiana all’amore per la vita: due fuochi inscindibili l’uno dall’altro.
La misericordia che vince il male
Giovanni Paolo II ha conosciuto la forza devastante del male, fino alla sua apparente invincibilità. Perché il male vuole sembrare il dominatore del mondo, vuole il posto di Dio, vuole presentarsi come l’ultima parola, come l’assoluto a cui nessuno può sottrarsi. I primi anni vissuti sotto l’incubo del nazismo che non solo si esprimeva nello sterminio degli ebrei, ma infuriava anche contro i portatori di handicap, contro gli zingari e contro i popoli slavi (ed, in specie, il popolo polacco). Dagli studi storici recenti appare con chiarezza che nei piani hitleriani figuravano lo sterminio di due terzi dei polacchi e dei russi e la riduzione a schiavi della razza ariana del terzo superstite. Non solo, ma l’eliminazione della Chiesa e del papa stesso erano nella mente del dittatore del Terzo Reich. Ed ecco – scrive il papa – dopo dodici anni di devastazione, lo svanire di questo progetto. Subito dopo venne il comunismo, con la sua deliberata scelta di uccidere negli animi la nostalgia di Dio, di scegliere come avversario principale il Cristo, estirpandolo dal cuore dell’uomo e dai segni esterni che lo comunicano. E, nuovamente, nel 1989, la grande battuta d’arresto, pur con rigurgiti che ancora oggi rendono quasi impossibile in alcuni luoghi della terra la professione di fede.
Giovanni Paolo II ci ha insegnato a non aver paura del male, a non perdere mai fiducia. Proprio le sue parole “Non abbiate paura” sono state cancellate in alcuni paesi dell’allora area sovietica, perché sentite come pericolose. Il “non aver paura” cambia il mondo! Ma il limite del male non è dato solo dal fatto che esso ha “poco tempo”, come dice l’Apocalisse. Il suo limite radicale è nell’esistenza stessa di Dio, del Bene assoluto e dalla sua volontà di perdonare e salvare.
Cristo ha vinto la sofferenza non eliminandola, ma rendendola possibilità di amore. L’ha radicalmente cambiata dal di dentro – come ha scritto il papa – quando il Figlio, il solo Giusto, l’ha accettata per la nostra salvezza. Ecco che “non c’è sofferenza che Egli non sappia trasformare in strada che conduce a Lui... (Memoria e identità)”. Ma ancor più dinanzi al male che è il peccato, il volgere le spalle a Dio, si è levata la misericordia divina. Solo il perdono vince il male! E Dio è più grande del nostro cuore.
Come il papa ha scritto, ancora nel suo ultimo libro: “Il male del XX secolo è stato un male di proporzioni gigantesche... Nello stesso tempo, però, la grazia divina si è manifestata con sovrabbondanza. Non vi è male da cui Dio non possa trarre un bene più grande... suor Faustina Kowalska divenne la banditrice dell’annuncio secondo cui l’unica verità capace di controbilanciare il male di quelle ideologie (il nazismo ed il comunismo) era che Dio è misericordia, è la verità che Cristo è misericordioso”. E proprio nei primi vespri della festa della Divina misericordia, dopo la celebrazione della messa vespertina, il Signore ha chiamato a sé il Santo Padre.
La fiducia nella provvidenza, nel Signore che dal male sa trarre il bene, del Cristo che non lascia l’eternità al male, ma si manifesta colui che ha l’ultima parola – fiducia che ha sostenuto il papa anche nel momento terribile dell’attentato del 13 maggio, giorno della Madonna di Fatima, come in tanti altri passaggi di vita - sempre illumini il nostro cammino ed i nostri passi. E’ il bene che Dio fa ed il bene che Dio ci ha affidato da fare, che conforta il nostro vivere. Egli, Dio, sa – “il Signore sul monte provvederà”. E per ognuno i passi sono contati e pieni di un senso, di un’opera da compiere che il Signore conosce.
Ora lascia, o Signore...
La malattia e la vecchiaia hanno reso Giovanni Paolo II ancora più vicino a tutti noi. Forse, senza questo ultimo tratto di vita, la sua testimonianza non sarebbe stata completa. Proprio la sua debolezza ha aperto porte e cuori che non avremmo immaginato. Come scrisse nel 1999, nella Lettera agli anziani: “Nonostante le limitazioni sopraggiunte con l’età, conservo il gusto della vita. Al tempo stesso trovo una grande pace nel pensare al momento in cui il Signore mi chiamerà”.
Per questo oggi ci raccogliamo nel dire: “A Dio, nostro vescovo e papa Giovanni Paolo”.
Don Andrea Lonardo
Domenica 27 novembre 1988: il Papa a Santa Melania
S.Melania ha, come parrocchia, gli stessi anni del pontificato di Giovanni Paolo II. Il primo decreto di nuova parrocchia che firmò è, infatti, proprio quello di S.Melania. Dieci anni dopo quel giorno, venne in visita all’AXA. Era la prima domenica di Avvento. La casula viola che usiamo è quella che ci regalò quel giorno. Così disse nell’omelia:
Una settimana fa la fine dell’anno liturgico è stata segnata dalla solennità di Cristo Re. Questa solennità non soltanto chiude il ciclo di un anno liturgico, ma ne fa vedere anche la definitiva prospettiva: Cristo consegnerà l’intera umanità e, insieme con essa, tutte le creature al Padre come Regno di Dio. Il fine della creazione e della redenzione è che “Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15,28).
Oggi ritorniamo di nuovo all’inizio.
Incomincia il nuovo ciclo liturgico della Chiesa. E questo inizio liturgico è nello stesso tempo un ricordo di quell’Inizio che tutto il creato, e soprattutto l’uomo, ha avuto in Dio.
La fine “guarda”, per così dire, l’inizio - e l’inizio “guarda” la fine. Mediante la storia della creazione si sviluppa e si avvicina, ciò che costituisce la sua realtà definitiva: il Regno di Dio. E perciò tutta la storia è un avvento.
Uno dei giovani, a nome degli altri, lo interrogò su ricchezza e povertà dei giovani nel mondo. Così il papa rispose:
Riguardo all’intervento del vostro collega, voglio osservare che i giovani fanno molto volentieri anche i giornalisti. Conosco, ho esperienza di questo, di tanti giornalisti che, potrei anche dire, mi aggrediscono durante i miei viaggi in aereo e mi rivolgono domande. Naturalmente il vostro collega è un giornalista molto delicato. Vorrei dare una risposta alla sua, alla vostra domanda comune. Certamente ho esperienza sempre maggiore della Chiesa universale, delle diverse Chiese nei Paesi, nei Continenti e, in queste Chiese, anche dei giovani. Direi che fra le esperienze della Chiesa e nelle Chiese quella con i giovani è una delle principali. Così avevo cominciato a fare ancora prima di venire a Roma e così si continua. Devo dirvi che questa realtà dei giovani è in un certo senso molto simile dappertutto... Quella dei giovani è una fascia di età che si assomiglia un po’ dappertutto... Ma c’è anche una grande differenza tra i Paesi, tra le società e tra i giovani. Molti giovani del mondo, molti giovani di diversi Paesi e di diverse Chiese, soffrono. Potrei dire, dovrei dire che la loro vita è molto più difficile della vostra facendo un paragone con criteri direi non scientifici, ma con criteri pastorali. La loro vita è molto triste, difficile. La loro giovinezza è molto più difficile: l’accesso alla scuola, agli studi è più difficile. Ecco che questa constatazione mi porta a citare le parole di Gesù. Gesù disse una volta: da chi ha più ricevuto si domanderà di più, si esigerà di più. Allora con tutte le difficoltà che sperimentate anche voi nella vostra società italiana progredita economicamente, socialmente, con tutto questo, pensate una volta alla vostra situazione privilegiata e a queste parole di Gesù: da chi ha più ricevuto si domanderà di più. Ciò vi sia di guida, come parola d’ordine, come luce per comportarvi verso gli altri.
Il parroco di allora, padre Bruno, nell’incontro del papa con i bambini, sottolineò il loro rumore:
Il vostro parroco ha detto una parola molto interessante: Ecco i bambini e dove ci sono i bambini c’è anche un po’ di rumore. Io direi abbastanza rumore, ma mi è venuta in mente subito un’associazione di parole: dove c’è rumore c’è anche amore. E’ vero che non sempre, ma molte volte il rumore è segno di amore. Quando la gente si ama, quando un ambiente è pieno di amicizia, quando le persone sono aperte vicendevolmente, allora c’è anche un po’ di rumore, un po’ di chiasso, che significa gioia. Allora si può dire che è vero, come ho pensato, che dove c’è rumore c’è anche amore.
Qualche volta però, il rumore può essere segno di un’altra cosa, non più di amore, ma di disamore, di odio, di guerra. Sappiamo bene che le guerre si fanno anche con grande rumore, un rumore terribile, spaventoso. Allora aspiriamo a questo rumore che viene dall’amore e non all’altro. Aspiriamo tutti a questo amore e preghiamo tutti per questo. Quando dico che dove c’è rumore c’è anche amore, penso alla situazione alla quale noi e tutta la Chiesa cominciamo a pensare nella prima Domenica di Avvento. Cominciamo a pensare più intensamente a quella notte non rumorosa, ma piena di tranquillità, nella quale viene tra noi, per abitare tra noi, il Figlio di Dio fattosi uomo, Gesù Cristo, quella notte di Betlemme, quella notte che deve concludere e coronare il periodo dell’Avvento liturgico, quella notte che è tanto vicina a tutti i cuori umani, specialmente a quelli dei giovani e dei bambini. Vi auguro anche di fare intorno a Lui quando verrà, quando verrà come bambino, ricordando la sua prima nascita a Betlemme, un po’ di rumore, quel rumore che esprime la gioia. Si deve attendere Gesù con gioia. Si deve incontrarlo con gioia. Si deve partecipare alla sua nascita con gioia.
A tutta la parrocchia disse:
Il parroco ha detto che la parrocchia è giovane ed ha chiesto incoraggiamento. Penso che i giovani, normalmente, abbiano già di per sé abbastanza coraggio. Questo appartiene anche alla natura della giovinezza. Ma qualche volta i giovani devono essere incoraggiati, perché arriva anche il momento in cui sono depressi, senza fiducia, senza speranza. Ma questo essere senza speranza non riguarda la vostra parrocchia, che è piena di speranza, anzi di speranza che porta frutti...
Vi rivolgo i miei auguri per questo incontro ed anche per la vostra giovinezza, perché la giovinezza è un momento in cui l’uomo crea il progetto di se stesso, vede la vita nella prospettiva del suo futuro, del suo sviluppo, del suo progresso, dei suoi progetti. Penso che la vostra parrocchia, essendo giovane, si trovi in un periodo simile. E’ bene che questi progetti - come deve essere, come deve crescere, come deve svilupparsi la vostra comunità parrocchiale - li cerchiate nelle varie fonti e soprattutto nei documenti del Concilio Vaticano II.
Agli animatori dei gruppi disse:
Così avete scoperto la vostra parrocchia come un ambiente in cui si deve vivere anche una sollecitudine, un amore vicendevole. Questa sollecitudine si esprime in modi diversi, ma in modi molto simili a quelli della famiglia domestica, della Chiesa domestica. Le preoccupazioni dei genitori nell’insegnare ed educare i propri figli sono le stesse della parrocchia che deve insegnare e catechizzare. E ciò vuol dire anche educare a una maturità cristiana, maturità mentale, maturità spirituale, personale. Poi ci sono ancora tanti altri impegni: la cura dei malati, dei bisognosi. Un cuore aperto, largamente aperto; un cuore e un’anima: creare questa realtà della parrocchia è un grande impegno. Tale impegno ha bisogno di persone impegnate, non solamente dei sacerdoti, neanche soltanto delle suore, delle religiose, ma anche di tanti laici impegnati. Laici che hanno le proprie famiglie, che possono impegnarsi nella parrocchia avendo presente l’esperienza della loro famiglia, condividendo le preoccupazioni del parroco, dei sacerdoti, ma condividendo soprattutto le preoccupazioni di Gesù Buon Pastore. Perché il vero Pastore dappertutto, nella Chiesa, in ogni Chiesa, universale o particolare, diocesana, locale, è Lui: il Buon Pastore.
Alle religiose disse, riferendosi al nome “canossiane”:
Non so se voi sapete che cosa vuol dire “andare a Canossa”. Da giovane ho imparato, studiando la storia, che c’era un imperatore germanico che doveva andare a Canossa e umiliarsi davanti al Papa. Questa associazione mentale mi è rimasta per tutta la vita: andare a Canossa. Invece qui ho conosciuto un’altra realtà: Maddalena di Canossa... Vi auguro di trovare la vera felicità nella vostra vocazione religiosa, in questa vocazione che è una grande grazia, un grande mistero dell’amore di Cristo, Divino Sposo, per un’anima umana, femminile o maschile, ma sempre sposa.
Parole di Giovanni Paolo II
I libri e lo studio
Gli impegni che ricadono sulle spalle di un vescovo sono tanti. Ne ho fatto l’esperienza in prima persona e mi sono reso conto di come il tempo possa veramente mancare. La stessa esperienza, però, mi ha anche insegnato quanto siano necessari al vescovo il raccoglimento e lo studio. Deve avere una profonda formazione teologica, costantemente aggiornata, e un più ampio interesse per il pensiero e la parola. Sono tesori, questi, che hanno in comune tutti coloro che pensano. E’ per tale motivo che vorrei dire qualcosa sul ruolo della lettura nella mia vita di vescovo. Ho sempre avuto questo dilemma: che cosa leggere? Cercavo di scegliere ciò che era più essenziale. La produzione editoriale è così vasta! Non tutti i libri sono di valore o utili. Bisogna saper scegliere e chiedere consiglio riguardo a ciò che merita di essere letto.
Già da bambino mi piacevano i libri, alla cui lettura mi aveva abituato mio padre. Era solito sedersi accanto a me e leggermi, ad esempio, Sienkiewicz o altri scrittori polacchi. Dopo la morte di mia madre, eravamo rimasti noi due: lui e io. Lui continuava a esortarmi alla conoscenza della letteratura di valore e non ha mai ostacolato il mio interesse per il teatro. Se non fosse scoppiata la guerra e la situazione non fosse radicalmente cambiata, forse le prospettive che gli studi accademici di Lettere mi aprivano dinanzi mi avrebbero assorbito completamente. Quando informai Mieczyslaw Kotlarczyk della mia decisione di diventare sacerdote, mi disse: “Che cosa stai facendo? Vuoi sprecare il tuo talento?”. Solo l’arcivescovo Sapieha non ebbe dubbi.
Quando ero studente universitario, lessi vari autori. Prima mi rivolsi alla letteratura, specialmente a quella drammatica. Leggevo Shakespeare, Molière, i poeti polacchi Norwid e Wyspianski. E, ovviamente, Aleksander Fredro. La mia passione, però, era fare l’attore, calcare il palcoscenico, e spesso pensavo a quali ruoli mi sarebbe piaciuto impersonare...
La liturgia è anche una sorta di mysterium rappresentato, messo in scena. Ricordo la grande emozione che provai quando, appena quindicenne, fui invitato da don Figlewicz al Triduum Sacrum che si teneva al Wawel, e presi parte all’Ufficio delle Letture, anticipato al mercoledì pomeriggio. Fu una vera scossa spirituale, e ancor oggi il Triduo pasquale è per me un’esperienza sconvolgente.
Poi venne il momento della letteratura filosofica e teologica. Come seminarista clandestino, ricevetti il manuale di metafisica del professor Kazimierz Wais di Leopoli. Don Kazimierz Klosak mi disse: “Studialo. Quando l’avrai imparato, darai l’esame”. Per alcuni mesi mi addentrai in quel testo. Mi presentai all’esame e lo superai. Questa esperienza segnò una svolta nella mia vita: davanti a me si aprì un mondo nuovo. Cominciai allora a cimentarmi con i libri di teologia. Più tardi, durante gli studi a Roma, approfondii la conoscenza della Summa Theologiae di san Tommaso d’Aquino...
Nelle mie letture e nei miei studi ho sempre cercato di unire in modo armonioso le questioni di fede, quelle di pensiero e quelle di cuore. Non sono infatti campi separati, ognuno penetra e anima gli altri. In questa compenetrazione di fede, pensiero e cuore esercita un particolare influsso lo stupore che nasce dal miracolo della persona, dalla somiglianza dell’uomo con Dio Uno e Trino, dal profondissimo rapporto tra l’amore e la verità, dal mistero del dono reciproco e della vita che nasce da esso, dalla contemplazione del trascorrere delle generazioni umane.
Da “Alzatevi, andiamo!” di Giovanni Paolo II
Essere vescovo
Il vescovo è segno della presenza di Cristo nel mondo, ed è una presenza che va incontro agli uomini lì dove stanno: li chiama per nome, li rialza, li conforta con l’annuncio della Buona Novella e li raduna alla stessa Mensa. Per questo il vescovo, che appartiene al mondo intero e alla Chiesa universale, vive la sua vocazione lontano dagli altri membri del Collegio episcopale per essere in stretta connessione con gli uomini che, nel nome di Cristo, raduna nella sua Chiesa particolare. Allo stesso tempo, proprio per coloro che raduna, egli diventa segno del superamento della loro solitudine, perché li pone in collegamento con Cristo e, in Lui, sia con tutti coloro che Dio ha scelto prima di loro sin dall’inizio del mondo, sia con coloro che ancora radunerà nella sua Chiesa dopo di loro, sino ai chiamati dell’ultima ora. Tutti sono presenti nella Chiesa locale per mezzo del ministero e del segno del vescovo. Il vescovo esercita il suo ministero in maniera veramente responsabile quando sa suscitare nei suoi fedeli un vivo senso di comunione con se medesimo e, attraverso la propria persona, con tutti i credenti della Chiesa sparsa nel mondo. Nella mia Cracovia ho fatto esperienza personale di questo senso di cordiale unione vissuto da parte dei sacerdoti, degli ordini religiosi e dei laici. Che Dio li ricompensi! Sant’Agostino, chiedendo aiuto e comprensione, era solito dire ai fedeli: “Forse molti semplici cristiani giungono a Dio percorrendo una via più facile della nostra e camminando tanto più speditamente, quanto minore è il peso di responsabilità che portano sulle spalle. Noi invece dovremo rendere conto a Dio prima di tutto della nostra vita, come cristiani, ma poi dovremo rispondere in modo particolare dell’esercizio del nostro ministero, come pastori”. Questo è il mistero dell’incontro mistico di uomini “di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (Ap 7,9) con Cristo presente nel vescovo diocesano, intorno al quale si riunisce, in un preciso momento storico, la Chiesa locale. Com’è forte questo legame! Con quali magnifici vincoli ci unisce e ci salda insieme! Feci esperienza di ciò durante il Concilio. In modo particolare sperimentai la collegialità: l’intero episcopato con Pietro! Riprovai tale esperienza in modo particolare durante gli esercizi spirituali che guidai nel 1976 per la curia romana, stretta intorno al Papa Paolo VI.
Da “Alzatevi, andiamo!” di Giovanni Paolo II
Il bene di Dio vince il male
Il credente sa che la presenza del male è sempre accompagnata dalla presenza del bene, della grazia. San Paolo ha scritto: “Ma il dono della grazia non è come la caduta; se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini” (Rm 5,15). Queste parole conservano la loro attualità anche ai nostri giorni. La Redenzione continua. Dove cresce il male, lì cresce anche la speranza del bene. Nei nostri tempi il male si è sviluppato a dismisura, servendosi dell’opera di sistemi perversi che hanno praticato su vasta scala la violenza e la sopraffazione. Non parlo qui del male compiuto da singoli uomini per mire personali o mediante iniziative individuali. Il male del XX secolo non è stato un male in edizione piccola, per così dire “artigianale”. E’ stato un male di proporzioni gigantesche, un male che si è avvalso delle strutture statali per compiere la sua opera nefasta, un male eretto a sistema. Nello stesso tempo, però, la grazia divina si è manifestata con ricchezza sovrabbondante. Non vi è male da cui Dio non possa trarre un bene più grande. Non c’è sofferenza che Egli non sappia trasformare in strada che conduce a Lui. Offrendosi liberamente alla passione e alla morte di croce, il Figlio di Dio ha preso su di sé tutto il male del peccato. La sofferenza di Dio crocifisso non è soltanto una forma di sofferenza accanto alle altre, un dolore più o meno grande, ma è una sofferenza di grado e misura incomparabili. Cristo, soffrendo per tutti noi, ha conferito un nuovo senso alla sofferenza, l’ha introdotta in una nuova dimensione, in un nuovo ordine: quello dell’amore, E’ vero, la sofferenza entra nella storia dell’uomo con il peccato delle origini. E’ il peccato quel “pungiglione” (cfr. 1Cor 15,55-56) che ci infligge dolore, che ferisce mortalmente l’essere umano. Ma la passione di Cristo sulla croce ha dato un senso radicalmente nuovo alla sofferenza, l’ha trasformata dal di dentro. Ha introdotto nella storia umana, che è storia di peccato, una sofferenza senza colpa, affrontata unicamente per amore. E’ questa la sofferenza che apre la porta alla speranza della liberazione, dell’eliminazione definitiva di quel “pungiglione” che strazia l’umanità. E’ la sofferenza che brucia e consuma il male con la fiamma dell’amore e trae anche dal peccato una multiforme fioritura di bene. Ogni sofferenza umana, ogni dolore, ogni infermità racchiude una promessa di salvezza, una promessa di gioia: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi” scrive san Paolo (Col 1,24). Ciò vale per ogni sofferenza provocata dal male; vale anche per quell’enorme male sociale e politico che oggi divide e sconvolge il mondo: il male delle guerre, dell’oppressione degli individui e dei popoli; il male dell’ingiustizia sociale, della dignità umana calpestata, della discriminazione razziale e religiosa; il male della violenza, del terrorismo, della corsa alle armi - tutto il male esiste nel mondo anche per risvegliare in noi l’amore, che è dono di sé nel servizio generoso e disinteressato a chi è visitato dalla sofferenza. Nell’amore che ha la sua sorgente nel cuore di Cristo sta la speranza per il futuro del mondo. Cristo è il Redentore del mondo: “Per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,5).
Da “Memoria e identità” di Giovanni Paolo II
Il Dio di Gesù Cristo non è il Dio impassibile dell’illuminismo
Scandalum crucis, lo scandalo della Croce... era necessario per la salvezza dell’uomo che Dio desse Suo Figlio alla morte di croce? Sullo sfondo di ciò su cui stiamo riflettendo ora occorre domandarci: poteva essere diversamente? Poteva Dio, diciamo, giustificarsi davanti alla storia dell’uomo, così carica di sofferenza, diversamente che ponendo al centro di tale storia proprio la Croce di Cristo? Ovviamente, una risposta potrebbe essere che Dio non ha bisogno di giustificarsi davanti all’uomo. E’ sufficiente che sia onnipotente. In tale prospettiva, tutto ciò che fa o che permette deve essere accettato. Questa è la posizione del biblico Giobbe. Ma Dio, che, oltre a essere Onnipotenza, è Sapienza e - ripetiamolo una volta ancora - Amore, desidera, per così dire, giustificarsi davanti alla storia dell’uomo. Non è l’Assoluto che sta al di fuori del mondo, e al quale pertanto è indifferente la sofferenza umana. E’ l’Emmanuele, il Dio-con-noi, un Dio che condivide la sorte dell’uomo e partecipa al suo destino. Qui viene alla luce un’altra insufficienza, addirittura la falsità di quell’immagine di Dio che l’illuminismo ha accettato senza obiezioni. Rispetto al Vangelo, esso ha costituito certamente un passo indietro, non nella direzione di una migliore conoscenza di Dio e del mondo, ma in quella della loro incomprensione. No, assolutamente no! Dio non è qualcuno che sia soltanto al di fuori del mondo, contento di essere in Se stesso il più sapiente e onnipotente. La Sua sapienza e onnipotenza si pongono, per libera scelta, al servizio della creatura. Se nella storia umana è presente la sofferenza, si capisce perché la Sua onnipotenza si è manifestata con l’onnipotenza dell’umiliazione mediante la Croce. Lo scandalo della Croce rimane la chiave di interpretazione del grande mistero della sofferenza, che appartiene in modo così organico alla storia dell’uomo.
Da “Varcare la soglia della speranza” di Giovanni Paolo II
Il viaggiare di un papa
Le visite ad limina Apostolorum sono una particolare espressione della collegialità. Per principio, ogni cinque anni (a volte, tuttavia, ci sono dei ritardi) vengono a turno in Vaticano i vescovi del mondo intero, cioè di oltre duemila diocesi. Adesso sono io a riceverli, ai tempi di Paolo VI ero io a essere accolto dal Papa. Apprezzavo molto gli incontri con Paolo VI, dal quale ho imparato tanto anche sulle modalità del loro svolgimento. Tuttavia, ho poi elaborato un mio schema: prima ricevo ogni vescovo personalmente, poi invito a pranzo tutto il gruppo e, infine, celebriamo insieme la Santa Messa mattutina e abbiamo l’incontro collettivo.
Traggo molto profitto dall’incontro con i vescovi: potrei dire con semplicità che da loro “imparo la Chiesa”. Devo farlo costantemente, perché imparo sempre cose nuove. Dal colloquio con loro apprendo la situazione della Chiesa nelle varie parti del mondo: in Europa, in Asia, in America, in Africa, in Oceania.
Il Signore mi ha dato le forze necessarie per poter visitare molti di quei paesi, la maggior parte di essi. Il che ha una grande importanza perché soggiornare personalmente in un paese, anche se per breve tempo, consente di vedere molte cose. Inoltre, tali incontri permettono di entrare in contatto diretto con la gente, e questo ha un enorme rilievo sia sul piano interpersonale che su quello ecclesiale. Così è stato anche per san Paolo, il quale era incessantemente in cammino. Proprio per questo, quando si leggono le sue lettere alle varie comunità, si sente che era stato presso di loro, che aveva conosciuto la gente del posto e i suoi problemi. La stessa cosa vale per ogni tempo, anche per il nostro. Mi è sempre piaciuto viaggiare e ho ben chiaro che questo compito è stato dato, in un certo senso, al Papa da Cristo stesso. Già da vescovo diocesano mi piacevano le visite pastorali e ritenevo che fosse molto importante sapere ciò che accade nelle parrocchie, conoscere le persone e incontrarle direttamente. Ciò che costituisce una norma canonica – la visita pastorale appunto – è stato in realtà dettato dall’esperienza della vita. Qui il modello è san Paolo. Anche Pietro, ma in primo luogo Paolo.
Da “Alzatevi, andiamo!” di Giovanni Paolo II
Dire: Abba, padre
Sappiamo che Cristo si rivolgeva a Dio con la parola “Abba”: una parola cara e familiare, quella con cui i figli della sua nazione si rivolgono ai loro padri. Probabilmente con la stessa parola, come gli altri bambini, egli si rivolgeva anche a san Giuseppe. E’ possibile dire di più del mistero della paternità umana? Come uomo, Cristo stesso sperimentava la paternità di Dio attraverso il suo rapporto di figliolanza con san Giuseppe. L’incontro con Giuseppe come padre si è inscritto nella rivelazione che Cristo ha poi fatto del paterno nome di Dio. E’ un mistero profondo! Cristo come Dio aveva la propria esperienza della paternità divina e della figliolanza nel seno della Santissima Trinità. Come uomo sperimentò la figliolanza grazie a san Giuseppe. Questi, da parte sua, offrì al Bambino che cresceva al suo fianco il sostegno dell’equilibrio maschile, della chiarezza nel vedere i problemi e del coraggio. Svolse il suo ruolo con le qualità del migliore dei padri, attingendo la forza dalla somma sorgente dalla quale “ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome” (Ef 3,15). Allo stesso tempo, in ciò che è umano egli insegnò molte cose al Figlio di Dio, al quale costruì e offrì la casa sulla terra. La vita con Gesù fu per san Giuseppe una continua scoperta della propria vocazione a essere padre. Lo era diventato in un modo straordinario, senza dare il corpo al suo Figlio. Non è forse questa la realizzazione della paternità che viene proposta a noi, sacerdoti e vescovi, come modello? Di fatto, tutto quanto facevo nel mio ministero lo vivevo come manifestazione di tale paternità: battezzare, confessare, celebrare l’Eucaristia, predicare, richiamare, incoraggiare, era per me sempre una realizzazione della stessa paternità.
Da “Alzatevi, andiamo!” di Giovanni Paolo II
La divina misericordia
Il male del XX secolo è stato un male di proporzioni gigantesche... Nello stesso tempo, però, la grazia divina si è manifestata con sovrabbondanza. Non vi è male da cui Dio non possa trarre un bene più grande. Non c'è sofferenza che Egli non sappia trasformare in strada che conduce a Lui... suor Faustina Kowalska divenne la banditrice dell'annuncio secondo cui l'unica verità capace di controbilanciare il male di quelle ideologie (il nazismo ed il comunismo) era che Dio è misericordia, è la verità che Cristo è misericordioso.
Da “Memoria e identità” di Giovanni Paolo II
Chi siamo noi?
Noi non siamo la somma delle nostre debolezze e dei nostri fallimenti; al contrario, siamo la somma dell'amore del Padre per noi e della nostra reale capacità di divenire l'immagine del Figlio suo.
Dai discorsi di Giovanni Paolo II alla Giornata mondiale della Gioventù di Toronto
Il gusto della vita
Nonostante le limitazioni sopraggiunte con l’età, conservo il gusto della vita. Al tempo stesso trovo una grande pace nel pensare al momento in cui il Signore mi chiamerà.
Dalla “Lettera agli anziani” di Giovanni Paolo II
Ancora su Giovanni Paolo II sul nostro sito
Nella sezione Approfondimenti del nostro sito www.gliscritti.it
- Le quattro sfide che ci sono dinanzi: la vita, il pane, la pace, la libertà religiosa
(Discorso di Giovanni Paolo II al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, nel gennaio 2005) - Non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono
(Giovanni Paolo II nelle Lettere per le giornate della pace) - Brani scelti dall'enciclica sull'eucarestia
(Ecclesia de Eucharistia) - La forza della debolezza
(S.Em.rev.ma card.E.Tonini sulla malattia del papa) - Solo nel mistero del Verbo incarnato trova luce il mistero dell'uomo
(S.E.mons.Fisichella per il 25° di pontificato) - L'enciclica Fides et ratio
(S.Em.rev.ma card. J.Ratzinger)