La questione del Gesù storico: una introduzione, Conferenza del prof. Carmelo Dotolo, tenuta presso il Centro Culturale L’Areopago della parrocchia di S.Melania l’11 marzo 2005 (tpfs*)
Il testo che mettiamo a disposizione on-line è la trascrizione della conferenza che il prof.Carmelo Dotolo ha tenuto presso il Centro culturale L’Areopago della parrocchia di S.Melania l’11 marzo 2005. In preparazione alla conferenza era stata preparata una sintesi dei criteri di storicità elaborati da p.R.Latourelle nella ricerca del Gesù storico, sintesi che era stata distribuita ai partecipanti all’incontro. Il testo si trova in appendice al fondo di questa pagina web.
Le parole del prof.Dotolo sono state trascritte dalla registrazione della sua riflessione e conservano pertanto lo stile parlato. Il testo non è stato rivisto dal suo autore.
L’Areopago
Indice
- La questione del Gesù storico: una introduzione Conferenza del prof. Carmelo Dotolo
- Scheda sui principali criteri di storicità dei vangeli, secondo la sintesi di René Latourelle S.J.
La questione del Gesù storico: una introduzione
Conferenza del prof. Carmelo Dotolo
Presentazione della conferenza da parte di d.Andrea Lonardo
Il prof. Dotolo è professore di Teologia delle religioni, un tema attualissimo, interessantissimo, presso la Pontificia Università Urbaniana. Gli abbiamo chiesto di introdurci al tema del Gesù storico. Come sapete questo è un tema centrale per la nostra fede e da sempre noi lo abbiamo nel cuore come credenti. Ma è un tema di attualità ancor più oggi.
Pensate, solo per fare un esempio, al problema del crocifisso. Sapete che l’Islam rifiuta il crocifisso non solo perché è un segno cristiano, ma, più profondamente, perché il Corano afferma, sebbene in modo molto sibillino, che Gesù non è mai stato crocifisso. Per la posizione islamica tradizionale Gesù, essendo un profeta santo, è asceso al cielo senza mai morire. Una religione come l’Islam che afferma di avere Gesù fra i suoi profeti più importanti nega, però, validità alla figura del Gesù storico, come ce lo trasmettono i vangeli. Allora è fondamentale ancora di più oggi che, in un dibattito culturale serio, realmente la scuola affronti la questione in modo rigoroso: Chi è Gesù? E’ morto in croce oppure no?
Pensate ancora alle riflessioni che abbiamo fatto in questi giorni sull’immeritatamente famoso “Codice da Vinci” di Dan Brown. Mi ha colpito nella piccola libreria annessa al cinema Nuovo Sacher di Nanni Moretti, un luogo dove la leggenda vuole che tutto sia quasi maniacalmente scelto con cura, vedere in vendita, insieme a cose di qualità, questo banalissimo libro. Un quotidiano come Repubblica, che si pregia di apparire come testata per persone di cultura, ha venduto lo stesso volume in allegato. In un liceo del nostro Municipio – così mi hanno raccontato studenti e genitori – un professore di italiano ha consigliato il romanzetto come un classico della letteratura.
Mi permetto di ripetere la battuta che faccio da un po’ di giorni: leggetelo, se avete tempo da perdere, ma fatevelo prestare, non compratelo; sono già troppi i soldi che ha guadagnato il suo furbo autore!
Il tema del Gesù storico si situa - al di là di queste battute iniziali che ho fatto solo per incuriosire un po’ e per accennare all’attualità del problema - all’interno della teologia fondamentale. La teologia fondamentale è quella branca della teologia che si occupa dei “fondamenti” della fede e della riflessione su di essa, in una doppia accezione. Da un lato cerca di dire quali sono i fondamenti dai quali derivano tutte le verità che crediamo, quindi cos’è innanzitutto la Rivelazione, cosa vuol dire che noi crediamo a Dio che si rivela. L’altro aspetto è invece la riflessione sui motivi della fede, sul fondamento del nostro credere: perché noi crediamo? Se la nostra intelligenza, il nostro cuore, oppure un ateo, una persona in ricerca, ci chiedono “Ma tu, perché credi? Cosa mi sai spiegare del perché della fede?” ecco che la teologia fondamentale cerca di mostrare le ragioni che l’intelligenza cristiana riesce a dare.
E’ molto interessante ed importante - è una cosa che vi invito ad avere sempre presente, anche come stile della vostra fede - il cercare sempre di porsi nell’ottica di capire come quello che noi crediamo può essere raccontato.
La dogmatica, invece, è la branca della teologia che spiega qual’è il contenuto della fede - quindi la Trinità, chi è Cristo, cosa è la Chiesa, ecc. Ma è evidente che queste due discipline della teologia – la fondamentale e la dogmatica – sono continuamente correlate. E’ proprio perché la fede è ciò che è che è credibile. Il suo contenuto e la sua credibilità non sono due realtà diverse. Sono come due aspetti uniti, perché dall’identità della fede cristiana, dalla sua pecularità, dipende anche il perché noi la crediamo. C’è una continua relazione fra queste due cose.
Con Carmelo Dotolo abbiamo studiato, sugli stessi banchi della Gregoriana, con i famosi sei libri del prof.R.Latourelle, il gesuita che ha dato forma alla disciplina della fondamentale.
Uno dei volumi porta il titolo di “Teologia della rivelazione” – tutti e sei sono editi dalla casa editrice Cittadella –ed affronta il fondamento della fede, la Rivelazione: cosa vuol dire che Dio si è rivelato, che non siamo noi ad arrivare a Dio, ma è Dio che si racconta a noi?
Da questo consegue il tema del Gesù storico: come facciamo noi a dire che Dio si è rivelato in Gesù? Cosa sappiamo di certo? In particolare si apre il capitolo dei miracoli di Gesù, della Resurrezione e così via. A questo p.Latourelle ha dedicato i suoi volumi “A Gesù attraverso i vangeli” e “Miracoli di Gesù e teologia del miracolo”.
Poi c’è un altro suo bellissimo testo che affronta il tema della credibilità a partire dal bisogno che l’uomo ha di un senso alla vita: “L’uomo e i suoi problemi alla luce di Cristo”. Perché l’uomo ha bisogno di credere? Come parlare oggi del senso della vita?
Infine un altro testo chiave del prof Latourelle, nostro maestro, sul tema della credibilità, si intitola “Cristo e la Chiesa segni di salvezza”. E’ il tentativo di parlare della Chiesa non solo come un dato di fatto - la Chiesa c’è perché Gesù l’ha voluta - ma domandandosi perché la Chiesa è un segno di credibilità. Perché la Chiesa aiuta a credere? Perché Gesù ha voluto al Chiesa, donandocela come motivo per credere?
Ma questa sera parleremo di uno solo di questi temi, introducendoci al Gesù storico. Ciò che ho accennato vale solo come una indicazione del contesto generale nel quale il tema di questa conferenza si inserisce. Avete sicuramente già letto la sintesi che abbiamo preparato sui criteri di storicità dei vangeli, secondo la proposta di p.Latourelle, che avremo come sfondo in questo nostro incontro (N.d.R. Questo testo è disponibile on-line, in fondo a questa pagina web).
Prof. Carmelo Dotolo
Sono contento di poter condividere con voi questo tema che, come ha detto don Andrea, è un tema affascinante. E’ affascinante perché è un tema centrale, così centrale da essere stato da sempre oggetto di problematiche piuttosto accese e di conflitti interpretativi. Vale a dire che dinanzi alla figura di un personaggio che corrisponde al nome di Gesù di Nazareth, detto il Cristo, si è scatenata nella storia della riflessione, una serie di prospettive diversificate, che hanno tentato in qualche modo o di sminuire il valore significativo che ha per la storia dell’uomo, o di ridurne la peculiarità. Basti pensare che ancora nel 1977-80 uno storico delle religioni, un certo Donini, affermava che Gesù era un fondatore leggendario di una religione che noi chiamiamo cristiana. Ora, affermare, da un punto di vista storiografico, che Gesù è un fondatore leggendario è dire una cosa difficilmente dimostrabile a partire dalle fonti che noi possediamo. Perché allora la questione del Gesù storico?
Sembrerebbe che l’aggettivo “storico” voglia fare emergere l’idea che noi invece ci troviamo di fronte ad un mito o dinanzi ad un personaggio che sicuramente ha qualcosa a che fare con la storia, ma che poi di fatto è stato sostanzialmente costruito, mascherato, orientato secondo gli schemi storici delle religioni che, quando devono affrontare qualcosa in relazione al divino, hanno bisogno di escogitare forme narrative tale per cui, sostanzialmente, deve essere chiaro che il personaggio in questione c’è e non c’è, è possibile analizzarlo e non è possibile. Il problema nasce nel 1700 - ed è indicativo che esploda in maniera molto forte in quest’epoca - in un momento storico in cui l’analisi della religione era soggetta ad una critica serrata. Ma è un problema antico. Già i primi scrittori cristiani, penso ad Agostino per citare il più famoso, sentiva il bisogno di fare chiarezza in una matassa abbastanza intricata. Quali sono i punti fondamentali o decisivi per l’analisi del Gesù storico? Credo siano tre, provo a schematizzare.
C’è un motivo di ordine teologico, quindi contenutistico, un motivo di ordine critico-letterario e un motivo di ordine culturale.
1 Il motivo teologico
Partiamo dal motivo di ordine teologico, che è decisivo per molti versi. Si tratta di questo: i vangeli ed il Nuovo Testamento ci mettono a disposizione un messaggio, un personaggio, che porta con sé qualcosa di straordinario nella comunicazione della significatività di Dio per l’uomo. C’è qualcosa di straordinario che entra nei circuiti della storia: l’affermazione che in un uomo concreto - un ebreo “marginale” rispetto alle categorie socio-culturali del tempo, come direbbero oggi alcuni studiosi - si è in qualche modo manifestata o rivelata, con terminologia che possiamo approfondire teologicamente, non tanto una delle possibili manifestazioni del divino di cui la storia delle religioni era a conoscenza in maniera più o meno chiara, ma addirittura si è fatto conoscere Dio. Dio, secondo la formula del vangelo di Giovanni, si è fatto uomo. Addirittura, con terminologia ancora più sottile, che in qualche modo risente dell’intreccio con la filosofia ellenistica e con la sapienza gnostica, “il Logos si è fatto carne”. Questa affermazione è solo apparentemente innocua, di fatto ha scatenato la critica sin dalle origine del cristianesimo.
Il cristianesimo porta con sé una strana vicenda, quella di dovere sempre e comunque giustificare se stesso. E la giustificazione di se stesso o, come direbbe la prima lettera di Pietro, il dovere dare delle ragioni, è parte integrante, appartiene al DNA dell’esperienza cristiana. Io sfido chiunque a porsi dinanzi a questa notizia e dire: “Beh, è normale, è ovvio, potrebbe appartenere alla probabilità dei casi”. Che un Dio si faccia uomo e che nella umanità concreta, reperibile secondo spazio e tempo, questo Dio, in questa umanità - e utilizzo adesso questa terminologia generica - esprima tutta la sua progettualità per l’uomo, non è affermazione che passi con troppa facilità. Anche perché questa affermazione provoca un capovolgimento dell’idea e dell’esperienza religiosa. Il capovolgimento è tale che l’uomo è chiamato a dover rivedere la sua idea di Dio, a dover rimettere in gioco la sua esperienza, a dover verificare cioè che Dio non è più soltanto una delle ipotesi possibili, ma che è una realtà talmente evidente da essere addirittura personale e storicamente inserita in una cultura. Il motivo teologico è grosso, di portata notevole.
Tanto è vero che si può affermare che il Nuovo Testamento, in fondo, risponde ad un interrogativo molto semplice: chi è Gesù di Nazareth? “Chi dite che io sia? Chi dice la gente che io sia?” Il Nuovo Testamento (e, insisto, i vangeli che hanno una loro priorità conoscitiva rispetto al resto del corpus neotestamentario, cioè al resto dell’altra letteratura, da Paolo in avanti) è una sinfonia di risposte che cercano in qualche modo, da prospettive complementari, di focalizzare la possibile identità di Gesù. Focalizzare questa identità cercando di cogliere in Gesù il senso profondo della sua persona e del suo messaggio. Il problema è che siamo dinanzi ad un evento così sorprendente, un evento che dalla storia della comprensione dei primi cristiani è sempre soggetto ad un urto con la ragione. Se noi sfogliamo la letteratura del Nuovo Testamento, quello che abbiamo, ci rendiamo conto che c’è sempre questa difficoltà ad accogliere qualcosa che è di fatto impensabile, indicibile: il dover in qualche modo ritenere che i gesti e le parole di un uomo possano essere i gesti e le parole del Dio che è all’origine della vita.
C’è sempre questa sorta di distanza che è segnata da stupore, ma anche da desiderio di capire fino a che punto Dio è capace di andare oltre la nostra immaginazione. Prendiamo un inno delle lettere paoline, quello contenuto in Filippesi 2,5-11, che è un inno molto antico, dicono gli studiosi. Circolava nelle comunità cristiane. Pensate ad una comunità cristiana come la vostra in cui sostanzialmente agli inizi di questa avventura meravigliosa di cui noi siamo in qualche modo partecipi, si iniziava a pregare, a riflettere, a sistematizzare l’esperienza attraverso alcune parole chiave. Questo inno dice una cosa che è emblematica della difficoltà e della incapacità di accoglienza di quegli uomini. Dice che questo uomo è colui che è diventato tale non ritenendo qualcosa di prezioso la sua identità con Dio. Una cosa grossa! Ed il testo greco è ancora più forte. Nelle comunità cristiane, lo stupore narrativo - che diventa anche preghiera, che è innico - è che quell’uomo è Dio. Adesso noi possiamo giocare con tutte le formule del caso, con tutte le prudenze etimologiche, perché queste sono presenti nella letteratura neotestamentaria, ma di fatto quando si dice che quell’uomo ha lasciato la μορφή, la forma di Dio, e si è fatto altro da sé per diventare uomo, e un tipo di uomo particolare, questo è qualcosa che è talmente forte che anche noi oggi faremmo la stessa difficoltà - e la facciamo, malgrado una tradizione molto ampia! - a ritenere che in quella storia ci sia qualcosa di più di una semplice indicazione di una idea del divino o di un semplice messaggero.
Questo è il dato teologico, il primo livello, quello fondamentale, quello che ha fatto scattare autori della letteratura filosofica e non. Perché una cosa interessante, se noi prendessimo la letteratura, a partire da Pascal, dall’inizio della modernità - lasciamo stare tutta la costruzione storica medievale, con tutte le difficoltà di organizzazione delle diverse anime cristiane – una cosa incredibile è come, da Pascal in avanti, in tutta la letteratura filosofica, che è quella che più ha insistito nel decostruire, cioè nel cercare di rompere l’affermazione che Gesù è Dio, che Gesù è il Cristo, non ci sia autore che non abbia preso in esame la figura di Gesù di Nazareth. Fino ai nostri giorni penso. E’ iniziata questa stranissima ricerca di tiro al piattello nei confronti di questo uomo che ha avuto la pretesa di essere Dio e di mostrarsi come Dio e di rivelare Dio. Non è un caso che il motivo della sua condanna è: “E’ un bestemmiatore, ha preteso di mettersi al posto di Dio”.
2 Il motivo storico-letterario
Il secondo livello è quello storico-letterario. Cosa si intende dire? Noi ci troviamo dinanzi ad una letteratura, il Nuovo Testamento, di fattura molto particolare. In qualche modo è espressione non tanto di un’elaborazione fatta a tavolino, come può accadere a qualsiasi scrittore il quale, sebbene non distante dalla realtà e dalla vita, quando costruisce un itinerario narrativo lo fa attraverso una serie di strategie che sono tipiche di ogni percorso letterario: studio, ricerca, appunti, canovacci, ecc.
I vangeli non sono una biografia, cioè non sono sostanzialmente ciò che ci si sarebbe aspettati per cercare di accedere alla conoscenza di Gesù di Nazareth, in maniera, permettetemi il termine, oggettiva. E’ evidente che chi prende il testo a distanza e lo prende al di fuori di una tradizione che ne ha in qualche modo coordinato l’interpretazione, o che ha dato alcuni strumenti dell’interpretazione, si trova davanti ad un testo elaborato secondo una prospettiva che non è quella di alcuni canoni storici e letterari che ci aspetteremmo. Se io prendo i vangeli, vorrei forse vedere o leggere una narrazione più lineare, un percorso che mi faccia comprendere determinati criteri o orizzonti nei quali io posso essere sicuro che ciò che sto leggendo non è semplicemente una possibile ricostruzione postuma, ma appartenga effettivamente allo svolgimento dei fatti. Se io prendo i vangeli avrei bisogno di un’organizzazione che mi faccia capire le cose secondo un ordine che invece attualmente non esiste, o comunque esiste secondo altri principi che poi cercherò brevemente di comunicarvi. Insomma, c’è una difficoltà, non possiamo nasconderci.
Sant’Agostino, che non era sicuramente uno sciocco, si era accorto che c’erano, non dico contraddizioni, ma delle opposizioni. Adesso queste cose possono farci ridere, perché apparteniamo ad un’epoca nella quale sono ormai state elaborate. Ma al tempo di Agostino il fatto che non fosse chiaro se lo stesso “discorso della montagna” Gesù l’avesse fatto sul monte o in pianura faceva problema. Se voi leggete il vangelo di Luca vi accorgete che il famoso discorso della montagna qui non è stato fatto in montagna ma in pianura. Perché questo faceva problema? Perché il ragionamento che è andato avanti per diciotto secoli era molto semplice; proviamo a riassumerlo, secondo la prospettiva di allora. Ci si domandava: chi sono gli autori dei vangeli? Sono due apostoli e due discepoli di apostoli. Questo ragionamento dava la garanzia che chi scriveva era effettivamente consapevole e conoscitore dei fatti. Gli apostoli hanno condiviso con Gesù quella breve parte dell’esistenza che è stata poi programmaticamente decisiva per il resto della storia del cristianesimo. E’ evidente allora – se fosse giusta questa impostazione di fondo appena descritta - che due apostoli non potevano riportare lo stesso discorso pronunciato in due posti diversi. Uno dei due si sbagliava.
I discepoli di apostoli (gli apostoli dei quali stiamo parlando erano, secondo la tradizione, Matteo e Giovanni, i due discepoli erano, invece, Marco e Luca), o almeno uno dei due, non riporta nemmeno il discorso. Marco non parla del discorso della montagna. Giovanni non riporta il discorso che parte dal “Beati voi” e giunge fino a quella conclusione bellissima “Cercate innanzitutto il regno di Dio perché ogni cosa vi sarà data in sovrappiù ed è inutile che vi affanniate”. Un passo significativo per la mia vita.
Pensiamo ancora ai fatti dei quali tra qualche settimana inizieremo la memoria, non tanto come fatto archeologico del passato, ma come esperienza di un cammino di conversione, pensate ai discorsi della passione, della morte e della resurrezione di Gesù che rivivremo nella settimana santa. C’è tutta una filmografia che si basa sulla cosiddetta prova-indizio del sepolcro aperto, basta citare “L’inchiesta” di Damiano Damiani. Se prendete i quattro vangeli non troverete una ricostruzione uguale: chi parla di una donna, chi di due, chi di tre, chi di un angelo, chi di due. E’ possibile che lo stesso fatto - e non è un fatto banale, perché sapete che l’evento della morte e resurrezione è un evento di apertura notevolissima; se non avessimo questo non staremmo qui a parlare - non abbia un’unica ricostruzione? Il livello letterario ha scatenato la letteratura critica che, a partire dal 1500-1600, iniziava ad appropriarsi dei testi senza più l’ipoteca interpretativa della Chiesa.
Ma l’osservazione più semplice è che di fatto Gesù non aveva lasciato nulla di scritto. La battuta “Gesù ha scritto solo una volta sulla terra, quando hanno preso l’adultera” è una battuta che si fa spesso, ma è un fatto vero. Come possiamo noi sostenere quello che abbiamo chiamato il livello teologico, che Gesù non era una specie di venditore di castagne ma era Dio, se questo uomo non è autore di nessun testo, se non ha proposto se stesso per iscritto? Per la storiografia di quel tempo, soprattutto di impostazione greca, alla Tucidide, era un problema. Tanto è vero che la formulazione del problema, così come è stato proposto nell’introduzione, è una formulazione che si ferma a metà. Perché il problema non è solo quello del Gesù storico, ma, come si iniziò a dire nel XVIII secolo, il problema era quello del Gesù storico e del Cristo della fede.
La questione non era tanto se il personaggio Gesù era storicamente esistito - questa era all’inizio una questione di secondaria importanza. Difficilmente si sosteneva la possibilità di creare, secondo le fonti vicine, extrabibliche o extraevangeliche, l’ipotesi della non-esistenza di Gesù. Il problema di altro tipo è: perché quel personaggio storico è stato interpretato come Cristo?Perché Gesù - nella sua storia concreta, con quello che ha detto e fatto - è Dio? Il problema essenziale è questo. Non abbiamo testi, c’è una confusione, non c’è una biografia, i vangeli hanno una struttura che non corrisponde alla logica della narrazione: qualcosa allora non funziona. Viene fuori l’ipotesi che provvidenzialmente ha aperto gli occhi alla ricerca della conoscenza dei vangeli. La critica di alcuni pensatori illuministi ci ha dato la possibilità di comprendere meglio quello che inizialmente era come una specie di pacco chiuso, un libro sigillato, composto in un certo modo, come mostrava una certa iconografia con lo scrittore sacro che tende l’orecchio e Dio che gli comunica ciò che deve scrivere. Chi di voi si ricorda il film “I dieci comandamenti”, di Cecil B.De Mille, con Charlton Heston nel ruolo di Mosè che sale sulla montagna e Dio con il raggio laser incide la tavola delle leggi. E non sto parlando del 1800, ma di un film del 1960, dove ancora si aveva l’idea che il testo fosse stato in qualche modo dettato.
La critica illuminista che fa nascere la questione del Gesù storico - perché tale questione è battezzata intorno al 1768-1780, anno più anno meno - ci fa capire che i vangeli non sono qualcosa di banalmente narrato, ma hanno una struttura molto profonda. Ripeto, l’età è indicativa, siamo intorno al 1700, si muovono critiche a ogni religione rivelata, che superi la ragione, che superi ciò che la razionalità può perimetrare. La ragione può accettare che ci sia un uomo pio, un uomo santo, un grande uomo, ma che un uomo sia Dio non si è mai sentito. Qual è la critica dei Lumi?
Samuel Reimarus, conoscitore di lingue semitiche e studioso delle religioni, ragiona in quegli anni più o meno così: “Attenzione, noi sappiamo che quest’uomo è morto, quindi si deve dedurre che sia nato ed è un fatto certo, almeno questo. Ma qualcuno dice che quel morto non è più morto, ma è, con metafora, risorto, cioè vivo. La ragione dice che quando qualcuno è morto rimane morto. Vivo non può più essere. Ma se è morto, perché ci hanno detto che è vivo? Cosa si sono inventati? Sospetto: non è forse da ipotizzare che il suo gruppo ha inventato il fatto della resurrezione per giustificare che in fondo il grande sogno che Gesù aveva alimentato nel suo popolo e con i suoi, di liberare i suoi, potesse continuare? Non è per caso che l’attribuzione che noi abbiamo, come messaggio significativo, che Gesù è il Cristo, cioè Dio, non sia altro che una attribuzione o una proiezione di un gruppo di uomini che a quel punto, vistisi smarriti, e avendo giocato la loro esistenza in qualcosa che dava loro la possibilità di credere e sperare in qualcosa di diverso, non sia un millantato credito? Hanno inventato, non tanto il personaggio storico, ma l’idea che quell’uomo sia Dio”.
Ecco la terminologia: il Gesù della storia, il Cristo della fede. Nell’Illuminismo, ma fino ad arrivare ai nostri giorni, perché questa polemica si è spenta intorno al 1960. Quindi non si è bruciata immediatamente ed oggi va avanti con altre modalità. In altre parole è accaduto che – così dicono i nostri critici – le prime generazioni cristiane si sono in qualche modo create una divinizzazione di Gesù, hanno mitizzato il personaggio storico conducendo quel livello di umanità, per certi versi anche eccezionale in alcune manifestazioni, addirittura adducendo una divinità, o sostenendo che quella persona sia il Cristo. Questa affermazione che sembra apparentemente essere rispettosa e, in qualche modo, attenta alla storia provocava di fatto come una specie di effetto domino, una crisi di ogni elemento storico. Se non è Cristo, avrà fatto i miracoli? Togliamo allora un po’ di miracoli. R.Latourelle, grande studioso contemporaneo del problema che avete sentito citare, diceva che se voi prendete il vangelo di Marco e ci togliete i miracoli, non rimane nulla. Il 66 % di quel testo è basato sui miracoli. Può questo uomo avere fatto o detto quello che ha detto in maniera così intensa: “Io sono”, “Vi fu detto, ma io vi dico”? Non è possibile! in fondo era uno dei tanti messia o millantatori politici e religiosi. Insomma sfogliando una immaginaria margherita veniva fuori secondo l’Illuminismo - è molto famosa in quest’ottica un’opera di Renan, “Gesù” - che Gesù era in fondo un buon maestro di morale, un uomo grande, ma non troppo, certamente interessante. Un uomo che difende una donna in un’epoca nella quale le donne valevano meno di quanto valesse una pecora, era sicuramente un uomo di grandi aperture, però poi alla fine, stringi stringi: si è fatto mettere in croce! E poi anche la morale... siamo sicuri che la morale di Gesù abbia un rigore razionale? Uno che dice di porgere l’altra guancia, che dice di camminare insieme per dare il mantello, che parla di amore del nemico e che addirittura dice che bisogna farsi prossimo anche laddove il prossimo non chiede nulla perché è semplicemente buttato lì, che morale è? Basta leggere un trattato di Aristotele o Schopenauer, non abbiamo bisogno di Gesù..
Alla fine non rimane nulla. Se poi noi togliamo anche quello che è contenuto nei vangeli dell’infanzia - perché è un guazzabuglio, non si capisce bene. Noi ancora oggi ci meravigliamo se qualcuno dice che i re magi non erano tre e deve intervenire Gianfranco Ravasi sul domenicale del Sole24ore per dire che nei vangeli non è mai citato il numero dei magi. Queste cose che a noi sembrano risibili, danno l’idea che se io tolgo tutte queste cose, cosa mi rimane? Se tolgo che è risorto, perché non corrisponde alla mia idea, anche il Gesù storico non ha più nessuna storia. Non è storico perché non sarebbe neanche registrabile storicamente. Cosa registro? Un personaggio che non ha fatto quello che si dice abbia fatto, che quello che ha detto non si sa se l’abbia detto, e che se ha detto qualcosa non è stato capito, ma allora perché stiamo perdendo tempo?
3 Il motivo “culturale”
Il terzo livello sintetizza gli altri due. Dobbiamo partire da questa idea. La provocazione degli illuministi ci ha fatto aprire gli occhi. Su un punto Reimarus aveva probabilmente ragione. Il ragionamento che si faceva fino al XVIII secolo, che gli scritti sono in qualche modo trascrizione di apostoli, che siano una sorta di registrazione sbobinata, non è corretto. Io sogno che ci sia il videoamatore che ha registrato il momento della resurrezione e soprattutto quello che ha filmato la creazione, ma i vangeli non sono una trascrizione o appunti di viaggio. Per il racconto di eventi storici o battaglie, basta leggere Le Goff e si risolvono i problemi. Anzi Le Goff è ritenuto più credibile di quanto lo sia uno studioso come Carlo Maria Martini, il quale ha studiato interamente il testo evangelico affermando che se noi abbiamo un testo tramandato correttamente secondo la tradizione manoscritta questo è proprio il vangelo, perché gli altri testi dell’antichità sono frutto di una serie di composizioni i cui tratti originali sono molto più difficili da trovare. Non voglio vendervi il prodotto, ma sappiate che se c’è un testo ricostruibile parola per parola, fatta eccezione per qualche piccolo vocabolo, è proprio il testo evangelico.
Questa è la forza dei vangeli, ma anche la fragilità di questi testi. Il testo dei vangeli è un testo, per dirla con una formula televisiva, testato clinicamente. E’ cioè un testo la cui elaborazione, sebbene fuoriesca dai canoni tipici della letteratura, è proprio per questo motivo, il più attendibile possibile. Innanzitutto perché il testo dei vangeli nasce come lettura retrospettiva dell’esperienza che un gruppo di uomini ha vissuto con Gesù di Nazareth. Quindi è un testo che non fa una narrazione ipotetica, ma una verifica narrativa di un’esperienza vissuta. Quello che ci hanno detto non è soltanto qualcosa che qualcuno ha potuto registrare in una conferenza nascosta che Gesù ha fatto in un luogo, ma è l’elaborazione attraverso diversi livelli, in cui è stata portata per iscritto l’esperienza. “Noi abbiamo scritto ciò che abbiamo visto e sperimentato”. La prima lettera di Giovanni dice:
Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato.
Non è la narrazione di una fiaba, ma la verifica vissuta, sperimentata e testimoniata da noi. Qui è interessante che, per la prima volta, nel campo della letteratura si introduce un principio che nella giurisprudenza e nella filosofia è fondamentale: il principio della testimonianza. La testimonianza che questi uomini hanno in qualche modo elaborato narrativamente, non è il lato debole del racconto che Gesù è Dio, ma la parte fondamentale. Perché senza testimonianza nella vita non si può ricostruire nessun fatto, se non quello che soltanto io ho visto. Nel momento in cui lo racconto, testimonio. Pensateci bene. Di fatto queste persone cosa hanno comunicato mettendolo per iscritto? La loro esperienza che è diventata espressione di una testimonianza verificata dalla vita delle comunità cristiana delle origini. E proprio questa testimonianza è diventata il luogo di cernita, organizzazione, narrazione dei vangeli. Proprio questa testimonianza ha deciso di selezionare quei materiali, quei fatti, quelle parole, quei discorsi, dando loro forma organica.
Allora i vangeli nascono come sguardo retrospettivo, a partire dall’evento fondamentale della morte e resurrezione. Prima noi non abbiamo testi scritti, prima di questo evento, probabilmente, come era tipico della cultura rabbinica di quel tempo. C’era solo la memorizzazione di eventi e parole, anche perché tutto sommato non c’erano tanti anni di distanza. Gli apostoli, coloro che hanno vissuto con lui - perché il termine apostoli indora la cosa - hanno visto e hanno potuto ricollegare l’evento che ha fatto scattare in loro la scintilla. Ma allora quell’uomo che ha fatto quelle cose, che ha detto quelle cose, non era semplicemente un profeta, un maestro! Si è mostrato vivo, si è lasciato toccare. E se si è lasciato vedere e toccare è qualcosa di più che ci torna in mente e che testimoniamo, allora ti ricordi quando ci diceva quelle cose, quando ha fatto quei gesti, quando ha parlato di quelle cose? Così il vangelo ha iniziato a ritessere, a ricucire, fatti, eventi, parole, che erano inizialmente frammentari, che capivano e non capivano. E’ ovvio, quando si è in cammino è difficile fare una sintesi del cammino stesso, bisogna fare una pausa, fermarsi e guardare. Ci vuole un avvenimento che ti aiuti a fare questo movimento di ri-comprensione del tuo vissuto. Questo avviene anche per la nostra vita. Mentre viviamo abbiamo difficoltà a capire il senso di quello che ci accade in modo immediato. Abbiamo bisogno di qualcosa che lo faccia emergere.
I vangeli sono una costruzione a tre livelli. Il livello ultimo è quello che abbiamo noi oggi in mano, la redazione. Pensate ad un giornale, è lo stesso processo. Gli evangelisti non erano scrittori a tavolino, erano testimoni che hanno vissuto e per un dono particolare hanno avuto il compito di mettere insieme, attraverso un processo molto articolato, quel testo. Tanto è vero che noi diciamo vangelo secondo Marco, secondo Luca, ecc. ecc. “Secondo” vuol dire “secondo il gruppo”, “secondo l’ispirazione”, “secondo la visuale” che Marco ha dato. La bellezza dei vangeli è che insieme formano una sinfonia.
Il secondo livello, precedente, è quello delle comunità che hanno fatto esperienza, questo a me sembra molto importante. E’ l’esperienza di quegli uomini che fa da tratto d’unione tra la redazione dei vangeli e la vicenda di Gesù. Non hanno scritto se non quello che hanno sperimentato.
Il che significa che se noi facciamo la stessa esperienza che hanno fatto loro, pur nella diversità dei tempi e dello spazio, noi possiamo incontrare Dio nello stesso modo nel quale loro lo hanno incontrato. Per cui loro non ci vendono fumo, ma unicamente quello che hanno sperimentato. L’unica cosa è mettersi nella diversità e nella ricchezza che ognuno di noi è e nelle differenze storico-socio-culturali e fare quell’esperienza.
Ma il nucleo fondamentale è Gesù di Nazareth, questo è il primo livello che genera gli altri due. Proprio colui che sembrava essere l’invenzione è colui che ha prodotto questa logica dell’interpretazione e la necessità di mettere per iscritto. Ha provocato questo perché quel personaggio non era semplicemente uno dei tanti possibili uomini saggi che la storia può inanellare, ma qualcuno che ha fatto loro sperimentare qualcosa di diverso.
Ecco perché i vangeli sono l’insieme della storia che Gesù ha provocato e quindi della sua storicità, della interpretazione, della fede della comunità cristiana. Perché la fede è sempre interpretante. Interpreta un evento e così facendo se ne appropria, perché questo è il nostro modo di vivere.
Il Gesù storico ci dice che nella sua storia c’è la possibilità di incontrare Dio e che non millanta credito, perché è stata clinicamente testata.
d.Andrea Lonardo
Voglio semplificare il ragionamento che stiamo seguendo, per chiarirlo ulteriormente. Se voi vedete i passaggi, i tre livelli, che il prof. Dotolo ci ha appena enunciato, quello degli evangelisti, quello delle comunità e quello di Gesù stesso, andando a ritroso, questi tre passaggi storici sono stati elaborati dall’Illuminismo in forma critica, per concludere: se c’è una comunità in mezzo tra Gesù e i vangeli, vuol dire che è tutto falso. Invece la nostra riflessione conserva i tre passaggi per dire esattamente il contrario: nei tre passaggi si perde la certezza di alcuni particolari – ma questo non ci scandalizza più, proprio perché gli evangelisti non sono testimoni diretti, oculari, e, quindi, su alcuni particolari non sono bene informati – ma proprio la concordanza delle comunità che trasmettono i vangeli ci riporta alla certezza storica ed ai dati fondamentali della vita di Cristo Gesù. Quei particolari che appaiono in contrasto fra di loro non li possiamo ricostruire storicamente, ma non ci scandalizziamo per questo, perché anzi il passaggio evangelisti-comunità apostolica-Gesù resta saldo. Non possiamo fare una biografia completa di Gesù, non sappiamo in che giorno e in che ora è successo un fatto singolo della sua vita, ma sappiamo che quell’evento che viene raccontato in comunità diverse realmente trasmette la realtà della vita di Gesù. Come se ognuno di noi facesse una sintesi degli anni passati insieme qui a S.Melania: ci sarebbero delle differenze, ma l’essenza di quello che abbiamo vissuto sarebbe tutta dentro al racconto, dentro ogni racconto. Ed, ancor più, trasparirebbe dalla lettura dell’insieme dei racconti.
prof. Carmelo Dotolo
I vangeli non hanno la preoccupazione di ricostruire i fatti, ma di narrare i fatti che sono diventati significativi. Nella lingua tedesca c’è questa differenza tra la storia fattuale e la storia come fatto significativo. Che Gesù mangiasse è un fatto, ma che Gesù abbia fatto alcune cene particolari è un evento. Per cui il problema non è tanto ricostruire le cene. La cena, nella logica dell’evento, era per Gesù e i suoi molto di più del semplice fatto di mangiare e bere. La ricostruzione fattuale secondo quella maniacalità cronachistica di cui noi vorremmo essere sicuri non è possibile. Mi rendo conto che è un’esigenza psicologica di tutti noi, tutti vorremmo agguantare il più possibile l’oggetto del nostro interesse. La scoperta dell’identità di Gesù non è semplicemente la presa d’atto di un fatto che ti sta di fronte come ti sta di fronte questo orologio. Ma la prospettiva è che Gesù invita ad un cammino tale per cui quei fatti diventano eventi ed eventi che hanno un valore che supera anche la storia. Per cui ogni volta che noi celebreremo un banchetto secondo le categorie che Gesù ci ha suggerito, noi faremo la stessa esperienza, nella diversità della storia, esperienza che ci fa entrare nel mistero, che è Gesù e che siamo noi, che non è risolvibile nella semplice fattualità, ma nel significato che quel fatto lascia emergere.
d.Andrea Lonardo
Facciamo un esempio, per chiarire meglio: il processo di Gesù. Uno potrebbe fare una serie di obiezioni storiche: chi ha sentito le parole del processo, quando Gesù stava dinanzi al sinedrio? E’ evidente che, se anche non sapessimo rispondere precisamente a questa domanda, se anche trascurassimo la testimonianza che alcuni del sinedrio erano favorevoli a Gesù ed hanno potuto poi raccontare l’andamento dell’interrogatorio agli apostoli, tutti, però, sapevano che Gesù è stato condannato perché si faceva simile a Dio. Non c’è dubbio sul motivo storico della condanna. Le letture marxiste dicevano, nei decenni passati, che Gesù è stato condannato perché era un agitatore politico, ma è una baggianata. Pilato sapeva benissimo che per i romani Gesù non costituiva alcun problema. Se anche noi non sappiamo esattamente a livello cronachistico alcuni particolari del processo, sappiamo benissimo che è stato condannato perché si faceva Figlio di Dio. Questo è il senso dell’evento. Uno può dire: è un pazzo. Ma, la cosa fondamentale è che Gesù pensava di essere simile a Dio. Questo è il fatto fondamentale. Non si può storicamente dire che Gesù si comprendesse semplicemente come un maestro di morale. Gli apostoli hanno detto: questo non è un pazzo. Perché lo hanno incontrato vivo, perché altrimenti alla sua morte sarebbe finito tutto.
Noi non possiamo difendere ogni singola parola di fronte ad una domanda cronachistica, non abbiamo una ricostruzione dettagliata, ma certo abbiamo una sintesi e la comprensione del perché Gesù è stato condannato. Alcuni autori vorrebbero far passare la tesi che le comunità cristiane si sarebbero inventate che Gesù era Figlio di Dio, mentre lui non lo avrebbe minimamente pensato. Ma allora perché è stato condannato? Invece Gesù è stato condannato perché bestemmiava, perché si faceva simile a Dio. Uno può criticare Gesù perché diceva cose divine, ma non può storicamente dire che non le abbia mai dette.
Scheda sui principali criteri di storicità dei vangeli, secondo la sintesi di René Latourelle S.J.
N.B. Il testo da cui è tratta questa sintesi è reperibile integralmente nella sezione Approfondimenti del nostro sito: Storicità dei Vangeli di René Latourelle
1. Criterio di attestazione molteplice. Viene enunciato così: «Si può considerare autentico un dato evangelico solidamente attestato in tutte le fonti (o nella maggior parte) dei vangeli»: Marco, fonte di Matteo e di Luca; la Quelle, fonte di Luca e di Matteo; le fonti speciali di Matteo e di Luca ed, eventualmente, di Marco; gli altri scritti del NT, in particolare gli Atti, il vangelo di Giovanni, le lettere di Paolo, di Pietro, di Giovanni, la lettera agli Ebrei. Il criterio ha maggior peso se il fatto è reperibile in forme letterarie diverse, attestate anch’esse in fonti molteplici. Così, il tema della simpatia e della misericordia di Gesù nei confronti dei peccatori, appare in tutte le fonti dei vangeli e nelle forme letterarie più diverse: parabole (Lc 15,11-32), controversie (Mt 21,28-32), racconti di miracoli (Mc 2,1-2), racconto di vocazioni (Mc 2,13-17). Questo criterio è di uso corrente nella storia universale. Una testimonianza concordante, proveniente da fonti diverse e non sospette di essere intenzionalmente collegate tra loro, merita di essere riconosciuta da tutti. Al limite, la critica storica dirà: testis unus, testis nullus. La certezza poggia sulla convergenza e sull’indipendenza delle fonti.
La difficoltà maggiore che lo storico incontra nell’applicazione di questo criterio ai vangeli, riguarda naturalmente1’indipendenza delle fonti.
2. Il criterio di discontinuità. Il consenso su questo criterio è praticamente unanime. Viene formulato cosi: «Si può considerare autentico un dato evangelico (soprattutto quando si tratta delle parole e degli atteggiamenti di Gesù) irriducibile sia ai concetti del giudaismo sia ai concetti della chiesa primitiva».
Così, l’espressione Abba, usata da Gesù per rivolgersi a Dio, dimostra un’intimità di rapporto che è qualcosa di inaudito rispetto al giudaismo antico. Solo Gesù ha il potere di rivolgersi a Dio come ad un padre, e soltanto lui può autorizzare i suoi a ripetere con lui: «Padre nostro». Di fronte alla legge, Gesù non ha l’atteggiamento dei farisei ostinati sui dettagli dell’osservanza esteriore; la sua attenzione verte immediatamente sullo spirito della legge. Il suo atteggiamento, per esempio, nei confronti del sabato e delle purificazioni legali, rappresenta un caso di rottura con il mondo rabbinico. Allo stesso modo, la sua visione del Regno differisce radicalmente da quella dell’ebreo medio. Quest’immagine unisce la grandezza del regno davidico all’umiltà della predicazione ai poveri, e la glorificazione finale del figlio dell’uomo alla sofferenza redentrice del Servo di Jhwh.
Vediamo alcuni casi di discontinuità con i concetti della chiesa primitiva:
- Il battesimo di Gesù lo annovera tra i peccatori: la chiesa primitiva, che proclama Gesù «Signore», come ha potuto inventare una scena in contrasto così violento con la sua fede? Lo stesso va detto della triplice tentazione, dell’agonia, della morte in croce.
- L’ordine dato agli apostoli di non predicare ai Samaritani ed ai Gentili non corrisponde più alla situazione di una chiesa che si apre a tutte le nazioni.
- Tutti i passi del vangelo in cui, malgrado la venerazione della chiesa primitiva per gli apostoli, si sottolinea la loro incomprensione, i loro difetti e perfino la loro defezione (tradimento di Giuda, rinnegamento di Pietro), contrastano con la situazione postpasquale.
3. Il criterio di conformità. «Si può considerare come autentico un detto o un gesto di Gesù che è non solo in stretta conformità con l’epoca e l’ambiente di Gesù (ambiente linguistico, geografico, sociale, politico, religioso), ma anche e soprattutto intimamente coerente con l’insegnamento essenziale, il centro del messaggio di Gesù, cioè la venuta e l’instaurazione del regno messianico». A questo riguardo, sono esempi tipici: le parabole, tutte centrate sul regno e sulle condizioni del suo sviluppo; le beatitudini, originariamente proclamazione della buona notizia della venuta del regno messianico; il Padre Nostro, primitivamente ed essenzialmente preghiera per l’instaurazione del regno; i miracoli, intimamente legati al tema del regno di Dio e al tema della conversione; la triplice tentazione, conforme al contesto della vita di Gesù e al suo concetto del regno: richiesta insistente di un prodigio, da parte degli ebrei, e rifiuto costante di Gesù; attesa di un messia politico e temporale, da parte degli ebrei, e predicazione di un regno interiore, da parte di Gesù; contrapposizione del regno di Dio e del regno di Satana.
I due criteri di discontinuità e di conformità si distinguono e si completano al tempo stesso. E la conformità con l’ambiente che consente di situare Gesù nella storia e di concludere che egli è veramente del suo tempo, mentre il criterio di discontinuità rivela Gesù come un fenomeno unico ed originale. Egli si distacca dal suo tempo e al tempo stesso vi si ricollega.
4. Il criterio di spiegazione necessaria. Ne proponiamo la formula seguente: «Se, di fronte ad un insieme notevole di fatti o di dati, che esigono una spiegazione coerente e sufficiente, si offre una spiegazione che chiarisce e raggruppa armoniosamente tutti questi elementi (che, altrimenti, resterebbero degli enigmi), possiamo concludere di essere in presenza di un dato autentico (fatto, gesto, atteggiamento, parola di Gesù)». Questo criterio mette in moto un insieme di osservazioni che agiscono per via di convergenza e la cui totalità esige una soluzione intelligibile, cioè la realtà di un fatto iniziale. Questo criterio viene usato abitualmente in storia, in materia di diritto e nella maggior parte delle scienze umane. Nel caso dei vangeli, ha ragione la critica di ritenere come autentica una spiegazione che risolve un grande numero di problemi senza farne nascere di più grandi, o senza farne nascere nessuno.
Così, molti fatti della vita di Gesù (per esempio, il suo atteggiamento nei confronti delle prescrizioni legali, delle autorità ebraiche, delle Scritture; le prerogative che egli si attribuisce; il linguaggio che usa; il prestigio che possiede e il fascino che esercita sui discepoli e sul popolo) hanno un senso solo se noi ammettiamo all’origine l’esistenza di una personalità unica e trascendente. Una tale spiegazione è più consistente di quella del ricorso ad una chiesa creatrice del mito Gesù. Nel caso dei miracoli, ci troviamo di fronte a una decina di fatti importanti che la critica più severa non può ricusare, e che richiedono una spiegazione sufficiente: l’esaltazione di fronte all’apparizione di Gesù, la fede degli apostoli nella sua messianicità, il posto dei miracoli nella tradizione sinottica e giovannea, l’odio dei sommi sacerdoti e dei farisei a causa dei prodigi operati da Gesù, il legame costante tra i miracoli e il messaggio di Gesù sulla venuta decisiva del regno, il posto dei miracoli nel kêrygma primitivo, il rapporto intimo tra le pretese di Gesù come figlio del Padre e i miracoli come segno della sua potenza.
Tutti questi fatti esigono una spiegazione, una ragione sufficiente.
5. Un criterio secondo o derivato: lo stile di Gesù. Per stile non intendiamo qui tanto lo stile letterario ma lo stile vitale, personale di Gesù. Lo stile è il modo di pensare che modella il linguaggio; è lo slancio, il movimento dell’essere che si inscrive non solo nel linguaggio, ma negli atteggiamenti e nel comportamento globale. E’ quell’impronta inimitabile della persona su tutto ciò che essa fa e dice. Le componenti di questo stile, tuttavia, potrebbero essere stabilite solo a partire dai criteri fondamentali di attestazione molteplice, di discontinuità, di conformità e di spiegazione necessaria. Per questo parliamo di stile secondo o derivato. Una volta riconosciuto e definito, lo stile diventa a sua volta criterio di autenticità.
A proposito del linguaggio di Gesù, Schürmann fa notare che esso è caratterizzato da una coscienza di sé di una maestà singolare, senza confronto; da una nota di solennità, di elevazione, di sacralità; da un accento al tempo stesso di autorità, di semplicità, di bontà, di urgenza escatologica. Gesù inaugura nella sua persona un’era nuova.
Nel suo comportamento, osserva Trilling, si può notare «un amore sempre uguale per i peccatori, pietà per tutti quelli che soffrono o sono oppressi, una durezza impietosa verso ogni forma di sufficienza, una santa collera contro la menzogna e l’ipocrisia. E soprattutto un riferimento radicale a Dio, Signore e Padre».
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