I fiori del male di Charles Baudelaire Conferenza del Prof. Sergio Zatti nel ciclo “Perché leggere i classici?” tenuta presso l’Areopago il 13 maggio 2005, in collaborazione con l’Associazione Guido Sacchi - Il piacere d’imparare. (tpfs*)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 17 /10 /2022 - 20:54 pm | Permalink | Homepage
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Presentiamo on-line la trascrizione della conferenza sull’opera di C.Baudelaire del prof.Sergio Zatti, ordinario di Letteratura italiana e docente di Storia della critica letteraria presso l’Università di Pisa. Il tema faceva parte del ciclo “Perché leggere i classici?”, progettato dal prof.Guido Sacchi. L’Associazione Guido Sacchi-Il piacere d’imparare ed il Centro Culturale L’Areopago hanno voluto riprendere questo progetto per onorare la memoria di Guido, una volta che il Signore lo ha chiamato a sé. Le prime conferenze tenute da Guido Sacchi su Tolstoj, Virgilio, Ariosto, Dante sono disponibili on-line sul nostro sito www.gliscritti.it. Informazioni sulle prossime conferenze che seguiranno saranno a disposizione nella Bacheca dello stesso sito oppure sul sitowww.ilpiaceredimparare.com

L’Areopago

PROF. ZATTI

Grazie a tutti quanti che siete qui. Il motivo per cui io sono qui è stato appena detto: ero un amico di Guido, ero anche un suo professore. Lui venne appunto, giovane normalista e ci fu questo incontro proficuo per entrambi. Allievo che subito si era messo in mostra per la particolare brillantezza ed intelligenza, ma anche, come voi sapete meglio di me, per la sua grande disponibilità e simpatia umana. Non vado oltre perché sennò mi emozionerei.

Io sono qui per parlarvi di uno dei classici che Guido aveva in mente di illustrarvi: è un poeta a me molto caro, ritengo che sia il più grande poeta della modernità, intendendo la modernità dalla metà dell’800 in poi. “Les fleurs du mal” vengono pubblicati nel 1857, quindi a metà, stavo per dire del secolo scorso per inveterata abitudine, in realtà di due secoli fa, ormai, e vorrei cominciare subito cedendo la parola a qualcun altro che vi è stato presentato avvertendovi che la nostra prima lettura non è né una poesia, né tanto meno appartiene a “Les fleurs du mal”: è una brevissima prosa, tratta da “I piccoli poemi in prosa” di Baudelaire, mezza paginetta che rappresenta un documento fondamentale, è la testimonianza di come è cambiata la storia della poesia, di come, dopo la svolta romantica, la poesia abbia preso altre strade e Baudelaire è stato il primo grande innovatore, il vero poeta della modernità. Quindi invito Enzo Labor a leggere questa prima prosetta

ENZO LABOR

Perdita d'aureola

«Ehilà! voi qui, mio caro? Voi in un postaccio? voi, il bevitor di quintessenza, voi, il mangiator d'ambrosia?
C'è da essere stupito, davvero.
Mio caro, sapete il terrore che ho dei cavalli e delle vetture. Prima,
come attraversavo in gran fretta il viale, e saltellavo nella mota, attraverso quel mobile caos dove la morte arriva galoppando da tutte le parti
contemporaneamente, la mia aureola, in un brusco movimento, m'è
scivolata dal capo nel fango della massicciata. Non ho avuto il coraggio di raccattarla. Ho ritenuto meno spiacevole perdere le mie insegne, che non
farmi rompere l'ossa. E poi, mi sono detto, non ogni male viene per nuocere. Ora posso girare in incognito, fare delle bassezze e darmi alla crapula come i semplici mortali. Ed eccomi in tutto simile a voi, come vedete!
- Dovreste almeno mettere un annuncio riguardo all'aureola, o farla richiedere dal commissario.
Assolutamente no! Mi trovo bene qui. Voi, voi solo m'avete riconosciuto. Del resto, la dignità m'è venuta a noia. Poi, mi piace il pensiero che qualche
poetastro la raccatterà e se ne cingerà sfacciatamente. Far felice uno, che
piacere! e soprattutto, felice uno che mi farà ridere!
Pensate a X, o a Z! Sarà proprio buffo, no?»

PROF. ZATTI

Allora, perché comincio da qui? Comincio da qui perché, come avete capito, si tratta di una prosa che è insieme allegorica e insieme satirica. Allegorica di che cosa? Voi sapete tutti che i poeti, almeno i poeti da Dante e Petrarca in poi, erano i cosiddetti “poeti laureati”, laureati nel senso che avevano in testa una corona d’alloro, una corona d’alloro significava la sanzione, la consacrazione, la funzione sacrale diciamo della poesia e del poeta. Petrarca verrà addirittura incoronato in Campidoglio con la corona d’alloro. Bene, questo poeta invece ha perso la sua aureola: non scambiatela con l’aureola dei santi, è la corona d’alloro dei poeti. Però i poeti sono in qualche modo, se non proprio dei santi, anzi Baudelaire come vedremo è essenzialmente un peccatore, un satanico piuttosto che un santo o un angelo, però i poeti hanno o almeno avevano, e questo è il punto, avevano una loro sacralità, i sacerdoti della poesia, la coscienza della collettività, della loro società, di cui erano in qualche modo portavoci legittimati ed investiti di questa funzione.
Che cosa ci racconta qui Baudelaire? Ci racconta, in forma di aneddoto, di uno strano episodio cittadino, in cui questa aureola gli cade dal capo, e naturalmente l’incidente è da leggersi in senso allegorico. Il poeta ha perso la sua aureola, ha perso la sua corona d’alloro, cioè ha perso, fuor di metafora o fuor di allegoria, ha perso la sua sacralità, la sua investitura, non è più la coscienza critica della società, il portavoce dei suoi ideali, non è più cioè quello che si chiamava un tempo “il poeta-vate”, il poeta oracolare, il poeta-sacerdote, insomma la coscienza collettiva di una certa società. E’ come se, a causa di certi cambiamenti epocali di cui adesso vedremo anche le ragioni, il pubblico avesse ritirato il suo mandato al poeta, avesse ritirato la sua investitura, gli avesse tolto insomma quel carisma, quella sacralità che appunto si identifica allegoricamente nell’aureola.

Ma esaminiamo più da vicino questa brevissima e pure fondamentale prosa, costituita essenzialmente da un breve dialogo. Le prime battute parlano dello stupore di un incontro di questo personaggio anonimo che si imbatte nel poeta e gli dice: “Come, qui voi,in questo postaccio!”. In realtà cos’è questo postaccio, dov’è che è stato incontrato il poeta? è stato incontrato all’uscita di un bordello. Non è esattamente il luogo che frequentano i poeti, anzi, in questa scelta c’è tutta la portata provocatoria, polemica di Baudelaire. Il poeta non viene più fuori dalle accademie, dalle istituzioni, dai salotti buoni, viene fuori da un bordello. E gli è anche successo un incidente a causa del traffico cittadino: voi dovete immaginare la Parigi di metà del secolo diciannovesimo, appunto, dove lo choc del traffico, di queste carrozze, di questi cavalli lanciati e scatenati per le strade oggi ci fa un po’ ridere che sia considerato un traffico vertiginoso e persino mortale. Però Baudelaire dice, quasi sono stato investito, tramortito e ucciso da una carrozza lanciata al galoppo, ho salvato la vita ma ho perso le mie insegne: nel ritrarmi sul marciapiede è cascata la mia aureola, è finita nel fango. Anche qui ovvia allegoria, ovvia metafora della degradazione, questa aureola che sta in cima al capo adesso è finita nel fango ed è finita nel fango perché è stata travolta dal traffico cittadino. Baudelaire, come vedremo presto, è il grande poeta della città, cioè della città che si sta trasformando in quella che è oggi la metropoli, o forse la megalopoli attuale. Ma già allora, la Parigi di metà ottocento, era un luogo del traffico, del mercato, delle carrozze, dei cavalli lanciati, e soprattutto il luogo della folla: vedremo che al centro della riflessione di Baudelaire c’è la folla come una fiumana indistinta, anonima, caotica, un fiume nuovo che si è riversato per le strade della città e nel quale il poeta si è perso perché è diventato un individuo fra gli altri, è diventato un anonimo nella massa indistinta dei senza nome, non è più riconoscibile e infatti dice il suo stupore, se ricordate nella lettura “voi, voi solo mi avete riconosciuto”. Il poeta ha perso la sua identità, ha perso le sue insegne, ha perso insomma i segni della sua diversità e della sua funzione sociale, del suo ruolo, un ruolo riconosciuto, una sorta di investitura sacrale, per cui appunto il poeta-vate, il poeta che porta il messaggio di una società, adesso è ridotto ad un individuo qualunque, sconsacrato e depresso, che gira solo per le strade della città; la folla anonima e frettolosa non lo riconosce, lui stesso frequenta ambienti che di solito non sono gli ambienti frequentati dai poeti, e come reagisce a questo trauma? Come vediamo nel corso di questo breve aneddoto cittadino, sostanzialmente Baudelaire assume il disastro, la catastrofe che ha colpito lui in quanto poeta, lo assume con una sorta di sberleffo amaro che nasconde l’orgoglio ferito. Cosa risponde all’amico che dice beh, ma insomma possiamo ritrovare questa aureola, rimettertela in testa, oppure possiamo addirittura andare al commissariato di polizia e troveremo qualche detective che la trova e poi te la rimette sulla testa e non avrai perduto nulla. Lui dice, no, no assolutamente, in fondo mi va bene che sia così: senza questa aureola io non ho più bisogno di avere la mia dignità, di avere la mia buona coscienza, di essere insomma l’uomo delle istituzione, il portavoce della coscienza collettiva. Sono un individuo e posso anche fregarmene del mondo e posso andare al bordello tutte le volte che mi pare.

Naturalmente qui bisogna vedere tutte le due facce di questa dialettica psicologica: il poeta ha subito un trauma, perdendo la sua legittimazione sociale, ma reagisce provocatoriamente dicendo “ben venga questo trauma, questa caduta, questa catastrofe, farò di questa caduta una forza” e quindi riscatta in orgoglio quella che è una perdita. L’orgoglio è quello di essere finalmente svincolato dal dovere sociale, di essere il poeta che parla soltanto per se stesso e che non ha bisogno di coltivare e di veicolare messaggi positivi perché può parlare soltanto del proprio io e può coltivare dentro di sé anche “i fiori del male”. Appunto il fiore del fango cittadino, il fiore della caduta del poeta, il poeta che si rappresenterà, lo vedremo presto in una poesia, come un angelo decaduto, un angelo che è caduto dai cieli nel traffico, nel fango cittadino e in fondo mostra o forse finge disperatamente di godere di questa condizione che non ha scelto ma in cui gli toccherà vivere. Da allora in poi i poeti sono sempre stati più emarginati dalla coscienza collettiva della società: altri vati, altri profeti, altri imbonitori forse li hanno sostituiti.
Questo è un testo capitale, un testo che appunto in poche righe, mezza pagina, racconta un trauma epocale, una catastrofe. E’ una catastrofe dell’individuo ma è anche una catastrofe del ruolo e quindi di una funzione collettiva, una società insomma che perde il suo portavoce, il portavoce soffre e al tempo si inorgoglisce di questa emarginazione, di questo essere cacciato ai margini della società.
Questo trauma inaugura la poesia della modernità: da allora in poi le cose non saranno più uguali e tutti i poeti, fino a quelli oggi viventi, contemporanei, sono in qualche modo figli o nipoti, comunque gli eredi, di Baudelaire e di questa condizione, di questo trauma.

Volevo cominciare, appunto, come si dice in retorica, in medias res; adesso cerco di recuperare qualche cosa che abbia anche carattere informativo dal punto di vista storico. Charles Baudelaire, giovane poeta parigino, scrive un libro di versi che vede la luce nel 1857: sono poesie, strane, anomale, poesie provocatorie e spesso di contenuto osceno, tanto è vero che ci vuole un editore coraggioso, perché le pubblichi. Basti dire che di questa dichiarata voglia di provocazione, di scandalo è testimonianza il fatto che una della sezioni di questa raccolta si chiamasse “les lesbiennes”, le lesbiche. Immediata è la reazione del perbenismo borghese: una recensione malevola del “Figaro” determina addirittura l’intervento della magistratura, proprio di quella stessa magistratura che aveva messo sotto processo un altro grande testo, ma questo narrativo, pubblicato in quegli anni, e cioè “Madame Bovary” di Gustave Flaubert. Lì tema dell’adulterio è trattato in modo che appunto suscitasse scandalo. Baudelaire come Flaubert sono condannati e tuttavia Baudelaire continua a progettare una seconda edizione arricchita di questa raccolta che compare nelle librerie nel febbraio del 1861. E’ un testo aumentato di trentacinque nuovi componimenti, diviso in sei sezioni rispetto a quelle che erano prima cinque, aggiunta una intera nuova sezione, i “Tableaux parisiens”, fondamentalissima, cioè “I quadri parigini”, e introdotta da un’apostrofe in versi che poi leggeremo: “Al lettore”.
Il testo non segue una sua cronologia, una cronologia di composizione. Baudelaire dice a più riprese che non ha voluto scrivere una raccolta di poesie, ha voluto costruire un libro e c’è una sorta di sfida al lettore del tempo e al lettore di ogni epoca, a riconoscere quella che Baudelaire chiama “l’architettura segreta” di questo libro; un libro, cioè, in cui i vari componimenti e le varie sezioni sono come capitoli di una storia e quindi sono organizzati non in modo cronologico ma in modo tematico e strutturale.

Baudelaire lavora tutta la vita sostanzialmente ad arricchire questo suo libro così provocatorio e scandaloso. Naturalmente deve fare i conti intanto con problemi personali, la malattia e i problemi familiari, poi deve fare i conti appunto con le controversie con gli editori che non erano tanto d’accordo con l’idea di andare incontro alle reazioni della morale pubblica e alle contese legali. E quindi c’è anche tutto un gioco di dissimulazione, insomma, a cercare di filtrare tra le maglie della censura e riuscire a pubblicare queste poesie che approdano infine alla terza edizione de “Les fleurs du mal” stampata nel 1868. E quello il testo che oggi noi leggiamo.

Dunque, che cos’è questo libro, questo canzoniere, potremmo dire: non è appunto una raccolta, non è un diario nel senso in cui si può intendere romanticamente l’idea che il poeta riversa sulla pagina la propria soggettività, la propria anima, la propria interiorità, ecc. Baudelaire dice che questa è una costruzione, una narrazione, un continuum narrativo, naturalmente non articolato come può essere articolato un romanzo, ma un continuum fatto per frammenti: ogni poesia è una tappa, un capitolo di una storia, e si tratta di individuare il disegno di questa costruzione, quella che appunto lui chiamava “l’architettura segreta”.

Dicevamo, non è un diario romantico, non è l’anima del poeta riversata dentro la pagina e tuttavia Baudelaire dice che questo è un libro atroce, un libro in cui c’è una materia passionale, sentimentale, fortissima, che è però soltanto la genesi di questo libro. Altre invece sono le forme in cui è scritto questo libro, cioè l’anima non viene riversata con tutta la sua passionalità e tutti i suoi aspetti che abbiamo visto prima, osceni, scandalosi, ecc., ma viene riversata attraverso filtri di varia natura tra cui la dimensione allegorica e altre forme che devono mitigare questa calda materia vitale entro forme che Baudelaire dice di “rigida e gelida architettura”. Quindi c’è una sorta di contrasto inerente “Les fleurs du mal” che sono infatti, a partire dal loro titolo, una costruzione poetica tutta fondata su antitesi, appunto una calda materia, una passione che però si dissimula entro forme rigide, entro forme neutre, entro forme quanto più possibile allontanate e distanziate da questa adesione immediata alla natura che era tipica della poesia romantica, e invece Baudelaire vuole stabilire una rottura rispetto a questa tradizione.
Quindi è una poesia che non è il prodotto immediato di quella che romanticamente si chiamava l’ispirazione, la visitazione delle muse, ma è il prodotto dell’intelligenza, il prodotto del calcolo: la poesia non è effusione immediata ma lavoro ed è significativo che un poeta che vive a metà dell’800, in una città come Parigi che si stava organizzando in forme di capitalismo industriale e vedremo che la grande rivoluzione epocale entra nella poesia di Baudelaire e improvvisamente il capitalismo maturo, il capitalismo industriale diventa il nemico, il nemico da combattere, il nemico della poesia e tuttavia in qualche modo questo determina anche l’idea che il poeta non deve essere un nulla facente, uno che semplicemente aspetta che le muse vengano a visitarlo per scrivere le sue poesie. No, anche lui si organizza secondo idee di produzione, di produttività, fare poesia è un lavoro, quindi il cosiddetto “labor limae”, di cui parlava già Orazio, il lavoro della lima, la raffinatezza formale, diventa lo strumento di un lavoro. Anche il poeta nel momento in cui si sente emarginato perché è una figura improduttiva, tende quindi a replicare mimeticamente le funzioni della società industriale dove tutto ciò che conta è legato al mercato, alla produzione, all’utile, ecc. Naturalmente questo è, proprio come nel caso della perdita di aureola, una sconfitta che il poeta cerca di riscattare in orgoglio compositivo e si arriva quindi a questa costruzione, che adesso vi racconto molto brevemente, e poi ci fermeremo a parlare essenzialmente del titolo.

Come cominciano “Les fleurs du mal”? Cominciano con un’apostrofe al lettore che adesso leggeremo perchè, per il suo carattere, è assolutamente anomala, provocatoria; poi è seguita da una prima sezione, potremmo dire un primo capitolo, che si intitola “Spleen et idéal” noia esistenziale, depressione (ma su spleen dovremmo ragionare un attimo) e ideale, aspirazione all’assoluto dove al centro della riflessione è proprio la figura del poeta, il poeta parla insomma di se stesso, della sua condizione di essere poeta nella società capitalistica industriale.
Il poeta è essenzialmente un angelo decaduto come abbiamo appena visto nella “Perdita di aureola”. Che cos’è lo spleen? Lo “spleen” è quella parola inglese che è entrata nel vocabolario francese grazie a Baudelaire ed ha cittadinanza anche nel nostro vocabolario. Spleen è quella condizione che sta fra la noia e la malinconia e tuttavia ha anche una dimensione più forte, arriva fino alla depressione, all’umor nero. Lo spleen, secondo Baudelaire, è la condizione dell’uomo moderno nella desolazione delle sue metropoli, nell’assenza di valori, nella caduta appunto di questo angelo che è il poeta che tutt’al più può frequentare bordelli, parlare di temi ripugnanti e osceni, insomma trasformarsi in una sorta di satana, proprio perché è caduto da una sua condizione di angelo. Lo spleen è il tedio, l’ennui, la depressione che ci prende nella vita delle grandi metropoli: a questo cosa si oppone? Si oppone lo slancio verso l’alto, l’idéal, i cieli azzurri, i paradisi intravisti che però possono essere raccontati solo come rimpianto come nostalgia. La condizione dell’uomo moderno è una condizione urbana, metropolitana, quindi spleenetica, se si può passare questa parola, e tuttavia resta l’aspirazione all’alto, al sublime, al cielo, ma resta soltanto come possibilità perduta. Baudelaire soltanto in rare occasioni si mostra ottimista rispetto a questo recupero dei paradisi perduti e vedremo anche che le sue vie di fuga sono piuttosto discutibili.

La sezione seguente, appunto i “Tableaux parisiens”, i quadri di vita cittadina ed è un tentativo appunto del poeta di confrontarsi con la città e con il suo tedio, il suo ennui, il suo spleen. Poi seguono quattro altre sezioni che sono, potremmo dire, la presa d’atto di questo fallito tentativo di uscire dalla condizione spleenetica della metropoli e quindi sono, sostanzialmente, la testimonianza di una integrazione fallita e sono altrettanti tentativi o di negazione della condizione moderna o di evasione rispetto a questa realtà inaccettabile. Quali sono le vie di fuga possibili? Una è l’evasione esotica, cioè l’idea che fuori, lontano dalla città esistano dei luoghi incontaminati dove la natura è ancora vergine, innocente e ci si può forse rifugiare. Baudelaire infatti partirà anche per l’oriente, per i Mari del Sud, alla ricerca di questo esotismo pacificatore e appunto evasivo. Ma poi vedremo, leggendo le ultime poesie, vedremo come le cose vanno a finire anche da questo punto di vista.

Poi ci sono quelle che chiamavo le altre vie di fuga, più discutibili, quelle che lui chiama “i paradisi artificiali”. Il linguaggio di Baudelaire, lo dico subito, è un linguaggio intrinsecamente cattolico, preso dalla religione, però da una religione che appunto parla sostanzialmente della perdita di Dio, quindi di una religione che è diventata la condizione satanica dell’uomo moderno. Infatti cosa sono questi paradisi artificiali? Una sezione si chiama “Il vino”, una sezione si chiama “La droga”. Baudelaire era notoriamente un fumatore di hashish e di oppio e insomma questi paradisi artificiali stanno fra il fascino della distruzione allucinatoria e forme di erotismo perverso, di erotismo appunto malato e afflitto da sensi di colpa.
Dopo la via della fuga esotica e la fuga nei paradisi artificiali, alla fine c’è un’ultima sezione che è quella che chiude il libro, che si chiama “La morte”, perché la morte è considerata l’ultima possibilità di fuga, e la morte è l’attraversamento dell’ignoto, la fuga senza sapere dove. C’è una bellissima poesia, di cui leggeremo soltanto una sezione, che dice sostanzialmente “io sono di quelli che credono che il viaggio sia fatto per chi parte per il solo gusto di partire” e non perché si deve arrivare a qualche meta. Il viaggio vale di per sé, il viaggio è una fuga verso l’ignoto alla ricerca del nuovo, alla ricerca di territori incontaminati, alla ricerca di territori innocenti, quelli che nella società massificata sono sempre più difficili da trovare, lo sappiamo bene noi che veniamo 150 anni dopo Baudelaire, e che qui vediamo un nostro, come dire, progenitore sostanzialmente, intuire come il mondo si omologhi dentro una dimensione metropolitana che non lascia spiragli e vie di fuga verso la natura. Perché anche quando si ritrovano questi supposti paradisi, oggi si chiamano le Seychelles o le Maldive, in realtà sono luoghi già colonizzati, luoghi in cui l’industria culturale è già arrivata e quindi noi non facciamo altro che vivere esperienze di falsa natura, di artificialità dell’esperienza. Baudelaire già all’epoca intuiva questa dimensione dell’impossibilità dell’idillio naturale, della fuga esotica, l’evasione nella natura. Allora partire sul vascello della morte alla ricerca del nuovo e dell’inconnu, dell’ignoto, significa anche l’ultimo approdo possibile per il poeta. Il poeta ha sempre dalla sua un’ancora di salvezza, nel fallimento delle sue esperienze vitali, esistenziali, la poesia, la poesia è considerata una ancora di salvezza, una salvezza individuale o collettiva a seconda dei casi. Tutta la poesia moderna nasce, o almeno gran parte della poesia moderna nasce dentro questa esperienza della caduta, del trauma e del fatto, della morte di Dio in qualche modo, e di una religione che viene sostituita dalla fede nell’arte. Baudelaire è colui che intravede la forma della salvezza nell’arte, nella capacità della parola di esplorare territori nuovi e sconosciuti e quindi diventa una sorte di religione laica, tutta individuale, tutta sostitutiva proprio perché il sofferente della modernità, come Baudelaire ama chiamarsi, sente che appunto nella realtà contemporanea si sono perduti quei valori e la disperata ricerca di questi approda sostanzialmente ad un fallimento.
La poesia quindi, e l’arte in genere, rappresenta una sorta di religione sostitutiva, di religione laica che propone una salvezza tutta individuale. Ma è significativo che Baudelaire usi il linguaggio della religione, il linguaggio della religione cattolica, ma per andare da un’altra parte sostanzialmente o forse per dissimulare una grande nostalgia di fronte al vuoto, una grande nostalgia della pienezza dei valori che si sono perduti.

Logicamente verrebbe prima il titolo “I fiori del male”. Ho detto che la poesia di Baudelaire è tutta fondata sulle grandi antitesi, come spleen ed ideale. I fiori del male sono a loro modo un’antitesi, quelle che noi, abituati al linguaggio della retorica e della letteratura, chiamiamo un “ossimoro”, cioè una violenta contrapposizione. Perché come fanno i fiori ed il male a stare insieme? Il fiore è il simbolo stesso dei valori, è l’emblema di quello che la poesia romantica aveva esaltato come sentimento, bellezza, bontà, ecc. ecc. Invece questi fiori baudelairiani sono il frutto, il fiore malato, prodotto da quel fango che abbiamo visto, dal male sostanzialmente, perchè la natura è male secondo Baudelaire e i fiori che vi crescono sono fiori malati che possono anche essere scambiati per un ornamento, una bellezza della nostra esistenza Ma in realtà dobbiamo sapere che questo fiore affonda le sue radici in una terra, in una natura che si è corrotta e quindi lui diventa provocatoriamente il poeta del male, dei fiori del male. Non più il fiore romantico, la bellezza, il valore, ecc., ma la sua antitesi, sempre come conseguenza di quel trauma che dicevamo prima: il poeta una volta che ha perduto la sua investitura, la sua sacralità, si sente libero, maledettamente libero di cantare anche non più i valori positivi della coscienza collettiva, si sente libero di cantare i loro opposti, di cantare satana piuttosto che Dio, però mantenendo una profonda nostalgia di Dio, della natura buona, della natura romantica, ecc.

Dato però che poi tutto Baudelaire è profondamente pieno delle valenze più diverse, bisogna anche dire che il fiore è anche la rappresentazione di qualche cosa che pure è erede di quella concezione romantica: il fiore è ornamento, è bellezza, è un prodotto della natura che non ha una valenza immediatamente produttiva, il fiore non è utile a nessuno, almeno in prima istanza pratica e allora celebrare dei fiori, anche se i fiori del male, per Baudelaire vuol dire anche giocare la carta polemica contro una società profondamente mercificata, in cui tutto ha un valore di mercato, persino la poesia diventa qualcosa che va sul mercato per vendersi in concorrenza con altre poesie, e quindi il fiore diventa sostanzialmente la negazione della merce, la negazione di una bellezza che assume un valore di mercato. La sua bellezza sta nella sua gratuità, sta nella sua improduttività, proprio perché il mondo è stato invaso dalle merci e la città è stata contaminata dal mercato.

Io direi che a questo punto possiamo leggere questa apostrofe “Al lettore”. Questa è la poesia che apre “I fiori del male”, è la dedica al lettore.

ENZO LABOR

Al lettore

Stupidità e peccato, errore e lésina
ci assediano la mente, sfibrano i nostri corpi,
e alimentiamo i nostri bei rimorsi
come un povero nutre i propri insetti.

Son testardi i peccati, deboli i pentimenti;
vendiamo a caro prezzo le nostre confessioni,
e torniamo a pestare allegri il fango
come se un vile pianto ci avesse ripuliti.

Sul cuscino del male Satana Trismegisto
lungamente ci culla e persuade
e 1'oro della nostra volontà,
alchimista provetto, manda in fumo.

È il Diavolo a tirare i nostri fili!
Dai piu schifosi oggetti siamo attratti;
e ogni giorno nell'Inferno ci addentriamo d'un passo,
tranquilli attraversando miasmi e buio.

Come il vizioso in rovina che assapora
il seno martoriato di un'antica puttana,
arraffiamo al passaggio piaceri clandestini
e li spremiamo come vecchie arance.

Dentro il nostro cervello, come elminti a milioni,
formicola e si scatena un popolo di Demoni;
la Morte, se respiriamo, nei polmoni
ci scende, fiume invisibile, con sordi gemiti
E se stupro o veleno, lama o fuoco
non ci hanno ancora ornato di gustosi ricami
il trito canovaccio del destino
è solo, ahimè, che poco ardito è il cuore.

Ma in mezzo agli sciacalli, alle pantere, alle linci
alle scimmie, agli scorpioni, agli avvoltoi, ai serpenti,
ai mostri guaiolanti, grufolanti, striscianti
del nostro infame serraglio di vizi,

uno è ancora più brutto, più cattivo, più immondo!
Senza troppo agitarsi né gridare,
vorrebbe della terra non lasciar che rovine
e sbadigliando inghiottirebbe il mondo:

è la Noia! - Occhio greve d'un pianto involontario,
fuma la pipa, sogna impiccagioni...
Lo conosci, lettore, quel mostro delicato,
- ipocrita lettore, - mio simile, - fratello!

PROF. ZATTI

Non servirebbero commenti a dire quanto può essere provocatoria, soprattutto se la pensate scritta centocinquanta anni fa per un pubblico romantico, l’apostrofe al lettore che doveva aprire un libro di poesia. Essa doveva essere caratterizzata da quello che in latino si chiama la “captatio benevolaentiae”, cioè bisognava un po’ arruffianarsi il lettore e dire, caro lettore, adesso ti parlo di bellezza e di valore, del bene e del giusto: Baudelaire fa esattamente il contrario. Se c’è un’operazione polemica, distanziante, persino ripugnante, bene questa gliela sbatte in faccia al lettore, subito ad apertura di libro: uno apre il libro, legge questa poesia, lo richiude e va a casa a leggere qualcos’altro. E invece no, perché appunto Baudelaire gioca su una identificazione che è in fondo una chiamata di correo: “tu lettore sei simile a me, tu sei mio fratello nel male, non essere ipocrita”. Tu conosci, lettore, quel mostro delicato, che è la noia: la noia è la personificazione, è l’ultima di una serie di peccati, di vizi che Baudelaire ha elencato: questi vermi, queste carogne, questi essere ripugnanti che popolano il nostro cervello non sono altro che la nostra anima, non sono altro che la personificazione dei vizi che ci accompagnano. Quindi, tu lettore, sei corrotto come me, hai dentro tutti i tuoi vizi, le tue colpe e su questo terreno noi possiamo ritrovare una complicità che non è la complicità della buona coscienza, ma la complicità nel male. E quanto alla noia, ribadisco quello che ho detto prima, la noia non deve essere intesa nel senso debole, moderno della parola, perché altrimenti non capiremmo come mai questo lungo elenco di vizi si concluda alla fine con il peggiore che li riassume tutti, l’ennui. L’ennui è quello che altrove ha chiamato lo spleen, cioè questa dimensione non semplicemente del fastidio esistenziale, ma proprio dell’umor nero, della depressione, dell’inerzia spirituale. Baudelaire è pieno di immagini di qualche cosa che grava sulla testa e sull’anima dell’uomo, qualcosa di pesante, le sbarre di una prigione, un tetto che ci schiaccia, è l’umor nero, è la tetraggine esistenziale. I figli della civiltà industriale e della vita metropolitana sono le vittime di questo che è il peggiore di tutti i vizi capitali, perché avrete anche riconosciuto, non potevate farne a meno, questo è un linguaggio non solo religioso, ma è un linguaggio profondamente cattolico. Vi ricordo semplicemente: stupidità e peccato, i rimorsi, i pentimenti, le confessioni e poi la figurazione di satana, satana trismegisto: questo Ermete Trismegisto era il più dotto degli alchimisti, cioè quei signori che tentavano di trasformare la materia povera in oro. Qui invece è satana che, secondo la sua funzione, gioca al contrario, trasforma l’oro della nostra volontà, il metallo della nostra volontà lo fa svaporare: “le riche métal de notre volonté est tout vaporisé par ce savant chimiste”. E’ un alchimista che corrode, che intacca il metallo prezioso della nostra volontà e ci fa preda dei vizi e quindi tutto il linguaggio è un linguaggio religioso, anzi di più, è un linguaggio cattolico. Pensate a quel verso “aux objects répugnants nous trouvons des appas”, dai più schifosi oggetti, traduce Raboni, noi siamo attratti, appunto i fiori del male, non siamo attratti dalla bontà, dal bene, dai valori, siamo attratti da satana nella condizione alienata che è la condizione moderna. Viviamo di piaceri clandestini, arraffiamo piaceri furtivi, siamo insomma tutto un elenco di vizi sulla base dei quali noi ci ritroviamo fratelli in qualche modo. E’ insomma una fratellanza fondata non sui valori positivi, ma sui valori che appunto sono quelli del vizio e della comune appartenenza a satana.

E questa è anche una richiesta, cioè è una “chiamata di correo” si potrebbe dire in linguaggio giuridico, ed è una richiesta di complicità. In fondo se pensate ancora alla poesia che è stata da sempre, fino all’età romantica, la sede di produzione dei valori estetici, morali e spirituali, valori che si riconoscono in un intento di tipo educativo, pedagogico, quindi un tentativo di elevare, di istruire, di migliorare, di perfezionare il lettore, secondo la vecchia formula che risale a Orazio “docere et delectare”, cioè dilettare ma anche insegnare; bene qui Baudelaire liquida tutto quanto, viene meno questo rapporto, come dire, educativo-pedagogico fra poeta e lettore, e questo viene rifiutato in nome di un’ambigua identificazione. basata sul riconoscimento di una comune degradazione morale e sociale che è identificata, personificata allegoricamente nella figura dello spleen. (Sapete qual è l’origine etimologica? Spleen in inglese vuol dire milza, la milza è quella che secerne la bile e nell’antica teoria medica greca che risale a Ippocrate (la cosiddetta teoria degli umori) appunto la milza che secerne la bile secerne anche il tedio vitale, la tetraggine, la malinconia, la depressione, l’umore nero. E allora secondo questa teoria degli umori, l’organo che produce la bile, cioè la milza è diventato, ha dato il nome anche alla sindrome, questa depressione vitale.

Beh, a questo punto riconvoco il nostro fine dicitore, perché andiamo a leggere una poesia celeberrima che è la più emblematica della condizione del poeta moderno: L’albatros.

ENZO LABOR

L’albatro

Spesso, per divertirsi, i marinai
catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari,
indolenti compagni di viaggio delle navi
in lieve corsa sugli abissi amari.

L'hanno appena posato sulla tolda
e già il re dell'azzurro, maldestro e vergognoso,
pietosamente accanto a sé strascina
come fossero remi le grandi ali bianche.

Com'è fiacco e sinistro il viaggiatore alato!
E comico e brutto, lui prima così bello!
Chi gli mette una pipa sotto il becco,
chi imita, zoppicando, lo storpio che volava!

Il Poeta è come lui, principe delle nubi
che sta con l'uragano e ride degli arcieri;
esule in terra fra gli scherni, impediscono
che cammini le sue ali di gigante.

PROF. ZATTI

Nella personificazione del poeta come albatro è l’allegoria appunto di quel radicale cambiamento della condizione dell’artista nella società moderna che abbiamo già visto all’inizio con la Perdita d’aureola. Soprattutto celeberrima è l’ultima quartina di questo sonetto che contiene la similitudine fra l’albatros e il poeta: le sue ali di gigante son diventate un ingombro, cioè quello che permette al poeta di essere angelo, albatro nei cieli, meravigliosa creatura celeste, distaccata dalla terra, una volta che viene catturata dai marinai e riportata in basso diventa un essere comico e grottesco, addirittura viene schernito, perché i marinai gli mettono in bocca una pipa, imitano zoppicando questa andatura maldestra di chi, essendo una creatura del cielo, una volta caduta sulla terra, queste ali che gli permettevano di librarsi nell’azzurro, son diventate degli ostacoli, son diventati degli impedimenti.

Qui Baudelaire essenzialmente mostra la caduta del poeta dal sublime al comico, al basso, al ridicolo, al deforme, è diventato lo scherno, ma lo scherno di chi? se il poeta è l’albatro, chi saranno i marinai, chi sarà l’equipaggio? L’equipaggio è il nuovo pubblico borghese, quello che del poeta non solo non sa cosa farsene, ma addirittura lo tratta come si tratta questo principe del cielo adesso caduto negli abissi della terra: lo tratta schernendolo, lo tratta ridicolizzandolo, lo tratta appunto come un angelo caduto. E qui direi che la parola chiave è la parola “esule” “exilé sur le sol”, il poeta, questo albatro caduto, sulla terra è un esule. E’ un esule perché a lui appartengono le sfere celesti, la terra è soltanto un esilio, è un luogo dove a mala pena riesce a camminare, dove è vittima della ridicolizzazione, dello scherno di chiunque passa, in particolare di un pubblico che gli ha voltato definitivamente le spalle. Diciamo che questa poesia è la naturale conseguenza di quella perdita di aureola: il poeta è qualcuno che ha perso la sua investitura, la sua sacralità, di essere celeste, di essere angelico, si è degradato sulla terra, sulla terra i suoi simili gli voltano le spalle, lo ridicolizzano, da sublime è diventato comico, è un esule, un esule che appunto ha perduto la sua patria.

Noi leggiamo solo poche poesie di Baudelaire, ma chi poi magari anche in conseguenza di questa mia lezione, invece di chiudere definitivamente il libro di Baudelaire e di non toccarlo mai più, volesse approfondire e leggere altre cose, si renderebbe conto continuamente di come Baudelaire ha queste straordinarie immagini in cui di volta in volta si presenta come un esule, un escluso, un figlio diseredato. Qui si potrebbero aprire squarci biografici sul fatto che, figlio di una madre che resta presto vedova e che si risposa con un patrigno che Baudelaire odierà per tutta la vita, lui si sentirà sostanzialmente un escluso dall’amore materno, mentre ricorda in alcune lettere quei momenti dell’infanzia che erano sostanzialmente un idillio a due, prima che un terzo venisse a incrinare quella felicità, deprivandolo dell’affetto materno.
E’ inevitabile, anche per chi mastica appena appena un po’ non dico di psicanalisi, ma di psicologia, osservare che questa condizione sociale del poeta ha trovato spontanea e lacerante espressione in Baudelaire forse proprio perché lui aveva vissuto nella sua biografia proprio un’esperienza di abbandono, di esilio, di esclusione e la grandezza sua di poeta sta nel fare di un evento privato il simbolo della condizione moderna del poeta.
Adesso corriamo con le letture perché è il momento di dire che cos’è il poeta. Allora leggiamo. Allo spleen, a questa condizione di noia, ennui, ecc., Baudelaire ha dedicato ben quattro poesie, noi ne abbiamo selezionata una: “J’ai plus de souvenirs que si j’avais mille ans”.

ENZO LABOR

LXXVI Spleen

Ho dentro piu ricordi che se avessi mill'anni.

Un gran mobile ingombro di verbali e romanze,
letterine d'amore, bilanci, poesie
e grevi ciocche avvolte in ricevute,
non nasconde i segreti che nasconde
il mio triste cervello. E’ una cripta, una piramide
immensa, con più morti della fossa comune...
- lo sono un cimitero che la luna aborrisce
e dove lunghi vermi vanno, come rimorsi,
all' assalto dei morti che ho più cari;
un salotto decrepito, gremito
d'oggetti fuori moda fra le rose appassite,
i pastelli lagnosi, i pallidi Boucher
che profumano, soli, come boccette aperte.

Niente uguaglia in lunghezza quei giorni zoppicanti
che sotto i fiocchi grevi delle annate di neve
la noia, triste frutto dell'incuriosità,
prende misura d'immortalità.
- E tu ormai non sei altro, materia della vita!
che un granito assediato da un labile terrore,
immerso nella bruma d'un Sahara profondo;
vecchia sfinge obliata dal mondo indifferente
e che le mappe ignorano e soltanto
ai raggi del tramonto ferocemente canta!

PROF. ZATTI

Lo spleen sappiamo che cos’è. Qui cambia la personificazione allegorica, prima avevamo un albatro, un uccello caduto sulla terra, qui abbiamo invece altri spazi, altri luoghi, un mobile: Baudelaire si paragona ad un gran mobile ingombro di verbali, romanzi, lettere d’amore, poesie, cioè di amori passati evidentemente, anzi questo mobile più che lui è il suo triste cervello, il cervello abitato e ottenebrato dalla noia, peggio ancora è un cimitero che persino la luna non vuole visitare dove appunto c’è tutta questa materia ripugnante e formicolante di cui Baudelaire si compiace. I vermi che sono simili ai rimorsi e che vanno a turbare il sonno dei morti. E poi ancora un salotto decrepito gremito di oggetti fuori moda dove le rose sono appassite, gli acquarelli sono stinti. Il mobile, il salotto, due ambienti per definizione borghesi che sono i luoghi appunto della buona coscienza borghese, del perbenismo borghese e invece sono luoghi segnati dalla morte, tanto è vero che poi questi due spazi confluiscono nel cimitero. Il cimitero di nuovo è un luogo, un luogo topico (un topos, come si dice in retorica) cioè un luogo che tanta poesia romantica aveva visitato,quanti idilli amorosi anche vicino ai cimiteri, perché gli innamorati romantici fanno anche passeggiate di quel tipo dove c’è sempre una luna che illumina il loro cammino e rende meno sinistro il luogo. Invece qui persino il cimitero è ripudiato dalla luna e d’altra parte il mobile è ingombro di cose che appartengono ad un passato dimenticato, vecchie lettere d’amore, e poi ancora il salotto decrepito, gli oggetti fuori moda, le rose appassite, nei quali il poeta successivamente si identifica. Là si identificava con l’albatro caduto a terra, qui si identifica con dei luoghi, degli oggetti della società borghese, gli arredi della società borghese ma sono arredi fuori moda, sono oggetti che hanno perduto la loro funzionalità, che non hanno nessun valore nel presente e sono una pallida testimonianza del passato, sono rose appassite, amori che sono finiti: è insomma un grande deposito, questo armadio che è il suo cervello, un grande magazzino di esperienze defunte, di memorie defunte.
E anche qui appunto vediamo come i luoghi dell’esistenza borghese sono diventate allegorie di un cervello abitato dall’ennui, dalla noia, dalla depressione. Quindi tutte queste personificazioni allegoriche vogliono sempre ripetere essenzialmente la stessa cosa, appunto la morte dell’arte, la morte della poesia, la morte della poesia nella società contemporanea.

Tutte queste allegorie vogliono dire qualche cosa che Baudelaire ripete continuamente: “Io sono la personificazione di colui che è sofferente della modernità, sono insomma la vittima della modernità, sono colui che porta come delle stimmate, tanto per stare dentro un linguaggio che come abbiamo visto è sempre tipico di Baudelaire anche quando è rivoltato in senso satanico. Il poeta è colui che si porta addosso le stimmate della modernità, è colui che per primo ha vissuto l’esperienza alienante della metropoli, è colui che per primo si è confrontato con il traffico, con la folla massificata, con il mercato, è colui che per primo insomma ha vissuto la condizione dell’alienazione, della reificazione ed, essendo lui il poeta portatore di valori alti almeno per tradizione, è colui che sente più forte lo choc di questa frattura, di questa sconfitta, E’ il figlio diseredato dalla Tradizione: l’orfano della Bellezza, dei Valori e dei ruoli garantiti per secoli ai poeti.

La poesia che andiamo a leggere adesso è un’altra poesia molto celebre. E’ l’incontro tipico della folla cittadina, lo sguardo incrociato per un attimo con una donna anonima, misteriosa, enigmatica, di cui per un attimo incrociamo lo sguardo e che poi travolta dalle due fiumane contrapposte della folla si perde per sempre. Questo incontro che dura lo spazio di un attimo, diventa una sorta di epifania, cioè di momento di illuminazione, di grazia, per un attimo si ha la sensazione di essere illuminati come San Paolo sulla via di Damasco, cioè la grazia ci ha toccato, ma è uno sguardo che dura meno di un secondo, poi la donna viene inghiottita dalla folla. Questa è l’apparizione folgorante della bellezza: la donna sconosciuta passa e va e diventa come tale l’occasione perduta, l’occasione che avrebbe potuto riscattare una vita, una vita che si sarebbe potuta vivere all’insegna della bellezza, dei valori e che invece la folla ha travolto.
Quindi vorrei leggere e poi riprendere il commento.

ENZO LABOR

A una passante

Ero per strada, in mezzo al suo clamore.
Esile e alta, in lutto, maestà di dolore,
una donna è passata. Con un gesto sovrano
l'orlo della sua veste sollevò con la mano.

Era agile e fiera, le sue gambe eran quelle
d'una scultura antica. Ossesso, istupidito,
bevevo nei suoi occhi vividi di tempesta
la dolcezza che incanta e il piacere che uccide.

Un lampo... e poi il buio! - Bellezza fuggitiva
che con un solo sguardo m'hai chiamato da morte,
non ti vedrò più dunque che al di là della vita,

che altrove, là, lontano - e tardi, e forse mai?
Tu ignori dove vado, io dove sei sparita;
so che t'avrei amata, e so che tu lo sai!

PROF. ZATTI

Questo incontro è un incontro nel segno della possibilità intravista per un attimo, di una vita all’insegna della bellezza, della felicità, le vite che sogniamo perché sono alternative a quelle che conduciamo nella routine della vita quotidiana. Un incrocio di sguardi, un incontro casuale nella folla e poi questa donna che per un momento emerge, portata in alto, come dire, affiorante dalla marea della folla e che appare in tutta la sua bellezza di idolo, le sue lunghe gambe sono quelle di una scultura antica, insomma è una donna sì ma è anche qualcosa di più, è una statua, è un idolo: è veramente l’incarnazione di una bellezza. E qual è l’effetto che ha sul poeta: l’effetto è paralizzante, ossesso, istupidito, in francese si dice “crispé comme un éstravagant”, cioè rattrappito, paralizzato come un vagabondo. E’ la folgorazione, è la folgorazione della bellezza, non è altro che uno choc, un trauma a sua volta.
Trauma perché è un’apparizione improvvisa, ma trauma anche perché è immediatamente una perdita: questa è l’esperienza vera della modernità, qui allegoricamente personificata dall’incontro casuale nella folla cittadina: un’apparizione che non si può catturare, che dura lo spazio di un attimo e poi esiste soltanto nella perdita, esiste soltanto nella memoria, esiste soltanto nel lutto. E osservate come il poeta ha giocato proprio con una nozione quasi psicanalitica di transfert perché in realtà il lutto è trasferito alla donna: “longue, mince, en grand deuil”, la donna esile, alta, in lutto. E’ la donna che è in lutto, ma in realtà chi è in lutto è il poeta che la vede e la perde nel momento stesso in cui la vede. La Bellezza, il Valore nella società metropolitana massificata non appaiono che per barlumi, destinati come sono a dileguarsi nel caos cittadino senza che sia possibile goderne durevolmente.

Per questo ho parlato anche di una possibilità religiosa: può essere l’apparizione sacrale della bellezza, come l’apparizione sacrale sulla via di Damasco. E in fondo, poiché la poesia è fatta anche dalla tradizione, è inevitabile pensare al fatto che la poesia italiana nasce essenzialmente per le strade di Firenze quando Dante incontra Beatrice: l’apparizione di Beatrice è l’apparizione di un essere solitario ed angelico circondata dalle sue dame, e Dante, come qui Baudelaire, rimane abbacinato, perché Beatrice è la donna-angelo, è la folgorazione del sacro. Anche Dante rimane folgorato, e da questa esperienza devastante nascerà una poesia che è quella della lode di Beatrice, dell’amore di Beatrice, del saluto di Beatrice, la donna-angelo che è venuta dal cielo alla terra “a miracol mostrare”, cioè in poche parole a salvare il poeta. Qui invece si potrebbe dire al contrario che questa donna ha perduto il poeta, poiché è un’apparizione talmente scioccante che poi si traduce in un grande lutto, in un grande sentimento della perdita. Forse l’esperienza che noi viviamo nella convulsa vita delle nostre metropoli è un’esperienza fatta di frammenti, di possibilità perdute, di incontri che poi non hanno luogo e restano soltanto come un culto della memoria e quindi si caricano dei colori del lutto.

Concludo, perché vedo che l’ora si è fatta tarda e vorrei anche dare lo spazio a possibili domande. Possiamo leggere l’ultima poesia, o meglio una sezione di una poesia che si chiama Le Voyage, Il viaggio, e l’ultima sezione è anche quella che chiude I fiori del male così che abbiamo compiuto tutto il tragitto propostoci da Baudelaire.

ENZO LABOR

Il viaggio

VIII

Su, andiamo, Morte, vecchio capitano!
Salpiamo, è tempo, via da questa noia!
Son neri come inchiostro terra e mare,
ma i nostri cuori, vedi, sono colmi di luce.

Versaci per conforto il tuo veleno!
Quel fuoco arde il cervello: giù nel gorgo profondo,
giù nell'Ignoto, sia l'Inferno o il Cielo,
scendiamo alla ricerca di qualcosa di nuovo!

PROF. ZATTI

Sono i versi che concludono l’ultima poesia de Les fleurs du mal, Le voyage. Ci sono tante altre perle dentro questa poesia, per esempio quella grande verità appunto che è “mais les vrais voyageurs sont ceux la seuls qui partent pour partir”, “ma i veri grandi viaggiatori sono solo coloro che partono per il gusto di partire”. Qui Baudelaire ci invita a lasciare gli ormeggi: imbarchiamoci sulla nave della morte, vecchio capitano portaci dove vuoi tu, purchè sia l’evasione da questo mondo dell’ennui, dello spleen, della depressione, salpiamo, è tempo di andare via, via da questa noia, ritorna la solita parola come una specie di martellante cifra di tutta la poesia.
Allora, certo quando si salpa, soltanto perchè si è viaggiatori che partono per il gusto di partire, non si sa dove si arriva, soprattutto se ad essere guida e capitano di questa nave è la Morte. Ci porterà comunque, questo è certo, in territori sconosciuti perché la morte certo ci porta da qualche parte che è per definizione l’ignoto. Sarà inferno o sarà cielo? Su questo grande interrogativo si chiude appunto la poesia e la storia di Baudelaire. Si chiude un libro ma, in compenso, si apre l’intera storia della poesia moderna e quindi è una fine che è anche un cominciamento, la fine di un libro per il cominciamento di tanti altri, di tanti eredi. E sul battello della morte, il vecchio capitano ci porta chissà dove, inferno o cielo, però una cosa è certa ed è importante che sia “au fond de l’inconnu pour trouver du nouveau”, viaggiamo pure al fondo dell’ignoto ma purchè troviamo qualche cosa di nuovo. La poesia è un’esplorazione del nuovo, è una fuga dalla condizione alienante della società moderna, si affida alla morte e può essere satano o Dio che la guida, ma l’importante è trovare dei nuovi approdi, trovare dei nuovi lidi e quindi scoprire nuovi territori per la poesia e per la condizione dell’uomo moderno.

Mi fermo qui, grazie.

DOMANDA

Insistendo sulla questione del linguaggio nel testo come unico luogo di sublimazione, se vogliamo di catarsi, ad un certo punto Baudelaire parla anche di natura come foresta di simboli. Se il testo è l’unico luogo dove si può incontrare la bellezza, un luogo dove esperire la bellezza, qual è l’eredità lasciata alla letteratura che c’è dopo, che seguirà Baudelaire, su questo concentrarsi sul testo come luogo di grande incontro tra bellezza e contaminazione, come neutralità dove si incontrano forze opposte e quindi questo concentrarsi sul testo come unica cosa importante, che ci dà senso, che ci dà salvezza?

DOMANDA

Il nuovo: lei ha fatto un paragone fra Baudelaire e Dante - la donna vista anche come Beatrice. Ma il nuovo può essere anche assimilabile ad una ricerca di conoscenza, sempre in Dante, ulissiaca?

PROF. ZATTI

Dicevo che il linguaggio di Baudelaire è tutto intriso di un lessico cattolico e questo, anche se poi è una condizione religiosa in cui forse è più satana che Dio, o comunque l’aspirazione a Dio si deve sempre scontrare con questo infernale alchimista che svapora il metallo della nostra volontà e allora la domanda che lei faceva e che è molto pertinente, riguarda l’idea che da Baudelaire in poi la poesia si è fatta una sorta di sostituto laico di una religione, e quindi sia una forma di salvezza individuale: il testo è ciò che ci salva. Naturalmente la poesia moderna ha tantissime voci però una della caratteristiche forti è questa: la poesia come salvezza, come salvezza individuale nel deserto dei valori, nella waste land direbbe Eliot, e allora la poesia diventa non solo elemento di salvezza individuale, ma anche in qualche modo autoreferenziale nel senso che come lei diceva la salvezza è tutta nel testo. Il che, di nuovo direi che, è, tornando all’inizio, la condanna e il privilegio del poeta, il suo orgoglio e la sua maledizione. Perché? Perché se il poeta ha perso l’aureola, come abbiamo visto, vuol dire anche che il poeta non è più chiamato a parlare dei valori, non è più il poeta-vate, non è più il poeta che parla della coscienza collettiva, è un poeta che è stato emarginato: faccia quello che vuole, perda la sua dignità, vada al bordello, parli di quello che più gli piace, ma insomma alla fine questo poeta destituito e diseredato trova soltanto nella sua poesia un’ancora di salvezza, ma proprio perché in qualche modo gli è stato sottratto il territorio dei valori collettivi che prima invece era l’orgoglio della coscienza poetica.
E quindi questo porta anche ad un pericoloso scambio, ognuno valuta come vuole questo fatto, fra una religione che si è laicizzata nella contemplazione del bello, di una salvezza individuale, del testo, della poesia così com’è.

L’altra domanda riguardava Ulisse. Questo finale del Voyage si può leggere effettivamente come l’ennesima incarnazione di Ulisse: credo che l’Ulisse dantesco sia stato un mito per la modernità continuamente rivisitato. Qui l’idea è veramente di qualcuno che parte lasciando le colonne d’Ercole, sorpassando le colonne d’Ercole, in un territorio del tutto sconosciuto, attratto dalla sola idea dell’ignoto, e Ulisse ci mette la conoscenza, ci mette anche la virtù. Forse Baudelaire sulla virtù aveva meno ottimismo, però condivideva la voglia del nuovo, in compagnia della morte. Qui si deve presupporre che, come il buon Ulisse, anche Baudelaire farà prima o poi naufragio, ma intanto è approdato metaforicamente ad un territorio suo, ad un territorio nuovo. Al fondo dell’abisso in cui Ulisse naufraga c’è però il nuovo, c’è quindi un’ultima possibile forma della conoscenza e quindi in questo senso è anche un erede di Ulisse.

DOMANDA

Tu all’inizio hai detto che con Baudelaire in un certo senso è nata la poesia moderna. Quali sono stati, anche tra gli italiani, quelli che sono stati più influenzati, anche fino ai nostri tempi? Per esempio la cosiddetta poesia ermetica che abbiamo avuto qualche decennio fa, è stata influenzata anche da Baudelaire oppure no?

PROF. ZATTI

La tua domanda mi fa rimpiangere l’unica poesia che non abbiamo letto e cioè “Le corrispondenze”, perché lì è l’atto di battesimo della poesia simbolista. Baudelaire dice “la natura è un tempio, la natura è una foresta di simboli che ci parla di linguaggi che noi abbiamo dimenticato, e compito del poeta è ritrovare questo valore sacrale simbolico nella parola ma con la coscienza che è un linguaggio dimenticato, la funzione del poeta è di riportarlo a galla e decifrarlo di nuovo. In fondo questa è l’esperienza dell’ermetismo. Uno pensa a Ungaretti “ogni parola che scrivo è scavata nella mia anima come in un abisso”. Scavare dentro di sé per trovare, per attingere un linguaggio che è un linguaggio fortemente debitore, fortemente erede di questo simbolismo, un linguaggio simbolico, un linguaggio che non è quello della parola di tutti i giorni. E qui ho nominato Ungaretti e l’ermetismo.
Se passiamo all’altro grande poeta italiano del Novecento, la prima poesia de “Gli ossi di seppia” (1925), quindi parlo di Montale. “Ascoltami, i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati”, dice Montale. Montale apre la sua fondamentale raccolta di poesia novecentesca con una polemica contro i “poeti laureati”, cioè quelli che hanno ancora in testa l’aureola e lui invece si sente l’erede dei diseredati, se mi passate il gioco di parole. Lui è l’erede di Baudelaire, di quelli che l’aureola l’hanno persa. Che vuol dire? che Baudelaire naturalmente diceva queste cose in rapporto alla tradizione romantica, ai suoi padri poetici che potevano essere Victor Hugo e i poeti romantici. Montale rispetto a chi lo dirà? Lo dirà rispetto al poeta laureato per eccellenza a cavallo fra l’800 e il 900, cioè D’Annunzio, il poeta del sublime, quello che va sempre in giro con la corazza e l’elmo in testa e l’aureola. Insomma il poeta del sublime. Montale inaugura la poesia novecentesca nel segno invece della perdita dell’aureola, cioè il sublime deve diventare appunto una poesia della prosa, una poesia dimessa, cioè una poesia che chiude col sublime inteso come retorica e invece diventa una poesia della quotidianità ma anche della conoscenza. L’inizio è: “Ascoltami, i poeti laureati” io non sono un poeta laureato. La poesia si chiama “I limoni” e dice “io, quando vado in giro nella natura, vado a cercare i limoni chiusi negli orti e non vado nei parchi dove stanno bossi, licustri e acanti”. Il bosso è una pianta ornamentale, preziosa che si coltiva nei giardini, così come i licustri e gli acanti, quindi rinvia ad un’idea di poesia alta, sublime, aristocratica, ecc. No, a me piacciono i limoni –dice il poeta- e io parlerò il linguaggio dei limoni, il linguaggio della quotidianità.

ENZO LABOR

Corrispondenze

È un tempio la Natura, dove a volte parole
escono confuse da viventi pilastri
e che l'uomo attraversa tra foreste di simboli
che gli lanciano occhiate familiari.

Come echi che a lungo e da lontano
tendono a un'unità profonda e oscura,
vasta come le tenebre o la luce,
i profumi, i colori e i suoni si rispondono.

Profumi freschi come la carne d'un bambino,
dolci come l'oboe, verdi come i prati
- e altri d'una corrotta, trionfante ricchezza,

con tutta l'espansione delle Cose infinite:
l'ambra e il muschio, l'incenso e il benzoino,
che cantano i trasporti della mente e dei sensi.

DOMANDA

Io non volevo fare una domanda, volevo fare solo un piccolo collegamento perché mi sono sentita addosso una sensazione ed è che tutta questa noia, tutta questa tetraggine, la conosciamo bene. Io non sapevo niente di Baudelaire, è la prima volta che ne sento parlare, però, da quello che è stato detto, ho colto fortemente un collegamento con il tema di questo ciclo di conferenze e con lo spirito che Guido ci ha trasmesso: il piacere d’imparare. Abbiamo ascoltato chiaramente in un verso: “La noia è frutto dell’incuriosità”. E’ come se la ricerca, anche quella finale dell’ultima poesia sulla morte, sul viaggio, sul fatto che andiamo alla ricerca di qualcosa di nuovo, è come se la curiosità, la ricerca, lo scoprire, l’imparare quindi - ed è questo che mi ha emozionato in queste letture - sia perfettamente collegato con la vita e la luce, rispetto alla depressione e al buio. E allora Guido, con il suo piacere d’imparare, ci ha lasciato un’eredità fondamentale che ben si collega anche a questo poeta.

PROF. ZATTI

Sì, certo, la noia è figlia dell’incuriosità e riallacciandomi a quello che chiedeva prima il ragazzo, la curiositas è quella che spinge Ulisse oltre le colonne d’Ercole. Anche Ulisse va incontro alla morte. Baudelaire ne è addirittura cosciente. Ulisse non lo sapeva, Baudelaire lo sa ma proprio per questo ci prova lo stesso. Beh, persino la morte non è proprio la negazione di tutto. Al fondo della morte ci può essere del nuovo e quindi forse un principio di vita, qualcosa che ricomincia. E’ curioso che questo libro che lui stesso ha chiamato “atroce”, che abbiamo visto è pieno di mostri e in cui si percorre tutta una serie infame di vizi però non rinunci alla speranza; è come se la condizione alienante della società moderna, della società satanica, della società priva di valori, in fondo lasciasse sempre questo spiraglio, lo spiraglio finale verso l’azzurro. Forse l’albatro un giorno potrà tornare nei cieli o forse sprofondare negli abissi ma poi tutto ritorna in circolo, in fondo agli abissi ci potrebbe essere di nuovo il cielo e quindi la luce. Per esempio un’altra poesia di Baudelaire si chiama “Elevation”, cioè è tutto attraversato dall’idea della caduta e dello slancio, la città e la natura, la corruzione e la purezza, come se fossero sempre le due polarità contrapposte e certe volte si ha l’impressione che al fondo della caduta ci possa essere l’elevazione e lo slancio, perché appunto in fondo frequentare satana vuol dire continuare ad avere nostalgia di Dio.

Testi del ciclo Leggere i classici presenti su questo stesso sito www.gliscritti.it

Il progetto originario del ciclo "Perché leggere i classici" di Guido Sacchi
L´Eneide di Virgilio: la fatica della civiltà
Manzoni: la storia, la morale, il racconto ne I Promessi sposi e La colonna infame
Dalla voce alla penna: parola detta, parola scritta 
L´Orlando Furioso di Ariosto: gli scherzi del desiderio 
Anna Karenina di Tolstoj: disperazione e felicità
Guerra e pace di L.Tolstoj
Paolo VI, “Il signore dell´altissimo canto”: Dante Alighieri
Le sacre scritture e la letteratura. La bibbia, un libro da non perdere 
Dante a settecento anni dal viaggio della “Commedia” 
Il cristianesimo di Dante

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