Unità d’Italia. I nodi di 150 anni di storia, di Agostino Giovagnoli

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 04 /12 /2010 - 23:27 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito del Progetto culturale il testo della relazione tenuta da Agostino Giovagnoli, professore di Storia contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano, il 2 dicembre 2010 nel corso del X Forum del Progetto culturale sul tema “Nei 150 anni dell’Unità d’Italia. Tradizione e progetto”. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Sul tema dell’Unità d’Italia vedi, su questo stesso sito:

Il Centro culturale Gli scritti (4/12/2010)

Una vocazione europea 

I nodi della storia italiana, di cui mi è stato chiesto di parlare, sono, indubbiamente, molti: istituzionali, politici, economici, sociali, religiosi[1]… Non è possibile ricordarli tutti né, tantomeno, affrontarli esaurientemente. Nel contesto di una riflessione come questa, opportunamente proposta in occasione dei 150 anni di storia unitaria, vorrei soprattutto sviluppare qualche considerazione sul rapporto tra questi nodi, l’unità italiana, il ruolo della Chiesa e dei cattolici. Questi 150 anni, infatti, sono stati anzitutto la storia di tale unità, dei suoi successi e dei suoi fallimenti, dei suoi slanci e delle sue crisi.

L’unità italiana che non è mai stata scontata, né prima né dopo il 1861, ma non si tratta di un caso unico. Tutte le nazioni moderne sono “comunità immaginate” e, cioè, costruzioni culturali frutto di complesse “invenzioni” storiche, e la loro esistenza dipende dalla volontà dei loro membri: la nazione, scriveva Renan, è il plebiscito di ogni giorno, perché ogni giorno inglesi, francesi o tedeschi rinnovano, implicitamente, la scelta di stare insieme. Ciò vale, naturalmente, anche per gli italiani, seppure con peculiarità rilevanti. A partire dall’inizio degli anni novanta, però, si è cominciato a discutere in Italia di che cosa può succedere “se cessiamo di essere una nazione”[2], prendendo coscienza che le nazioni non sono eterne e che gli stati possono finire, provocando la disgregazione di ciò che a lungo è sembrato insostituibile.

Si sono diffuse inquietudini in precedenza sconosciute: c’è chi ha cominciato a temere l’eventualità che l’Italia si disgregasse e chi, invece, ha iniziato a sperarlo; all’interno di tale orizzonte, si è sviluppato anche, in modo spesso confuso, il dibattito sul federalismo[3]. Era inevitabile cominciare a guardare con occhi diversi anche l’unità italiana, scongelando un approccio storiografico a lungo pietrificato dalla retorica. In passato, i nodi italiani sono stati affrontati prevalentemente in chiave politica, ma l’unità italiana non è solo un fatto politico: essi si basa su radici più profonde e su elementi più decisivi. Ed è in questa direzione che si cerca oggi di volgere lo sguardo.

Le forme che ha assunto l’unità italiana nel XIX secolo sono scaturite da un vasto processo geopolitico. A partire dai primi anni dell’Ottocento, lo spazio politico europeo si è venuto ristrutturando profondamente: il nuovo ruolo dei popoli e l’affermazione degli Stati nazionali si sono intrecciati con fenomeni come un’inedita influenza russa nelle vicende europee, la progressiva decadenza dell’impero ottomano ancora largamente influente sull’Europa Orientale ed una crisi sempre più evidente del tradizionale baluardo europeo verso Oriente: l’Austria. Gran parte dell’Ottocento europeo potrebbe essere descritto come un grande movimento da Occidente ad Oriente. Dopo aver messo a fuoco un modello di modernizzazione economico-sociale e politico-istituzionale, l’Europa occidentale ha cominciato a propagare tale modello nei paesi dell’Europa di mezzo, per così dire, come Italia e Germania, in quelli dell’Europa orientale, come l’Ungheria e nei Balcani, per poi “esportarlo” anche fuori dai suoi confini, anche in Asia e in Africa.

L’Unità d’Italia si colloca in tale contesto. Gli stati, le classi dirigenti, le popolazioni della penisola sono stati investiti da una domanda europea sempre più pressante[4]. L’unificazione nazionale, in altre parole, ha rappresentato il contributo italiano ad una complessiva costruzione europea: l’“invenzione” della nazione italiana è stata un’invenzione europea. Non a caso, la vocazione europea rappresenta, fin dagli inizi, un elemento costitutivo dello Stato italiano[5] e il rapporto con l’Europa costituisce ancora oggi uno dei “nodi” fondamentali dell’identità italiana. La spinta delle origini impone, infatti, di continuare ad interrogarci sul ruolo dell’Italia in Europa, in collegamento con una più ampia riflessione sul ruolo dell’Europa nel mondo. Se nel corso dell’Ottocento l’Italia unita si è formata all’interno di quel vasto movimento da Occidente ad Oriente che ha segnato tutto l’Ottocento europeo, anche oggi le ragioni della sua unità sono strettamente connesse alla capacità dell’Europa di individuare la propria collocazione nelle dinamiche mondiali. C’è, oggi, un legame profondo tra il malessere italiano e un più generale malessere europeo come quello che si manifesta attualmente in Belgio. E, viceversa, il rischio che l’Europa prenda congedo alla storia, come ha osservato acutamente Benedetto XVI, è un problema anche italiano.

Il dissidio tra Stato e Chiesa,  il legame tra il Papa e l’ Italia

Sollecitando l’unificazione italiana, di fatto l’Europa ha affidato all’Italia anche la soluzione di un problema che oltrepassava anche i confini europei: la collocazione della Chiesa cattolica e in particolare del papato nel mondo contemporaneo. È questo il secondo nodo che vorrei richiamare. Nella ristrutturazione ottocentesca dello spazio europeo[6], infatti, non c’era più spazio per formazioni politico-territoriali e istituti giuridici, tra cui gli Stati della Chiesa e il potere temporale del papa, nati nel Medioevo e modellati in relazione ad un potere politico multinazionale, quello imperiale, progressivamente svuotato dagli Stati nazionali e definitivamente tramontato dopo il Congresso di Vienna. E, forse, nell’ottocento, parte dell’opinione pubblica europea pensava che dovessero finire anche il papato e il potere spirituale del papa. Com’è noto, l’unificazione italiana si è realizzata imponendo la fine del potere temporale e Pio IX ha continuato sempre a protestare contro i “fatti compiuti”. La “questione romana” è stata poi risolta, a distanza di circa di sessant’anni dalla presa di Roma, con il Trattato Lateranense, che realizzò la conciliazione tra la Chiesa e l’ Italia, portando così a pieno compimento il Risorgimento, secondo il giudizio di Giovanni XXIII.

Il dissidio tra Chiesa e Stato in Italia è stato oggetto di una vastissima letteratura, ma forse non è stato ancora pienamente compreso il ruolo di Pio IX e, di conseguenza, della Chiesa riguardo all’unità italiana, Indubbiamente, egli avversò le idee liberali e contrastò il nuovo stato nazionale. Ciò che egli disse e fece, però si inserì in modo complesso nel processo di unificazione italiana, come mostra il suo atteggiamento nei confronti del potere temporale. Rifiutandosi di guidare la guerra degli stati italiani verso l’Austria nel 1848, ad esempio, egli contribuì in modo decisivo a far fallire il progetto neoguelfo[7]. Ma se realizzato, il progetto di Gioberti, Rosmini ed altri avrebbe inserito lo Stato della Chiesa in un assetto nazionale compatibile con i tempi  e accettabile da parte dell’Europa[8]: era forse l’unica possibilità concreta di salvare il dominio temporale del Papa. Ma Pio IX rifiutò questa possibilità, spiazzando i suoi sostenitori.

La scelta di non partecipare alla guerra contro l’Austria non fu una scelta anti-italiana[9]. Egli si ritirò, perché il Papa non poteva assumere la causa di una parte dei suoi fedeli contro altri cattolici[10]. Pio IX aprì, in questo modo, una strada nuova: fu il primo passo verso l’assunzione, da parte del Papa, della figura di “padre comune di tutte le genti”[11] e verso una ricollocazione, in chiave più universalistica, del papato nel mondo contemporaneo. Ispirata da motivazioni soprattutto religiose, questa scelta conteneva importanti implicazioni geopolitiche, senza esprimere un’avversione verso la causa italiana, nei cui confronti anche in seguito egli continuò a manifestare simpatie.

L’atteggiamento di Pio IX potrebbe sembrare contraddittorio, ma si tratta di una contraddizione che riflette due spinte diverse, quella particolaristica e quella universalistica, entrambe presenti nell’ottocento europeo. E proprio questa “contraddizione” è indicativa della complessità di questo pontificato, all’interno del cui orizzonte i cattolici italiani si divisero tra conciliatoristi e intransigenti, ma furono in gran parte accomunati, come il Papa, sia da un sentimento filo-italiano sia dalla preoccupazione per la libertà della Chiesa.

L’orientamento profondo di Pio IX fu intuito da un politico abile come Camillo Cavour. È nota la dura politica anticlericale da questi attuata mentre era alla guida del governo piemontese, negli anni cinquanta dell’ottocento. Ma quando iniziò a perseguire un più ampio disegno italiano, Cavour cominciò anche a prendere coscienza del valore universale di Roma e del papato[12]. Nelle trattative con la S. Sede da lui promosse nel 1860-’61[13], egli cercò tenacemente di ottenere il consenso del Papa all’acquisizione italiana di Roma, suscitando le reazioni negative e sconcertate dei democratici, dei radicali e dei massoni[14]. L’insistenza cavouriana per la proclamazione di Roma capitale nel 1861 esprime la consapevolezza che le sorti del nuovo stato passavano necessariamente attraverso una riconciliazione con la S. Sede e che le future vicende italiane sarebbero state legate alla collocazione internazionale del papato. Malgrado l’asprezza dello scontro, perciò, si può dire che fin dagli inizi siano state presenti le premesse di una riconciliazione che, non a caso, è poi venuta in tempi relativamente brevi sotto il profilo storico. Ancora oggi, la presenza del Papa a Roma  rappresenta una realtà di cui l’Italia non può disinteressarsi, mentre la tensione tra l’universalità della Chiesa e la particolarità italiana continua a proiettare sollecitazioni feconde sulla collocazione italiana nel mondo, contrastando le tentazioni provincialistiche.

Progetto culturale e progetto politico del Risorgimento

Se l’impulso fondamentale verso l’unificazione nazionale è venuto dall’esterno, la risposta italiana non è stata totalmente passiva e subalterna, come sosteneva Gramsci. Le classi dirigenti dei diversi Stati preunitari, infatti, svilupparono in modo originale due iniziative strettamente collegate ma distinte: la costruzione di un’identità nazionale e l’unificazione politico-istituzionale. Per lungo tempo, è sembrato naturale sovrapporre nazione e stato, ma, come hanno infatti evidenziato, a volte in modo drammatico, molti eventi degli ultimi decenni, comunità etniche e istituzioni politiche, identità nazionali e strutture amministrative non coincidono sempre, automaticamente e interamente e le loro influenze reciproche si sviluppano attraverso dinamiche complesse e variegate[15].

È cominciato ad emergere in modo più chiaro il progetto culturale, prima ancora che politico-istituzionale, su cui si è fondata l’unità italiana[16]. In questo caso, naturalmente, il termine cultura non va inteso in chiave strettamente accademica, ma con una valenza più ampia, in un senso non lontano da quello utilizzato, in questi anni, anche in sede di Progetto culturale della Chiesa italiana, per indicare un importante elemento identitario, un fattore rilevante di aggregazione e di disgregazione sociale, la causa di processi storici profondi ecc. È stato ricostruito, in particolare, come, rielaborando elementi della tradizione letteraria, artistica e musicale italiana[17], tale progetto ha diffuso tra le classi colte degli stati preunitari una serie di contenuti storici e antropologici, fondando una nuova identità: l’identità italiana. Si è sviluppata così un’ampia riflessione sulle espressioni, i simboli, le tradizioni della cultura italiana, come mostrano i volumi – ormai più di quaranta - della collana sull’identità italiana diretta da Ernesto Galli della Loggia[18].

Il progetto culturale del Risorgimento italiano si è trovato davanti a molte sfide impegnative. La nuova costruzione italiana si inseriva infatti in un orizzonte europeo densamente popolato di nazioni già formate o in via di formazione. Lo stato nazionale italiano è arrivato tardi al tavolo delle grandi potenze, senza potersi fondare su una solida costruzione istituzionale e amministrativa, come quella dei grandi stati assoluti dell’Europa occidentale. Non ha, inoltre, potuto avvalersi di una omogeneità etnico-culturale consolidata nei secoli, come in Francia e altrove[19]. L’unità italiana non si è neanche fondata sulla preesistenza di una “nazione economica”, come la intendeva Sieyès. Sono problemi che potrebbero essere identificati con altrettanti “nodi negativi” della storia italiana, con elementi cioè di cui la costruzione dell’unità italiana non ha potuto avvalersi. A tali problemi ha cercato di rispondere un progetto risorgimentale, che ha sviluppato intorno ad altri elementi, una serie di “nodi positivi”, l’iniziativa unitaria.  

È un progetto a cui la Chiesa e i cattolici hanno dato un contributo rilevante. Era infatti necessario, per il discorso risorgimentale, ricorrere largamente al principale patrimonio culturale condiviso da tutta la popolazione italiana, senza distinzione di aree geografiche o di classi sociali. Non è casuale che il movimento nazionale italiano abbia preso il nome di Risorgimento, che significa, letteralmente, Resurrezione. A questo nome corrisponde un discorso patriottico incentrato su una narrazione che ricalca, in modo indiretto ma ravvicinato, la narrazione cristiana, presentando la frammentazione politica e le conflittualità municipalistica dei secoli precedenti come una condizione di estremo degrado paragonabile alla morte, da cui non solo è possibile uscire attraverso una Resurrezione che riporti l’Italia e gli italiani alla vera vita.

Il contributo cattolico ha influito in modo rilevante sui nodi affrontati dal  discorso risorgimentale. È il caso, anzitutto, dell’elemento base di questo progetto: l’idea di nazione. L’istanza universalistica, che caratterizza la Chiesa cattolica ed è espressa visibilmente dal papato, ha infatti ispirato un’idea di nazione alternativa ai modelli su base etnica o naturalistica, economica o politica ecc[20]. Per Gioberti – ma il suo caso non è isolato nel contesto risorgimentale - per le nazioni moderne e in particolare per l’Italia il modello da assumere è quello dell’antico Israele[21], la cui esistenza non scaturisce da radici etniche o da peculiarità antropologiche, da tradizioni e da costumi, da istituzioni o da un territorio. L’esistenza di Israele deriva un annuncio ricevuto ed è alimentata dalla fede in un futuro promesso, la sua unità si costruisce nell’ascolto della Parola di Dio e nel percorso comune che ne scaturisce: l’identità di Israele è un’identità essenzialmente storica, è una “comunità di destino” che si riconosce in una narrazione condivisa.

Per tutto questo Israele è una “nazione universale”[22]: universale, infatti, non significa solo abbracciare realtà lontane nello spazio, ma anche raccogliere diversità profonde tra chi vive vicino. E nella funzione che ha svolto al servizio dell’intero genere umano, pur trattandosi di un piccolo popolo, ha superato i limiti della propria particolarità per diventare una sorta di nazione universale. E il richiamo giobertiano al modello di Israele anche per le nazioni moderne è indicativo del tentativo di attribuire all’identità italiana una tensione universalistica più marcata che in altre identità nazionali. Gioberti non è stato il solo a proporre Israele quale modello di nazione nel contesto risorgimentale e il progetto culturale che è alla base della nazione italiana è un progetto segnato dalle sollecitazioni dell’universalità.

I cattolici, inoltre, hanno contribuito in modo rilevante anche ad affrontare un secondo nodo: come fondare un nuovo senso di convivenza civile. È indicativo, in questo senso, il caso di Manzoni, la cui riflessione sull’unità politica degli italiani[23], si è misurata intensamente con l’opera di Sismonde de Sismondi, protestante ginevrino di origini toscane, che attribuiva alla Chiesa cattolica la principale responsabilità della decadenza italiana dal XVI e nel XVIII secolo[24]. Le Osservazioni sulla morale cattolica costituiscono una puntuale confutazione delle tesi che attribuiscono all’istituzione ecclesiastica e al formalismo cattolico la carenza di senso civico degli italiani, lungo una linea che da Machiavelli arriva ai nostri giorni. È un problema del “carattere degli italiani”[25] che torna periodicamente di attualità – per esempio quando si leggono i fenomeni politici del passato o del presente come “autobiografia” della nazione oppure quando si discute di mafia, corruzione e illegalità come elementi costitutivi della società italiana – e che spinge molti a rimpiangere l’assenza di una più ampia penetrazione della Riforma protestante o di una maggiore influenza laica. Nelle Osservazioni Manzoni, rispose alle denunce di Sismondi senza negare l’esistenza di molti dei problemi da lui denunciati, ma sostenendo che l’antidoto storicamente più efficace si trovava nella morale evangelica custodito dalla Chiesa cattolica[26].

La tradizione cattolica, infine, ha influito anche sul modello politico-istituzionale italiano, il terzo nodo del progetto risorgimentale che vorrei affrontare. Questo progetto si è differenziato da progetti analoghi che circolavano nella cultura europea in quegli anni. Gran parte del pensiero politico del Risorgimento prese infatti le distanze dalla Rivoluzione francese – fu, piuttosto, influenzato dalla rivoluzione orleanista del 1830 e dall’ideale del juste milieu – e, grazie a questo l’unificazione italiana ebbe, com’è noto, un carattere moderato, malgrado i tentativi in altra direzione di protagonisti come Mazzini e Garibaldi. Tuttavia, la più profonda presa di distanza dalla Rivoluzione Francese e, in particolare, dai suoi eccessi, non fu opera dei liberali moderati, ma di cattolici che pure condivisero il sogno risorgimentale, come Rosmini e Manzoni[27]. A partire dalle vicissitudini della Chiesa durante la Rivoluzione francese, dalla prigionia del Papa alla Costituzione civile del clero, essi denunciarono il carattere autoritario del giacobinismo rivoluzionario. Solo rispettando fino in fondo la libertà della Chiesa e dei credenti, sostennero, il movimento rivoluzionario poteva liberarsi dalla violenza e affermare in modo autentico il principio di libertà. Trasmettendo attraverso i secoli l’insegnamento evangelico, infatti, la Chiesa opera da sempre per la libertà dei popoli ed è, perciò, naturale alleata di questi, contro il dispotismo sia dei principi sia dei rivoluzionari. Questa convinzione di Rosmini e Manzoni è all’origine di una peculiare tradizione politico-culturale italiana, che ha poi avuto in Alcide De Gasperi il suo più noto sostenitore e che ha largamente influenzato la storia politico-istituzionale italiana.

Un’eredità e una responsabilità

Il contributo della Chiesa e dei cattolici al Risorgimento è stato, insomma, tutt’altro che marginale. L’unità degli italiani deve a loro molto: un’eccessiva insistenza sullo scontro tra cattolici e laici, che indubbiamente c’è stato, non spiega i processi più profondi e decisivi che hanno portato a tale unità. Questo contributo è continuato nel corso di tutti i 150 anni. È noto, ad esempio, quanto hanno fatto i cattolici, a partire dalla prima guerra mondiale e dall’immediato dopoguerra, per avvicinare larghe masse, soprattutto contadine, ad uno Stato che risentiva ancora del carattere fortemente elitario degli inizi. E non può essere sottovalutata l’importanza della presenza sotterranea e molecolare di tante forme di solidarietà o della rete di iniziative sociali e politiche del cattolicesimo italiano per affrontare squilibri economici e disuguaglianze sociali.

Il contributo dei cattolici, inoltre, è emerso in particolare nei momenti di difficoltà o in situazioni di crisi. Tra questi momenti rientrano, indubbiamente, le guerre. Il rapporto degli italiani con la guerra è stato spesso problematico, sia nel caso di vittoria sia di sconfitta. La prima e la seconda guerra mondiale, malgrado l’esito opposto, hanno innestato una crisi gravissima, che ha sconvolto le stesse basi del sistema politico-istituzionale. L’armistizio dell’8 settembre 1943, la fuga del re e del governo, il “tutti a casa” dell’esercito italiano avrebbero rivelato, secondo alcuni, una fondamentale e inguaribile debolezza etico-politica.

Questi giudizi, però, non spiegano le straordinarie capacità di ripresa dimostrate dopo i momenti di crisi, che scaturiscono da risorse profonde della società italiana. Nel vuoto politico-istituzionale emerso nel 1943, la Chiesa è diventata un fondamentale punto di riferimento per tutti. Al di là dello scontro tra fascisti e antifascisti, ossessivamente enfatizzato dalla storiografia, non c’è stata solo una grande zona grigia e gli italiani hanno cominciato a ricostruire la loro unità intorno all’istituzione ecclesiastica. Si radica in questa importante premessa l’assunzione, da parte dei cattolici, della guida dello Stato e, più complessivamente, del paese, nel secondo dopoguerra. Fino agli anni settanta, la società italiana è stata animata da un grande slancio collettivo, che si riconosceva in una comune ispirazione cristiana, cui ha corrisposto un cambiamento epocale. L’Italia non è mai cambiata tanto come tra il 1945 e il 1975, passando da società agricola a società industriale, con vaste migrazioni da Sud a Nord e da Est ad Ovest e un’intensa urbanizzazione, anche se forse in questo trentennio, l’impegnativa presenza pubblica verso cui i cattolici si sono proiettati li ha distratti dall’elaborazione di un progetto culturale adeguato alle trasformazioni in atto.

Non un momento specifico di crisi ma un elemento di costante problematicità è stato inoltre rappresentato dalle profonde diversità storiche, sociali ed economiche tra le diverse aree italiane. È cruciale, in questo senso, la questione del Mezzogiorno che, malgrado un intenso dibattito e molteplici interventi, continua ad apparire aperta. Non si deve però dimenticare che molte cose sono cambiate nel tempo e che ora la fisionomia dei diversi Mezzogiorni italiani appare profondamente mutata, anche grazie al contribuito della Chiesa e dei cattolici, come hanno messo in luce le acute analisi di mons. Cataldo Naro. Ciò è avvenuto, ad esempio, a seguito del profondo cambiamento delle strutture ecclesiastiche avvenuto nelle regioni meridionali, dopo l’Unità. Ancora più evidente è stato il contributo dell’azione congiunta svolta dall’episcopato, dall’associazionismo cattolico e dalla Dc negli anni cinquanta e sessanta del novecento: in molte aree, quest’azione ha disarticolato un blocco sociale ereditato da prima dell’Unità, spezzando una continuità -  economica, politica, culturale - secolare. Ciò però, va riconosciuto, non  ha impedito che proprio nel Mezzogiorno si affermasse una secolarizzazione di basso profilo di cui oggi si vedono gli effetti.

Molti altri esempi potrebbero essere richiamati per evidenziare il profondo legame che ha unito la Chiesa e i cattolici all’avventura dell’unità degli italiani cominciata 150 anni. Si discute spesso del ruolo riconosciuto ai cattolici o che i cattolici riescono a conquistare nella politica o, più in generale, nei diversi settori della società italiana. Ma c’è anche un altro punto di vista che merita di essere considerato: l’Italia ha bisogno di loro, anzi non può farne a meno. Il percorso unitario, non a caso, ha sofferto quando non ha potuto valersi del loro contributo, nei primi decenni della sua storia, e ha conosciuto invece una delle sue stagioni più costruttive quanto essi sono stati pienamente coinvolti, nei primi decenni del secondo dopoguerra. Negli ultimi anni, invece, questo rapporto è apparso nuovamente più problematico e non sono stati anni particolarmente felici. È il contesto in cui si è inserito il Progetto culturale della Chiesa italiana, che ha promosso una riflessione sul rapporto tra cattolici e società italiana in modi adeguati ad una situazione profondamente mutata. Lo stretto legame tra i cattolici e l’unità italiana, per concludere, rappresenta un’eredità storica che interroga anche il presente. È una responsabilità su cui riflettere e, forse, una vocazione cui continuare a rispondere.

Note

[1] Una recente pubblicazione li raccoglie in quattro aree tematiche: “dal mondo europeo al mondo globalizzato”; “stato, sistemi politici, ideologie”; “la crescita economica e i modelli di sviluppo”; “fattori e ritmi del cambiamento sociale”; “la cultura, gli intellettuali, la nazione”A. De Bernardi e L. Ganapini, Storia dell’ Italia unita, Garzanti, Milano 2010.

[2] G. E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione, Il Mulino, Bologna 1993

[3] Si tratta di un “nodo” della storia italiana tra i più rilevanti, che però oggi si presenta in termini molto diversi dal passato. Sui motivi federalisti nel dibattito preunitario, cfr. A. De Francesco, Ideologie e movimenti politici, in G. Sabbatucci e V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, vol I, Le premesse dell’Unità, Laterza, Roma Bari 1994, passim.  .

[4] Si spiega così l’indubbia simpatia delle opinioni pubbliche francesi ed inglesi verso i patrioti italiani e il grande interesse di tutte le diplomazie europee per quanto accadeva in Italia.

[5] Non è un caso che gran parte degli autori risorgimentali, da Balbo a Cattaneo, si siano posti molti problemi europei, a cominciare dal ruolo dell’Austria, e che, da Mazzini a Gioberti, abbiano concepito la nazione italiana non in termini antagonisti ma complementari rispetto alle altre nazioni europee. La nota figura di Santorre di Santarosa morto per l’indipendenza greca è espressiva di questa generosità italiana sconosciuta ad altri nazionalismi europei.

[6] Ma già a partire da Machiavelli, le critiche all’influenza negativa della Chiesa cattolica sul carattere degli italiani si sono legate all’insofferenza per il ruolo degli Stati pontifici nello spazio politico italiano. “La Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa [...] E la cagione che l’Italia non abbia o una repubblica o un principe che la governi, è solamente la Chiesa: perché avendovi abitato e tenuto imperio temporale, non è stata sì potente né di tale virtù che l' abbia potuta occupare la tirannide d’Italia e farsene principe; non è stata d’altra parte sì debole che per paura di non perdere il dominio delle sue cose temporali la non abbia potuto convocare un potente che la difenda contro a quello che in Italia fusse diventato troppo potente [...] è stata cagione che non la è potuto venire sotto un capo, ma è stata sotto più principi e signori: da’ quali è nata tanta disunione e tanta debolezza, che la si è condotta ad essere stata preda non solamente de' barbari potenti, ma di chiunque l' assalta. Di che noi italiani abbiamo obbligo con la Chiesa e non con altri" N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 12, in Il principe e Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di S. Bertelli, Milano 1960, pp. 156-166 

[7] Secondo Giacomo Martina, fu una sorta di “suicidio politico”, che avviò la fine del suo potere temporale. Da un lato, il Papa mostrò che non poteva porsi alla guida di una federazione di Stati italiani, distruggendo il cardine del disegno neoguelfo e l’unico motivo ancora valido per far sopravvivere il suo potere temporale; dall’altra rivelò di avere scarso potere sui suoi sudditi, che continuarono a partecipare come volontari alla guerra contro l’ Austria, G. Martina, Pio IX (1846-1850), Università Gregoriana Editrice, Roma 1974, pp. 225 ss. e F. Traniello, La sconfitta del neoguelfismo, in Id, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 157 ss.

[8] Anche dopo il 1848, Napoleone III continuò a sostenere questa soluzione fino al 1861, fino al momento in cui cioè si realizzò uno Stato unitario. La politica e la diplomazia europea, infatti, non riuscirono ad elaborare altra soluzione che quella della federazione di stati italiani per salvare il potere temporale.

[9] Subito dopo l’ Allocuzione del 29 aprile 1849, egli si preoccupò infatti di manifestare la sua simpatia per la causa italiana, indicando una via di mediazione pacifica per realizzare l’unità nazionale

[10] P. Scoppola, La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico nell’Italia unita, a cura di G. Tognon, Laterza, Roma Bari 2005, p. 52

[11] A. Riccardi, Giovanni XXIII e la “diplomazia della pace”, in A. Giovagnoli (a cura di), Pacem in terris tra azione diplomatica e guerra globale, Guerini, Milano, 2003, pp. 15 ss.

[12] In questa direzione Cavour fu mosso anzitutto da motivazioni politiche, nella convinzione che la conciliazione con Roma costituisse una questione decisiva per la stessa esistenza del nuovo stato italiano. Influirono però su di lui anche una sensibilità verso i temi religiosi, acquisita durante la sua giovinezza, e l’influenza di cattolici a lui vicini, in particolare il fratello Gustavo assai legato a Rosmini. Cfr. E. Passerin d’ Entreves, Religione e politica nell’ottocento europeo, a cura di F. Traniello, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma 1993 e Id, La formazione dello stato unitario, a cura di N, Raponi, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma 1993.

[13] Egli cercò, infatti, di offrire al Papa tutte le garanzie di cui avrebbe avuto bisogno, dopo che Roma fosse diventata italiana, per svolgere il suo “altissimo ministero”. Cfr. La questione romana negli anni 1860-1961. Carteggio del conte di Cavour con D, Pantaleoni, C. Passaglia, O. Vimercati, a cura della Commissione reale editrice, Zanichelli, Bologna 1929, 2 voll.

[14] Cfr. P. Scoppola (a cura di), I discorso di Cavour per Roma capitale, Istituto di Studi Romani, 1971

[15] Nel corso del XIX secolo si parlava di nazione legale e di nazione reale: c’erano, da una parte, le élites liberali che guidavano lo Stato e, dall’altra, le masse che ne erano escluse, in gran parte cattoliche. Oggi, invece, si cerca di mettere a fuoco soprattutto le differenze tra lo stato, inteso come soggetto politico-istituzionale, e la nazione, intesa come comunità culturale. Indubbiamente, nel linguaggio comune si continua spesso ad utilizzare in modo indifferenziato i due termini; sotto il profilo politico, inoltre, l’esistenza di una nazione viene ancora oggi considerata la legittimazione fondamentale di uno stato indipendente; lo stato nazionali, infine,  continuano ancora a costituire il principale soggetto di riferimento nel sistema delle relazioni internazionali, E. Gentile, Né stato né nazione. Italiani senza meta, Laterza, Roma Bari, 201, p. VII

[16] A questo tema ha dedicato una specifica attenzione anzitutto A. M. Banti, con La nazione nel Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, 2000 e U A. M. Banti, La nazione nel Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, 2000 e Il Risorgimento italiano, Laterza, Roma Bari 2004.. Cfr anche A. M. Banti e P. Ginsborg, Storia d’ Italia, Annali 22, Il Risorgimento, Einaudi, Torino 2007

[17] Cfr. F. Bruni, Italia. Vita e avventure di un’idea, Il Mulino, Bologna 2010

[18] Cfr. E. Galli della Loggia, L’ identità italiana, Il Mulino, Bologna 1998. Anche il processo di unificazione politico-istituzionale viene oggi ripercorso con particolare attenzione al rapporto con tale identità e in questa direzione si rivolge oggi gran parte dell’attenzione di libri ed esposizioni, documentari e fiction per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Il denso programma delle iniziative torinesi per il 2011 è in questo senso eloquente.

[19] Le etnie, come le nazioni, sono comunità culturali, non si fondano, cioè, su un patrimonio condiviso di elementi genetici (non possono, perciò, essere confuse con le “razze”), ma, a differenza delle nazioni, sono frutto di sedimentazioni di lungo periodo e vengono perciò percepite dai loro membri come aggregazioni solide e “naturali”. In Italia, il processo di nation buliding non ha potuto valersi di una base etnica comune, come quella costituita da franchi, sassoni e germani rispettivamente nei casi di Francia, Inghilterra e Germania, su cui si è poi innestata una più complessa identità nazionale.

[20] Questa istanza universalistica ha contrastato in Gioberti descrizioni etniche e definizioni naturalistiche. che pure non sono state, inizialmente, del tutto assenti nel suo pensiero Egli si è infatti spostato progressivamente da un’idea naturalistica ad una concezione storico-spirituale, interpretando le radici etrusco-pelasgiche della popolazione italiana (A. M. Banti, La nazione nel Risorgimento cit, p. 65) nel senso di “un genio particolare […] animato da un fortissimo senso religioso, cioè cattolico-romano” (G. Rumi, Gioberti, Il Mulino, Bologna 1999, p. 27). Gioberti indicava nella religione sia la radice delle diverse comunità particolari sia quella dell’intero genere umano e a tale approccio corrisponde un modello di unità nazionale non conflittuale o antagonista rispetto ad altre identità nazionali, ma piuttosto complementare e convergente verso una futura unità di tutti i popoli. Proprio alle nazioni egli affidava il compito di superare la contraddizione tra particolare e universale: nella sua visione, infatti, esse hanno natura storica e dinamica (F. Traniello, La polemica Gioberti-Taparelli sull’ idea di nazione,  in Id, Da Gioberti a Moro.Percorsi di una cultura politica, Franco Angeli Milano 1990 p. 61) A differenza dell’impero medievale, infatti, le nazioni moderne avevano il merito – a suo avviso - di costituire realtà vive e dinamiche, passaggi cruciali nel cammino dell’umanità verso la sua piena unità“Gli statisti ghibellini [...] miravano ad abolire la potenza civile del pontificato cattolico, ch’era un' istituzione viva [...] e a supplirvi rinnovando l' impero romano, che da un lato era un' istituzione morta, contraria alle idee cristiane [...] e dall’altro era un istituto barbarico", V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, a cura di G. Balsamo Crivelli, Torino 1925, I, p. 56..

[21] V. Gioberti, Il gesuita moderno, Capolago 1847, VII, p. 402.Cfr. F. Traniello, Religione nazione e sovranità nel Risorgimento, in Id, Religione cattolica e Stato nazionale cit, pp. 78-83

[22] Per Gioberti, nel tenace nazionalismo di Israele si esprime una radice cosmopolitica. L’identità di Israele, infatti, non solo non è etnica, culturale, nazionale, non è neanche religiosa, nel senso stretto del termine, non è cioè basata sulla condivisione di un insieme di credenze, simboli o valori, ma su un’identità radicalmente storica.

[23] Cfr. G. Langella, Amor di patria. Manzoni e altra letteratura del Risorgimento, Interlinea, Novara 2005, pp. 71 ss. La sua esistenza fu segnata da un evento: il Proclama di Rimini, lanciato da Gioacchino Murat nel 1815, ad un anno dal ritorno degli austriaci in Italia e della tragica fine del decennio bonapartista, per chiamare a raccolta tutti gli italiani contro l’ Austria Si tratta forse del primo progetto di esplicita rivendicazione dell’indipendenza italiana, cui Manzoni dedicò uno specifico componimento poetico e che fu all’origine di un percorso di produzione letteraria cui appartengono l’Adelchi, il Carmagnola e Fermo e Lucia. Tale percorso si intrecciò con una svolta rilevante sul piano personale – il ritorno alla fede cattolica – e con una riflessione sempre più esplicita sul rapporto tra Chiesa cattolica ed unità nazionale. La sua riflessione iniziò nel 1815 e cioè dopo la fine del decennio bonapartista, in coincidenza con il Congresso di Vienna e l’inizio della Restaurazione, quando tutti i sogni rivoluzionari sembrarono crollare definitivamente. Questa circostanza illumina la profonda cesura che separa il retroterra del Risorgimento italiano dalla Rivoluzione Francese. Tale cesura non vale solo per Manzoni, ma anche per molti altri protagonisti della stagione risorgimentale, a cominciare dal principale, Camillo Cavour, il regista dell’unificazione politico-istituzionale, cfr. R. Romeo, Cavour e il suo tempo, vol I, 1810-1842, Laterza, Roma Bari 1977, pp. 278 ss.

[24] S. de Sismondi, Histoire des Republique Italiennes du Moyen Age, VIII voll,. Parigi 1807-1809

[25] S. Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, Roma Bari 2010

[26] Manzoni continuò a riflettere su queste critiche fino a dare, con i Promessi sposi, la sua risposta più compiuta. Il romanzo, infatti, riconosce la decadenza italiana in età moderna e descrive negativamente il contesto storico seicentesco, indicando però nella conversione dei protagonisti, da fra Cristoforo all’Innominato, dal card. Federigo a don Abbondio, la risposta più efficace ai problemi storici posti da tale decadenza. In questo modo, insomma, egli capovolse le critiche di Sismondi presentando la Chiesa cattolica come la custode di una risorsa preziosa per diffondere tra gli italiani rigore morale, senso civico e responsabilità sociale.

[27] Cfr. A. Manzoni, La Rivoluzione Francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni, vol 15, Centro nazionale studi manzoniani, Milano 2000