Riflessioni sulla chiesa. “Su questa pietra…” (Mt 16,18). Lettera pastorale di S. E. Mons. Gualtiero Sigismondi, vescovo di Foligno

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 03 /12 /2010 - 23:50 pm | Permalink | Homepage
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Riprendiamo sul nostro sito una Lettera pastorale sul tema della chiesa scritta il 5/8/2010 da S. Ecc. mons. Gualtiero Sigismondi, vescovo di Foligno. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (3/12/2010)

Fratelli carissimi,

vi scrivo questa Lettera mentre mi accingo a compiere la Visita pastorale, che rappresenta una delle principali forme, collaudate dall’esperienza dei secoli, con cui il vescovo conferma i fratelli nella fede. È mia intenzione offrirvi alcuni spunti di riflessione sul mistero della Chiesa, tenendo presente, come rileva Romano Guardini (Il senso della Chiesa), che “non verremo mai a capo del mistero della Chiesa se non dopo essere arrivati ad amarla. Soltanto dopo!”.

Nel riprendere la riflessione avviata nella prima Lettera pastorale, desidero sottolineare quanto si legge nello Strumento di lavoro del Sinodo dei Vescovi sulla parola di Dio, la cui apertura è coincisa con l’inizio del mio ministero. “Nel suo essere mistero del Corpo di Gesù la Chiesa si trova ad avere nella Parola l’annuncio della sua identità, la grazia della sua conversione, il mandato della sua missione, la fonte della sua profezia e la ragione della sua speranza” (Instrumentum laboris 12). Creata dalla Parola e sottoposta alla norma della Parola, la Chiesa cresce e si sviluppa come “popolo radunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo” (San Cipriano, La preghiera del Signore 23).

Avendo ricevuto il mandato di affidarsi alla Parola, prima ancora di riceverla in affidamento (cf. At 20,32), la Chiesa si ringiovanisce e si rinnova nella misura in cui rimane fedele alla sua vocazione di “discepola della Parola” (cf. Lumen gentium 4). Se è vero che è “la Scrittura a portare in braccio la Chiesa”, è pure vero che “la Bibbia va letta sulle ginocchia della Chiesa”, poiché è nel noi della fede apostolica che il Vangelo non resta lettera morta. E tuttavia, la Chiesa non si colloca “al di sopra della parola di Dio, ma la serve” (cf. Dei Verbum 10), custodendone integro il messaggio da cui riceve forza, energia e consolazione sempre nuove.

L’ovile, la vigna e la casa

“La natura intima della Chiesa si fa conoscere a noi attraverso immagini varie, desunte sia dalla vita pastorale o agricola, sia dall’edilizia” (Lumen gentium 6). Si tratta di immagini molto semplici, come quella dell’ovile, che presenta la Chiesa come gregge di Dio, raccolto attorno a Cristo, “buon Pastore” e “Porta delle pecore” (cf. Gv 10,1-18).

Se l’immagine del gregge pone l’accento sull’unicità e necessità della Chiesa per la salvezza, quella della vigna ne evoca la fecondità e l’universalità (cf. Is 5,1-7) e trova piena luce nella metafora giovannea della vite e dei tralci, che esprime la relazione indissolubile tra Cristo e la Chiesa (cf. Gv 15,1-11). Si tratta di un vincolo che ha una radice santa, l’antico olivo del popolo della promessa, su cui il Dio di Abramo ha innestato il “nuovo Israele” (cf. Rm 11,13-24).

Fra le immagini bibliche più significative che rivelano la realtà della Chiesa vi è quella della casa, edificata su Cristo pietra angolare (cf. 1Pt 2,4-8). Sopra questo fondamento, che dà stabilità e coesione (cf. 1Cor 3,11), gli apostoli hanno costruito la Chiesa come tempio santo, assicurando loro stessi la saldatura tra Cristo, “pietra scelta e preziosa”, e le “pietre vive” dei fedeli (cf. Ef 2,19-22). Custodita e promossa dal ministero apostolico, la Chiesa è la “casa del Dio vivente”, la quale, avendo tutte le caratteristiche di un edificio antisismico, si configura come “colonna e sostegno della verità” (cf. 1 Tm 3,15). Questa immagine, che ho voluto raffigurare nello stemma episcopale, richiama alla mente la confessione di fede di Pietro (cf. Mt 16,16), sulla cui “roccia” il Signore Gesù ha edificato la sua Chiesa e “l’ha resa più forte del cielo stesso” (cf. San Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Matteo 54,2).

La luna e la barca

Il mysterium Lunae e la navicula Petri sono i simboli patristici per eccellenza con cui i Padri hanno tradotto le immagini bibliche sulla Chiesa, la quale non brilla di luce propria ma riflessa, quella di Cristo, Lumen gentium. La Chiesa, come la Luna, è tanto più se stessa quanto più scompare, quanto più diminuisce, quanto più decresce. Non c’è, in effetti, nessuna bellezza nella realtà ecclesiale che non sia un riverbero del fulgore del Risorto.

Se l’immagine della luna fa riferimento alla “cava” da cui è stata estratta la Chiesa, e cioè il Cuore aperto del Signore, il ricorso alla figura della barca, che ha Cristo come “timoniere” e la Croce come “albero maestro”, vuole indicare che la Chiesa, solcando il mare della storia, è destinata a entrare nel “porto” del Regno.

Con l’immagine della barca i Padri hanno inteso affermare, altresì, che la Chiesa è un mercantile che porta nel mondo il “carico prezioso” della Pasqua di Cristo. Il Signore Gesù ha progettato la navicula Petri nella regione di Cesarèa di Filippo, ancorandola saldamente alla “roccia” della fede di Pietro (cf. Mt 16,18). E tuttavia, l’ha generata nel “cantiere” del suo Cuore, ormeggiandola al “molo” della grazia pasquale.

Ma è a Pentecoste che l’ha varata, con l’effusione dello Spirito santo, tracciando la sua rotta (cf. At 2,1-13). Essa, infatti, vive costantemente dell’effusione dello Spirito, senza il quale esaurirebbe le proprie forze, come una barca a vela a cui venisse a mancare il vento. Quando il Signore ha progettato la Chiesa ha consegnato a Pietro le “chiavi” del Regno dei cieli; quando sulla Croce l’ha data alla luce ha riversato sul mondo il “torrente in piena” della sua grazia; quando l’ha varata ha voluto affidare ai  discepoli la missione che Egli stesso aveva ricevuto dal Padre (cf. Mt 28,18-20).

Lo Spirito e la Sposa

La missione dello Spirito è di condurre la Chiesa “alla perfetta unione col suo Sposo”. Senza lo Spirito, “operatore mirabile della ricchezza e varietà dei carismi”, la Chiesa si ridurrebbe a un’organizzazione umana, appesantita dalle proprie strutture. Senza lo Spirito, “principio della creazione nuova”, la Chiesa non sarebbe altro che un grande movimento storico, una complessa istituzione sociale, una sorta di agenzia umanitaria. Senza lo Spirito, che introduce nella grandezza del mistero di Cristo, la Chiesa non potrebbe vivere lo spasimo dell’attesa e la gioia della sorpresa del ritorno dello Sposo. “Vieni!” (Ap 22,17): è il grido di meraviglia dell’immacolata Sposa dell’Agnello (cf. Ap 21,2), “redenta e dotata del Sangue dello Sposo”, il quale “ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, tutta gloriosa, senza macchia né ruga” (cf. Ef 5,25-27).

La Chiesa, “santa e insieme sempre bisognosa di purificazione” (Lumen gentium 8), è il Corpo di Cristo che si manifesta come popolo di Dio, come comunità di peccatori che vivono della grazia del perdono. “È un Corpo che è mistico ma fatto di uomini, santo per natura – avverte Benedetto XVI – ma fragile per costituzione”. La storia insegna che il danno maggiore la Chiesa lo subisce non dalle persecuzioni, ma dal peccato, che inquina la fede e la vita dei suoi membri, intaccando l’integrità del Corpo mistico, indebolendo la sua capacità di profezia e di testimonianza, appannando la bellezza del suo volto. E tuttavia, vi è una garanzia di libertà assicurata da Dio alla Chiesa: libertà sia dai lacci materiali che cercano di impedirne o coartarne la missione, sia dai mali spirituali e morali, che possono intaccarne l’autenticità e la credibilità. Blaise Pascal, in uno dei suoi Pensieri, esclama: “Bella la vita della Chiesa quando è sostenuta soltanto da Dio!”.

L’Eucaristia e la Chiesa

È la Parola a convocare la comunità, ma è l’Eucaristia a farla essere un solo Corpo: “Poiché vi è un solo Pane, noi siamo, benché molti, un solo Corpo: tutti infatti partecipiamo dell’unico Pane” (1Cor 10,17). La tradizione ecclesiale fa a gara nel commentare questo versetto paolino, in cui si afferma che uno speciale rapporto unisce la Chiesa all’Eucaristia. “Ognuna, per così dire, è stata affidata all’altra dal Salvatore. È la Chiesa – sottolinea Henri-Marie de Lubac (Meditazione sulla Chiesa) – che fa l’Eucaristia, ma è anche l’Eucaristia che fa la Chiesa”. Si tratta di una relazione reciproca, di una misteriosa interazione, che manifesta la natura profonda della Chiesa: Sponsa Verbi e insieme suo Corpo mistico e, soltanto così, popolo di Dio.

“L’Eucaristia è inseparabile dalla Chiesa; essa – scrive Hans Urs von Balthasar (Il Credo. Meditazioni sul Credo apostolico) – nasce solo entro e per la Chiesa, così come la Chiesa sorge solo in virtù di essa”. Nell’Eucaristia la Chiesa manifesta se stessa nella sua forma più essenziale di Christus totus, Capo e membra: “Cristo e noi, Cristo con noi”. San Leone Magno insegna che “la nostra partecipazione al Corpo e al Sangue di Cristo non tende a nient’altro che a [farci] diventare ciò che riceviamo” (Discorso 12, Sulla Passione 3,7).

La comunione e l’unità della Chiesa, che nascono incessantemente dall’Eucaristia, ravvivano il dono dello Spirito, “artefice di unità nell’amore”. Quanto questo sia vero è testimoniato dalla prima comunità cristiana di Gerusalemme, la quale, nell’assiduità e nella concordia della preghiera (cf. At 1,14), ha ricevuto il dono dello Spirito santo, che l’ha resa “un cuore solo e un’anima sola” (cf. At 4,32). “La fraternità cristiana – puntualizza Dietrich Bonhoeffer (Vita comune) – non è un ideale che noi dobbiamo realizzare, ma una realtà creata da Dio in Cristo, a cui ci è dato di poter partecipare”.

La Vergine Maria e la Chiesa

Sia la storia del dogma, sia la devozione del popolo cristiano mostrano Maria e la Chiesa costantemente associate. Tra il mistero della Chiesa e quello della Madre di Dio i legami sono essenziali, tanto è vero che all’intelligenza dell’uno è indispensabile la contemplazione dell’altro.

La Chiesa, consapevole di questo suo intimo rapporto con la Vergine Maria, si rifugia sotto la sua protezione, riconoscendo in Lei, “mistica aurora della redenzione”, il suo punto d’origine e il suo traguardo di perfezione. “Immagine e modello della Chiesa orante”, la Madre del Signore ha presidiato – non certo presieduto! – il Collegio degli apostoli in attesa della Pentecoste, sapendo bene che lo Spirito santo non sarebbe disceso su di loro se non li avesse sorpresi insieme, nell’accordo della lode. “Non c’è Chiesa senza Pentecoste – osserva Benedetto XVI – ma non c’è Pentecoste senza la Vergine Maria”.

Come “il sorriso di una madre è il primo sacramento che l’uomo incontra sul suo cammino”, così il pianto dello Stabat Mater è il primo documento della sollecitudine di Maria per la Chiesa. Sulla Croce, Gesù si spoglia persino dello sguardo della Madre, invitandola ad estendere la sua maternità verginale a tutti gli uomini.

Illuminante, al riguardo, è la testimonianza di sant’Agostino, il quale tiene a precisare che la Madre di Dio, “primizia e immagine della Chiesa”, è un membro di tutto il Corpo ecclesiale, benché lo sia in modo unico. “Santa è Maria, beata è Maria, ma più importante è la Chiesa che non la Vergine Maria. Perché? Perché Maria è una parte della Chiesa: un membro santo, un membro eccellente, superiore a tutti gli altri, ma tuttavia un membro di tutto il Corpo. Se è un membro di tutto il Corpo, senza dubbio più importante d’un membro è il Corpo. Il Capo è il Signore, e Capo e Corpo formano il Cristo totale” (Discorso 72/A,7).

La Chiesa madre e maestra

La Chiesa non è diventata ma è nata cattolica il giorno di Pentecoste, quando tutti i suoi membri erano raccolti in un’unica sala. La prodigiosa predicazione nelle diverse lingue ha segnato la nascita della Chiesa come “Catholica madre dei santi” e l’ha proiettata nel mondo quale “sacramento di unità per tutto il genere umano” (cf. Lumen gentium 1).

San Cirillo di Gerusalemme arriva a dire, in proposito, che la Chiesa è cattolica non solo “per il fatto che è diffusa ovunque” o “perché universalmente e senza defezione insegna tutti i dogmi” ed è “destinata a condurre tutto il genere umano al giusto culto”, ma anche “perché possiede ogni genere di santità” e, addirittura, “perché cura e risana ogni genere di peccati” (cf. Catechesi 18,23-25). A giudizio di Henri-Marie de Lubac (Meditazione sulla Chiesa), il mistero della Chiesa si configura come “una grande colata lavica, che, zampillata dal Costato aperto del Cristo sul Calvario e temprata al fuoco della Pentecoste, avanza come un fiume e come un incendio”.

Nella sua sollecitudine materna la Chiesa non ha la pretesa di estendere i propri confini o di occupare nuovi territori, ma custodisce l’attesa di far sentire quanto sia ampio e stretto l’abbraccio della divina misericordia. “Nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per madre” (San Cipriano, L’unità della Chiesa cattolica 6). Chiamata a riunire i linguaggi della famiglia umana nella professione dell’unica fede, la Chiesa non ha una missione, ma è in se stessa missione: vivere del e per il Vangelo! “Evangelizzare, infatti, è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda” (Evangelii nuntiandi 14).

Coniugando la chiarezza e la mitezza nell’affermazione della verità con l’intelligenza e la pazienza dei modi con cui proporla, la Chiesa sa bene che è lo Spirito a presiedere il dialogo tra la Parola e il cuore umano. Il titolo di casta meretrix, che sant’Ambrogio attribuisce alla Chiesa (cf. Esposizione del Vangelo secondo Luca 3,23), non esprime la sua collusione cronica con il peccato, ma indica la sua collisione salvifica con il mondo.

Il Regno di Dio e la Chiesa

La Chiesa, “misteriosa estensione della Trinità nel tempo”, è “assemblea convocata”, “assemblea santa”, “comunione di santi e di cose sante”, che porta in sé la figura e l’immagine della Gerusalemme celeste. Se traguardo della Chiesa è il Regno, la strada della Chiesa è l’uomo, “prima e fondamentale via della Chiesa” (Redemptor hominis 14).

Questo principio, enunciato da Giovanni Paolo II, pone l’accento sul fatto che la Chiesa pellegrina sulla terra non si identifica con il Regno, e tuttavia ne costituisce l’inaugurazione e ne assicura la presenza attuale e operante in mezzo agli uomini.

“La sua appartenenza al mondo – puntualizza Dietrich Bonhoeffer (Fedeltà al mondo. Meditazioni) – non la separa da Cristo e la sua appartenenza a Cristo non la separa dal mondo. In quanto appartiene interamente a Cristo è al tempo stesso interamente nel mondo”. Questo è, per così dire, il codice che regola la missione della Chiesa, che è quella di penetrare e condividere la storia del mondo, sicura solo del suo Signore e, per il resto, povera, cioè libera.

L’apertura al Regno qualifica la Chiesa come “comunità in esodo”, allo stesso tempo orante e pellegrina, impegnata a intercettare in ogni dimensione umana un’attesa che la speranza cristiana è chiamata ad allargare. Questa missione è affidata, in particolare, ai fedeli laici, i quali “sono nel mondo ciò che l’anima è nel corpo” (cf. Lettera a Diogneto).

Stando “da laici nella Chiesa e da cristiani nel mondo”, i christifideles hanno la responsabilità di testimoniare l’originalità e l’alternativa della logica evangelica delle beatitudini, avendo ben chiaro, da una parte, che “nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel cuore [dei discepoli di Cristo]” (Gaudium et spes 1) e, dall’altra, che nulla vi è di autenticamente cristiano che non possa trovare spazio nel cuore degli uomini d’oggi. L’insegnamento conciliare sui laici, sulla loro particolare vocazione e missione, attende ancora di essere recepito e raggiunto! “Tanto è alto – si legge nella Lettera a Diogneto – il posto che ad essi assegnò Dio che per questo non è loro lecito abbandonarlo”.

La Chiesa universale e particolare

La missione apostolica della Chiesa universale si realizza in ogni Chiesa particolare, raccolta attorno al vescovo, “principio visibile e fondamento di unità”, che rende presente Cristo, “Principe dei pastori” (cf 1Pt 5,4). “Formate a immagine della Chiesa universale”, le singole Diocesi non sono parti separate di una struttura amministrativa più ampia (cf. Lumen gentium 23); ogni Chiesa particolare è la Chiesa universale che si fa evento in un determinato spazio e in un preciso tempo. Le Chiese particolari, con la loro storia e le loro tradizioni, non sono frammenti della Chiesa universale, semmai sono frammenti eucaristici di essa, vale a dire reali espressioni dell’unica Chiesa, di cui vivono la comunione, dispiegandone variamente l’inesauribile mistero.

L’immagine che esprime meglio la realtà di questo complesso intreccio non è quella del mosaico, fatto di tanti tasselli diversi, ma quella del corpo, formato da molte cellule, in ciascuna delle quali è contenuto l’intero “patrimonio genetico” dell’unico Corpo di Cristo.

L’unità della Chiesa cattolica si manifesta nella Cathedra Petri, che presiede alla comunione universale della carità. Il Successore di Pietro, cui è affidata la cura pastorale di tutto il gregge di Cristo, segue e serve la vocazione specifica della Chiesa di Roma, custode della missione di Pietro e Paolo, chiamata ad essere “pietra di paragone della fede apostolica”.

Come il Vescovo di Roma è “perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità e della cattolicità della Chiesa” (cf. Lumen gentium 22-23), così ogni vescovo “è quasi punto di congiunzione della sua Chiesa particolare con la Chiesa universale e testimonianza visibile della presenza dell’unica Chiesa di Cristo nella sua Chiesa particolare” (Pastores gregis 55). Come la comunione gerarchica con il Successore di Pietro è elemento costitutivo per l’esercizio del ministero episcopale, così la comunione gerarchica dei presbiteri con il vescovo – basata sul sacramento dell’Ordine e manifestata nella concelebrazione eucaristica – è principio fondante per il loro ministero, che è a servizio della missione profetica, sacerdotale e regale dell’intero popolo di Dio.

La Chiesa particolare e la comunità parrocchiale

La parrocchia, struttura capillare di comunione e missione della Chiesa particolare, è una “comunità di battezzati che esprimono e affermano la loro identità soprattutto attraverso la celebrazione del Sacrificio eucaristico” (Ecclesia de Eucharistia 32). Non si tratta di un’istituzione di diritto divino e nemmeno di una semplice porzione geografica o giuridica della Chiesa particolare; è il suo farsi locale, il suo abitare, nello spirito della “logica dell’incarnazione”, le pieghe ordinarie della vita pastorale.

Radicata in un territorio, che continua ad essere l’ambito di socializzazione meno selettivo, la parrocchia non può sottrarsi al compito di esplorare la “frontiera” delle unità pastorali – intese non come agglomerato, ma come rete di comunità parrocchiali! –, che costituiscono uno dei principali tentativi in atto per intrecciare in maniera feconda la cosiddetta “pastorale integrata”. Quale struttura fondamentale dell’evangelizzazione, la parrocchia va pensata, costituita e organizzata come campo-base della “conversione missionaria della pastorale”.

La comunità parrocchiale non è un insieme casuale di persone che agiscono da “solisti”, ma è una realtà sinodale e carismatica. La sinodalità è il sigillo di garanzia dei carismi, che sono autentici nella misura in cui rispondono al principio della “utilità comune” (cf. 1Cor 12,7). Ben sapendo che la varietà dei carismi non divide e non lacera, ma compone e arricchisce, è ormai tempo di superare tanto la “diffidenza” della parrocchia nei riguardi dei movimenti, quanto la “latitanza” delle nuove aggregazioni laicali nei confronti della parrocchia.

In un contesto di “pastorale d’insieme” si fa ancora più stringente la necessità di “camminare in cordata”, poiché “ogni volta che si annulla l’avverbio insieme – avverte don Tonino Bello – si annulla anche il verbo camminare. Gli stessi organismi di partecipazione, sia diocesani che parrocchiali, rappresentano dei preziosi strumenti di “discernimento comunitario”, a condizione, però, che non si ispirino al criterio parlamentare della maggioranza, ma che rispondano alla logica sinodale della convergenza.

La Chiesa mistero e prova di fede

Il credo in Christum e il credo Ecclesiam, più che due articoli di fede, sono due momenti consecutivi di uno stesso atto di fede. Disarmante, per semplicità e profondità, è la testimonianza che mi ha reso, al riguardo, un anziano sacrista: “Senza Cristo non vivo, senza Chiesa non campo!”.

Non esito ad accostare questo aforisma a quanto scrive sant’Agostino: “Errerei se cercassi il mio Dio al di fuori della tenda (…). La sua tenda è la Chiesa, ma ancora pellegrina. Tuttavia è qui che dobbiamo cercare, perché nella tenda si trova la via, grazie alla quale si giunge alla dimora” (Esposizioni sui Salmi 42,3-4). L’obbedienza della fede non è, dunque, una realtà puramente interiore, e la relazione con Cristo non è soltanto soggettiva; è invece una relazione concreta, ecclesiale, che, paradossalmente, si configura come mistero e prova di fede. La fede in Cristo sarebbe, infatti, un vago affetto se non si esprimesse almeno nell’intenzione di “vivere la grazia più grande e più amaramente necessaria: poter amare la Chiesa”.

È opportuno rileggere, in proposito, una pagina di Carlo Carretto – tratta da Il Dio che viene e ripresa in Ho cercato e ho trovato –, nella quale egli confessa che non sogna una Chiesa dei puri, ma anela ad un’immagine pura del Corpo ecclesiale. “Quanto mi sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo! Quanto mi hai fatto soffrire, eppure quanto a te devo! Vorrei vederti distrutta, eppure ho bisogno della tua presenza. Mi hai dato tanti scandali, eppure mi hai fatto capire la santità. Nulla ho visto nel mondo di più oscurantista, più compromesso, più falso e nulla ho toccato di più puro, di più generoso, di più bello. Quante volte ho avuto la voglia di sbatterti in faccia la porta della mia anima e quante volte ho pregato di poter morire fra le tue braccia sicure! No, non posso liberarmi di te, perché sono te, pur non essendo completamente te. E poi, dove andrei? A costruirne un’altra? Ma non potrò costruirla se non con gli stessi difetti, perché sono i miei che porto dentro. E se la costruirò, sarà la mia Chiesa, non più quella di Cristo (…). No, non vado fuori di questa Chiesa fondata su una pietra così debole, perché ne fonderei un’altra su una pietra ancora più debole che sono io (…). No, non è male contestare la Chiesa quando la si ama; è male contestarla sentendosi al di fuori come dei puri”.

La bellezza e le “rughe” della Chiesa

Prima dell’ordinazione episcopale ho sempre guardato la Chiesa con l’occhio del figlio che riposa tranquillo e sereno nelle braccia di sua madre. Adesso, da vescovo, ho scoperto nella Chiesa la Sposa: i sentimenti sono profondamente diversi! Quando si guarda il volto della propria madre le rughe si notano, ma non si osservano, poiché ne modellano la bellezza; quando invece si ammira il volto della sposa le rughe si notano, si osservano e, addirittura, si contano!

Le “rughe” che vado scoprendo sul volto della nostra Chiesa particolare non ne diminuiscono la bellezza, ma ne velano lo splendore. Provo a indicarle con pudore e audacia, sia pure con beneficio d’inventario!

- Più che un “alveare laborioso”, che vive l’avventura dello sciame senza consumare l’esperienza dello scisma, ho la sensazione che la nostra Diocesi sia un “formicaio frenetico”, in cui ciascuno tira diritto, per la propria strada, dimenticando che “la concordia è il cemento dell’unità”.

- Più che una “casa-famiglia”, aperta al soffio impetuoso e gagliardo dello Spirito santo, talvolta affiora in me l’idea che la nostra Chiesa particolare sia un “condominio” di parrocchie, di associazioni e di movimenti, che si trattano con rispetto ma si guardano con sospetto.

- Più che una “fucina missionaria”, talora ho l’impressione che la nostra Diocesi sia una “officina pastorale”, che di fronte all’incalzare della secolarizzazione si limita a garantire alcuni servizi di manutenzione ordinaria, assicurando qualche intervento di emergenza.

- Più che un “ovile”, spesso affiora in me il dubbio che la nostra Chiesa particolare sia un “recinto”, dove ci si sente protetti: forse anche ristretti, e tuttavia al riparo dalla sfida di aprire il cantiere dell’Atrio dei Gentili, costruendo un ponte tra sagrestia e sagrato.

- Più che un “chiostro” dove risuona l’eco della parola di Dio, che dà voce alla profezia, talora ho la percezione che la nostra Diocesi corra il rischio di essere un “cortile”, in cui si avverte il chiasso del “letargo spirituale” e il silenzio del lungo “inverno vocazionale”.

Fratelli carissimi, per quanto le “rughe” della nostra Chiesa particolare possano essere marcate, esse non riescono a cancellare la dolcezza dei suoi lineamenti materni e la bellezza del suo volto di Sposa. Vorrei che fosse a tutti chiaro che la nostra Diocesi è davvero splendida ai miei occhi! “Un pastore – ammonisce Dietrich Bonhoeffer (Vita comune) – non deve lamentarsi della sua comunità, tanto meno davanti agli uomini, ma neppure davanti a Dio; essa non gli è affidata perché se ne faccia accusatore davanti a Dio e agli uomini. Chi perde la fiducia nella comunità cristiana in cui si trova, e si lamenta di essa, prima di tutto esamini se stesso, e si chieda se Dio non voglia semplicemente distruggere il suo ideale; se è così, ringrazi Dio di averlo posto in questa situazione di disagio”.

Più che un atto di accusa, il mio disagio vuole essere un appello a “camminare in cordata”, stringendoci a Cristo, “pietra viva” (cf. 1Pt 2,4-5). “Camminare insieme secondo la volontà di Dio”: questa è la grammatica della Chiesa. “La perfezione di chi è in cammino – ricorda sant’Agostino – consiste nella consapevolezza di non trovarsi ancora là dove vuole pervenire: sa bene infatti quanta strada ha percorso e quanta gliene resta da fare” (Discorso 306/B,3). Che il Signore ci faccia bella e buona la strada! I nostri santi Patroni l’hanno percorsa con evangelico coraggio! Ci soccorra, nel nostro cammino, l’intercessione della Vergine Maria, protagonista umile e discreta dei primi passi della Comunità apostolica.

 

Foligno, 5 agosto 2010

Dedicazione della Basilica di Santa Maria Maggiore

 

+ Gualtiero Sigismondi

Vescovo di Foligno