YHWH: il Tetragramma, le quattro lettere del Nome divino, del prof.Giancarlo Biguzzi
Presentiamo on-line una breve nota del prof.Giancarlo Biguzzi, docente di Nuovo Testamento presso la Pontificia Università Urbaniana, apparso sulla rivista Euntes Docete. Commentaria Urbaniana 2003/1, pagg.119-123, con il titolo originario Le quattro lettere del Nome divino, in una rubrica - che aveva lo scopo di raccontare, come in agili reportage giornalistici, l’attualità del nostro passato - intitolata “Archeologia delle origini” (“archeologia” nel duplice senso di arte che attraverso trincee di scavo riporta alla luce ciò che fu, e poi di discorso su ciò che è antico).
Il Centro culturale Gli scritti (27/1/2007)
I Testimoni di Geova hanno richiamato l’attenzione di tutti sul nome che la Bibbia dà a Dio e sulla sua pronuncia. Per noi cristiani il nome divino è rilevante pressoché soltanto per il secondo comandamento il quale recita: «Non nominare il nome di Dio invano»; non certo per la sua pronuncia. Ma discutere sulla pronuncia del nome di Dio e sul secondo comandamento potrebbe essere più fecondo di quel che si pensa.
Nella Bibbia ebraica il Nome, che ricorre più di 6800 volte, è composto di quattro consonanti: Yod, He, Waw, He [= YHWH], e solitamente viene indicato come “il Tetragramma”, e cioè “le Quattro Lettere”. Le difficoltà non vengono da quelle quattro consonanti, ma dalle vocali, perché l’ebraico è una lingua basata sulle consonanti tanto che – per dire una cosa universalmente risaputa – anche l’ebraico moderno che si usa nello stato d’Israele si scrive con le sole consonanti. La discussione riguarda dunque non le 4 consonanti del nome divino che sono conosciute e fisse, ma le sue vocali, che sono variabili e possono essere non scritte.
Il nostro discorso però deve cominciare dall’antico comandamento del non nominare il nome di Dio che nella Bibbia è riportato due volte: nel libro dell’Esodo (20,7) e nel libro del Deuteronomio (5,11).
Il comandamento biblico
Il nostro comandamento ha la forma di una proibizione: proibisce di pronunciare il nome divino «lassaw’». Abitualmente si traduce l’espressione ebraica lassaw’ con “invano”, sulla scia di San Girolamo che tradusse con il latino “in vanum”. Il significato solitamente attribuito all’espressione è che non si deve pronunciare il nome di Dio per leggerezza o per bestemmia. Questa è però un’interpretazione debole, coinvolgendo solo il nostro modo di parlare. Più probabilmente l’espressione ha invece un valore forte, significando che non si può invocare il nome divino su ciò che è moralmente cattivo e contrario alla santità di Dio, così che in quel comandamento è coinvolto anche il modo di vivere e non solo quello di parlare.
Questa è l’applicazione concreta che il comandamento ha avuto per esempio in Levitico 19,12: «Non giurerete il falso servendovi del mio nome, perché profaneresti il nome del tuo Dio». Sulla stessa linea, la traduzione greca detta “dei Settanta” (fatta ad Alessandria d’Egitto a partire da circa il 200 a.C. per i giudei che in Egitto non comprendevano più l’ebraico) traduce «lassaw’» con “su ciò che è vano” (“epi mataiōi”), e non “invano” (“mataiōs”). Dopotutto anche Girolamo, traducendo “in vanum” (= su ciò che è vano, inconsistente), voleva dare un valore forte all’espressione, perché “invano” con il valore di “alla leggera” in latino si direbbe “frustra”. L’errore è stato dunque quello di unire in “invano” (avverbio) le due parolette che nella traduzione di Girolamo erano invece separate: «in / vanum» (preposizione seguita da un nome).
La proibizione di pronunciare il nome e la sua sostituzione
L’influsso del comandamento di non pronunciare il nome divino su ciò che è vano fu tanto forte che il giudaismo giunse a sopprimere totalmente la pronuncia del nome divino nonostante che esso, secondo gli stessi testi biblici (Esodo 3,4; 6,2), fosse stato donato al popolo nella rivelazione del roveto ardente in vista della liberazione dall’Egitto. Per giustificare quella soppressione così drastica fu data un’interpretazione apposita al testo di Esodo 3,15: invece che «Questo è il mio nome per sempre (in ebraico: le‘olam)», si leggeva, vocalizzando diversamente l’espressione, «Questo è il mio nome perché sia nascosto (in ebraico: le‘alem)». Tra l’altro, il cambio da le‘olam a le‘alem dice quanto davvero nella lingua ebraica le vocali siano ballerine.
È così che Abba Sa‘ul (circa 150 d.C.) giunse ad affermare che chi pronuncia il Tetragramma non avrà parte al mondo futuro. Ed è così che il lettore sinagogale che incontrava il Tetragramma pronunciava al suo posto ‘Adonay. Invece del nome proprio di Dio, e cioè invece di YHWH, si leggeva dunque il nome comune ‘Adonay che significa “Signore”. Per aiutare il lettore a pronunciare ‘Adonay, addirittura si vocalizzarono le quattro consonanti del Tetragramma (YHWH) con le vocali di ‘Adonay, e questa strana somma di consonanti di un nome proprio e di vocali di un nome comune diedero e danno il risultato di « YeHoWaH », da cui il “Geova” dei Testimoni di Geova.
È così che Rabbi Ya‘aqov ben Aha (circa 300 d.C.) diceva: «Il nome viene scritto con (le consonanti) Yod-He (= YHwh), ma viene letto con (le consonanti) Alef-Dalet (= ‘ADonay). E Rabbi Nahman ben Yishaq († 356) diceva similmente: «Questo mondo non è come il mondo futuro: in questo mondo (il nome di Dio) viene scritto con Yod-He e letto con Alef-Dalet; ma nel mondo futuro è molto diverso: viene letto con Yod-He così come viene scritto». E Rabbi Alina († circa 420), infine, diceva: «Il Santo – che Egli sia lodato! – parlò: Io vengo scritto con Yod-He e vengo letto con Alef-Dalet». Potrà sembrare inutile trascrivere queste affermazioni l’una quasi uguale all’altra, ma non lo è, perché permette di rendersi conto di quanto i Testimoni di Geova siano poco documentati su ciò che è uno dei capisaldi del loro insegnamento e della loro professione di fede. Nel loro “Geova” non compare proprio in nessun modo quel Dalet che i giudei pronunciano quando, vedendo « Yehowah », pronunciano « ‘Adonay ».
L’epoca della sostituzione
Nonostante che questi testi rabbinici circa la sostituzione del Tetragramma con ‘Adonay siano d’epoca cristiana, sembra che la sostituzione del Tetragramma si trovi già in alcuni testi dell’Antico Testamento. Per esempio in Levitico 24,11 e 24,16 è scritto: «Chi bestemmia il Nome dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo lapiderà», ma si pensa che il testo dicesse: «Chi bestemmia YHWH ecc.». La stessa cosa sembra potersi dire di Daniele 4,23 dove si trova scritto: «… il tuo regno ti sarà ristabilito quando avrai riconosciuto che al Cielo appartiene il dominio», e dove si pensa che fosse scritto invece: «… quando avrai riconosciuto che a YHWH appartiene il dominio».
La sostituzione di YHWH con ‘Adonay nella lettura ufficiale sembra comunque presupposta dalla traduzione greca dei Settanta già menzionata (200 a.C.), perché il Tetragramma è tradotto con Kyrios (= Signore), l’equivalente greco di ‘Adonay.
La pronuncia del nome nel tempio
La pronuncia del Tetragramma era consentita (quasi) solo nel tempio, probabilmente perché esso era “il luogo dove Dio ha scelto di far abitare il suo nome”, come dice una decina di volte il solo libro del Deuteronomio (cf. per es. 12,5.11.21; 14,23.24 ecc.).
Il nome divino era anzitutto pronunciato dai sacerdoti quando recitavano sui pellegrini la benedizione aronitica di Numeri 6,24-26 in ossequio a Numeri 6,23 e 6,26: «Voi benedirete così gli Israeliti...», «... così (i sacerdoti) porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò». In secondo luogo il nome era pronunciato dal sommo sacerdote nel giorno dell’espiazione o giorno del Kippur, quando recitava le tre confessioni di peccato. Secondo alcuni testi, in quel giorno il nome veniva pronunciato dal sommo sacerdote 4 volte, secondo altri 10 volte. Il coro dei sacerdoti rispondeva ogni volta cantando il responsorio: «Benedetto sia il Nome del suo Regno glorioso di eternità in eternità».
Fuori del tempio poteva essere pronunciato in tribunale da chi, dovendo testimoniare contro un bestemmiatore, doveva necessariamente riferire la bestemmia che aveva udito.
La pronuncia dimenticata nel secolo I d.C.
Una limitazione così drastica e radicale dell’uso del nome divino e poi la distruzione del tempio nel 70 d.C. ebbero come prima conseguenza che andò perduto il ricordo della vocalizzazione di YHWH e della sua precisa pronuncia. Lo fanno pensare i testi rabbinici che parlano di difficoltà a poter udire o ricordare il suono pronunciato nel Kippur dal sommo sacerdote.
Un primo testo dice: «Coloro che stavano vicini (al sommo sacerdote) cadevano faccia a terra (dopo la pronuncia del nome); quelli lontani gridavano: “Sia lodato il Nome ecc.”. Ma tanto gli uni come gli altri, appena se ne andavano, ecco: non ricordavano più (la pronuncia del Nome)». Un secondo testo dice: «Precedentemente il sommo sacerdote pronunciava il Nome ad alta voce, ma quando aumentò il numero degli insolenti, il sacerdote cominciò a pronunciarlo a voce sommessa». Si possono citare infine le parole attribuite a Rabbi Tarfon (I secolo d.C.) che diceva: «Io ero nella fila tra i miei fratelli, i sacerdoti, e ho teso l’orecchio verso il sommo sacerdote (per udire il nome) e ho udito come il sommo sacerdote ha lasciato che fosse ricoperto dal canto dei sacerdoti».
I nomi alternativi di Dio per i rabbini
Una seconda conseguenza fu che si dovette creare tutto un sistema di nomi e di circonlocuzioni che consentissero di parlare di Dio o di alludere a Lui senza nominarlo.
I più frequenti di questi nomi erano: ha-samayim, “i Cieli” (dove è il trono di Dio), e più tardi da ha-maqom, “il Luogo”, “il Cielo”. E poi: “Il Santo, che Egli sia lodato!”, “Signore”, “Re”, “Padre che è nei cieli”, “Colui che parlò e il mondo fu”, “La Potenza”, “Il Regno dei Cieli”, “Il timore di Dio”, “La Gloria”, “L’Abitare”, o “La Presenza”, “La Parola”. E la lista è solo esemplificativa.
Il nome di Dio evitato nel NT
I commentatori del Nuovo Testamento pensano che molte espressioni evangeliche siano da interpretare allo stesso modo, e cioè come circonlocuzioni del nome di Dio di cui Gesù e la chiesa apostolica hanno fatto uso in continuità con il costume del giudaismo contemporaneo.
Una prima circonlocuzione del NT per evitare il nome divino è “il Cielo”, nome alternativo che tra l’altro è in comune con i rabbini. Così Gesù dice «… grande è la vostra ricompensa nei cieli» (Mt 5,12), «Ciò che legate sulla terra, sarà legato anche nei cieli» (Mt 16,19 e 18,18), «… e avrai un tesoro in cielo» (Mc 10,21), «Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10,20), e «… accumulatevi tesori nei cieli» (Lc 12,33). Gesù poi chiede ai suoi avversari: «il battesimo di Giovanni era dal cielo o dagli uomini?» (Mc 11,30), mentre il figlio prodigo dice a suo padre: «Ho peccato contro il cielo e contro di te» (Lc 15,18.21). Il quarto evangelista sostituisce il nome divino invece con l’espressione «dall’alto» e fa dire a Gesù: «Se uno non rinasce dall’alto…» (Gv 3,3.7), e «Non avresti nessun potere su di me se se non ti fosse dato dall’alto» (Gv 19,11).
Altri nomi alternativi sono “Potenza” («Vedrete il Figlio dell’Uomo venire sulle nubi, seduto alla destra della Potenza» (Mc 14,62), oppure “Sapienza” («Alla Sapienza è stata resa giustizia», Mt 11,19; «La Sapienza di Dio ha detto…», Lc 11,49), oppure “il Benedetto”, “l’Altissimo”, “il gran Re” («Sei tu il figlio del Benedetto?», Mc 14,61; «… non giurate per Gerusalemme, perché è la città del gran Re», Mt 5,35; «… sarete figli dell’Altissimo», Lc 6,35).
Il nome divino è poi talvolta sostituito da un participio o da una perifrasi verbale. Così Gesù dice: «Chi accoglie me non accoglie me, ma Colui che mi ha mandato» (Lc 9,37); «Temete piuttosto Colui che ha il potere di far perire l’anima e il corpo nella Geenna» (Mt 10,28), «Chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che vi abita» (Mt 23,21), «Chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso» (Mt 23,22).
Le ultime due forme sostitutive del nome proprio di Dio che meritano di essere ricordate sono quelli che vengono chiamati il plurale “teologico” o “divino” e il passivo “teologico” o “divino”. Nel primo caso, invece di mettere il nome divino, gli evangelisti omettono il soggetto della frase e mettono il verbo al plurale che, suonando male al nostro orecchio, nelle traduzioni correnti viene di solito evitato. Tradotte letteralmente le frasi del plurale divino suonano: «Una misura buona e traboccante daranno a voi (= Dio darà a voi)» (Lc 6,38); «Stolto!, questa stessa notte ti chiederanno la vita» (Lc 12,20), «A chi fu affidato molto, a lui molto chiederanno» (Lc 12,48), «… affinché, quando la ricchezza verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne» (Lc 16,9).
Le nostre traduzioni di solito conservano invece il passivo divino che nei soli quattro vangeli ricorre un centinaio di volte. I casi più evidenti sono quelli delle beatitudini: «… perché saranno consolati (= Dio li consolerà)» (Mt 5,4), «… perché saranno saziati» (Mt 5,6), «… perché saranno oggetto di misericordia» (5,7). E poi: «Con il giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con cui misurate sarete misurati» (Mt 7,2), «Date e vi sarà dato, … bussate e vi sarà aperto, perché … a chi bussa sarà aperto» (Mt 7,7-8), «A chi ha sarà dato…, e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha» (Mt 13,12), «Chi si innalzerà sarà abbassato, e chi si abbasserà sarà innalzato» (Mt 23,12), «… venite, ricevete in eredità il regno preparato [+ da Dio] per voi fin dalla fondazione del mondo» (Mt 25,34), «Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati [+ da Dio]» (Mc 2,5.9), «… nessun segno sarà dato [+ da Dio] a questa generazione» (Mc 8,12), «…[+ da Dio] le sono perdonati molti peccati perché molto ha amato» (Lc 7,47), «Il pubblicano tornò a casa giustificato [+ da Dio]…».
Noi e il nome divino
Essere consapevoli di tutto questo è tre volte di aiuto.
È di aiuto per una lettura più illuminata di tante frasi o parabole dei quattro vangeli, per sapervi avvertire il nome divino anche là dove non è esplicito e visibile a prima vista. In secondo luogo è utile per conoscere meglio gli ebrei, da sempre profondamente interessati al nome divino, e per meglio conoscere poi i Testimoni di Geova che ad esso sono interessati dal 1879. In terzo luogo, soprattutto, ci è di aiuto per pensare Dio e per rapportarci con lui.
Anzitutto per pensare Dio come mistero grande e venerabile, sull’esempio di Gesù il quale sostituiva il nome divino con “Cielo”, “Potenza”, “Sapienza” e con un passivo che, senza nominarlo, di Dio diceva la presenza attiva ed efficace. E poi per rapportarci con lui, non pretendendo di legittimare con il suo nome ciò che è vano, blasfemo o malvagio. Dopotutto, il peccato più grave commesso nel secolo XX contro il «Non nominare il nome di Dio invano» è stato quello di Hitler che faceva scrivere sulle insegne dei suoi eserciti e sui cinghioni delle sue SS il motto: «Gott mit uns – Dio con noi». Dio è, sì!, l’“Emmanuele”, il Dio con noi: lo afferma esplicitamente Mt 1,23. Ma è contro il suo santo comandamento, ed è la più orribile delle bestemmie, l’uso del suo nome come legittimazione del razzismo, del militarismo, e dello sterminio di milioni di innocenti.
Bibliografia
- H.L. Strack - P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, München 1922-1928 (I, 172 per Samajim; I, 443per il passivo teologico; I, 862 per Samajim; II, 221 per il plurale divino; II 302-333 sulla pronuncia del nome divino, soprattutto 308-313).
- G. Kittel - G. Friedrich, Grande Lessico del Nuovo Testamento (-- Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Stuttgart) (I, 264-265 per hagios; IV, 393-398 per theos; VIII, 753-755 per onoma; 1425, 1433-1434, 1458-60, per ouranos).
- J. Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento, Brescia 1972 (dal tedesco, Göttingen 1971) 17-22 su passivo teologico e circonlocuzioni del nome divino
- M. McNamara, I Targum e il Nuovo Testamento, Bologna 1978 (dall’inglese 1972) 111-115
Testi dello stesso autore presenti sul nostro stesso sito www.gliscritti.it
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