Omero, il primo classico conferenza, del prof. Marco Maiocco
Presentiamo on-line la conferenza sull’Iliade di Omero del prof. Marco Maiocco, docente di Lettere, presso il Ginnasio-Liceo Anco Marzio-Lido di Ostia. Il testo è stato trascritto dalla viva voce dell’autore e conserva, pertanto, i tratti tipici di una relazione orale. L’incontro, tenutosi l’1 dicembre 2006, faceva parte del ciclo “Perché leggere i classici?”, organizzato dall’Associazione Guido Sacchi-Il piacere d’imparare, che ringraziamo per averci concesso la disponibilità di questo testo. I titoli ed i neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di rendere più facile la lettura on-line del testo.
Il Centro culturale Gli scritti (1/8/2007)
Indice
- Premessa: un ringraziamento agli alunni ed all’Associazione Guido Sacchi
- Omero: il primo classico
- L’orrenda mischia: gli Achei sono i Micenei? (VI libro, vv.1-11)
- Agamennone, Menelao e Adrasto: i poemi omerici servivano a trasmettere modelli di comportamento? (VI libro, vv. 45-65)
- Glauco e Diomede: Omero amava i primi piani? (VI libro, vv. 144 -151; 212-226)
- Ettore e Ecuba: perché Omero ripete spesso alcune espressioni fisse? (libro VI, vv. 263-285)
- Ettore ed Andromaca: l’Iliade è un poema di guerra? (VI libro, vv. 429-439; 447-474)
- L’Odissea, anche un poema d’amore
Premessa: un ringraziamento agli alunni ed all’Associazione Guido Sacchi
Buona sera a tutti. Vorrei ringraziare tutti coloro che sono qui: quelli che sono qui per curiosità, per scoprire dei testi che forse finora hanno accostato poco, i tanti che invece so conoscere questi testi molto meglio di me e che mi onorano della loro presenza. Provo un po’ di imbarazzo a parlare di Omero di fronte a fini conoscitori, spero che questa sera sia soprattutto un’occasione per condividere quella che è una passione mia e di molti altri. Un grazie particolare va ai tanti alunni ed ex alunni che nonostante le varie angherie sono qui e in modo particolarissimo agli undici coraggiosi che, vincendo la paura e la timidezza sono stati ben contenti di prestare la loro voce e la loro sensibilità di interpreti per rendere le letture più vive. Non solo dico grazie a Silvia, Vittoria, alle due Ilaria, a Mirco, a Flavia, a Claudia, a Emanuele, a Tiziano a Andrea e a Marta, ma penso di poter dire anche a nome loro che per noi è importante essere qui. Perché noi a scuola facciamo una fatica innegabile che non è solo quella dell’impegno quotidiano, con i compiti, con le verifiche da preparare, con la noia da vincere, ma soprattutto quella di trovare un senso alla fatica pratica - e al giorno d’oggi non è sempre così scontato trovare un senso nell’acquisizione del patrimonio antico greco e latino.
Per i ragazzi, come per me, è un’occasione di incoraggiamento e di arricchimento quella di poter condividere la nostra attività con una platea che è più ampia e, che in un certo senso, è più ricca di quella della scuola. Come diceva qualcuno “impariamo per la vita e non per la scuola”: per me oggi questa affermazione sembra ancora più sentita. E poi last, but not least un grazie particolare lo voglio dire ovviamente a Cinzia, Paola e Danilo, per tantissimi motivi, soprattutto per uno forse: per lo stupore. Nei primi giorni di settembre del 2004 ho ricevuto un invito a cena dai Sacchi. Varie volte avevo assaggiato la cucina di Paola Sacchi, e siccome è una cucina che vale la pena assaggiare, andai a casa loro. I due signori iniziarono a raccontare che avevano qualche idea. Due anni e pochi mesi fa quindi, niente di tutto quello che poi hanno realizzato, l’associazione, il premio e le tante manifestazioni, esisteva. L’idea che non solo abbiano fatto tutto questo in così poco tempo ma soprattutto che abbiano fatto tutto questo con grande impegno e serietà è un segno del loro carattere ed è un segno probabilmente anche delle doti che Guido da loro ereditò. Io potevo immaginare che la cosa fosse impegnativa, ma vi assicuro che non ti lasciano dormire né la notte né il giorno per preparare tutto nei minimi particolari.
Per tanti motivi io ovviamente ricordo Guido, ma soprattutto una cosa che mi è più cara tra le altre è la dignità con cui viveva qualunque cosa facesse. Qualunque cosa facesse era una occasione di affermazione non egocentrica ma vera della sua personalità e avendo potuto conoscere meglio le persone che più gli stavano vicino, anch’io ho capito meglio da dove tutto questo lo ricavasse e quindi anche per questo un grazie sentito.
Quello che noi cerchiamo di fare qui insieme stasera è, diciamo, un viaggio fra i testi omerici: i viaggi sono suggestivi nella misura in cui sono asistematici quindi io non ce la posso fare, anche per limiti miei, a presentarvi una introduzione complessiva ed onnicomprensiva ad Omero. Passeremo in rassegna alcuni testi, in modo particolare dal VI libro dell’Iliade e poi alcuni passi dall’Odissea e ci limiteremo a cogliere le suggestioni che da questi testi emergono. Sarà un avvio, ci saranno curiosi che desiderano scoprire di più o persone che conoscendo già bene il mondo omerico vedono le cose in altro modo, prendiamola come un’occasione di confronto. Io mi auguro soltanto che voi, che così numerosi siete intervenuti, possiate ascoltare con pazienza ed indulgenza e se usciti da qui vi vedrò sbattere la testa per terra, spero che questo sia non per disperazione ma perché prenderete alla lettera proprio un’espressione che Guido usava spessissimo per le cose che più amava, soprattutto per gli autori, “bello da sbattere la testa per terra”. Allora io mi vorrò illudere che se vi vedrò compiere questo gesto sarà per questo motivo.
Omero: il primo classico
Una breve introduzione per spiegare il senso: questa lettura di stasera si colloca nell’ambito di una serie di incontri che hanno per titolo “Perché leggere i classici”. Questi incontri erano stati introdotti da Guido stesso che aveva riflettuto sul senso di ciò che è un classico. Quando aveva appunto introdotto l’Eneide di Virgilio e aveva considerato il grosso problema dell’accezione ancora antica, medievale, rinascimentale di classico e l’accezione moderna. Fino ad un certo punto si è pensato che i classici fossero tali perché avevano delle qualità proprie, intrinseche, che li rendevano classici. Oggi, nel mondo relativistico e globalizzato in cui viviamo, abbiamo una nozione relativistica di classico: è classico ciò che il pubblico ritiene classico. Per sunteggiare tutto questo Guido aveva usato un’espressione: “Si ha sempre la certezza che quanto si leggono questi libri grandi, si trovano delle conoscenze, si trovano delle cose profonde, non banali che insegnano e fanno crescere. I classici sono sempre libri dopo aver letto i quali si guarda il mondo in modo diverso e ti aprono un pezzettino d’occhio in più”. E quando, facendo il piano quinquennale, da Unione Sovietica quasi, Guido aveva scelto un sottotitolo per ciascuno degli autori da lui selezionati, il sottotitolo per Omero era appunto “il primo classico”.
La mia riflessione di stasera vorrebbe essere anche una riflessione sul senso in base al quale noi diciamo che Omero è un classico, e soprattutto il primo classico. Il senso più evidente è cronologico, cioè fra le opere della letteratura occidentale è, per antichità, la prima. Ma lo è anche per un motivo, scusate la parolaccia, assiologico, cioè per una dignità intrinseca. Molte generazioni hanno letto Omero in un certo modo ed hanno cercato di capire i poemi omerici per capire meglio loro stesse. E questa mi sembra una caratteristica ancora più tipica di ciò che è un classico: un classico è un testo, un capolavoro - noi parliamo di testi perché oggi ci occupiamo di letteratura, Omero è un’opera di letteratura, la cosa non è stata sempre afferrata - che è tale proprio perché sa suscitare delle domande, sa offrire degli stimoli che permettono ai fruitori di capire meglio anche il mondo in cui vivono. Moltissimi hanno addirittura cercato di negare la classicità di Omero ma proprio nel fare questo hanno dimostrato che Omero è in un certo senso un ostacolo, una realtà inaggirabile. Noi cercheremo di illustrare anche questo aspetto.
L’idea è appunto quella di farlo attraverso le suggestioni che ci vengono da un libro dell’Iliade, il VI libro. I giovani che ci aiuteranno daranno voce ai personaggi omerici e noi cercheremo di ascoltarli e di commentare. Iniziamo con Andrea che ci accompagna alla scoperta dei primissimi versi di questo VI libro dell’Iliade: è una scena tipica, una scena di guerra, visto che l’Iliade è un poema di guerra.
L’orrenda mischia: gli Achei sono i Micenei? (VI libro, vv.1-11)
Dunque restò abbandonata l'orrenda mischia di Teucri e d'Achei.
Divampava la lotta di qua e di là per la piana
mentre l'aste di bronzo scagliavano gli uni sugli altri,
fra le correnti di Simòenta e di Xanto.
E Aiace Telamonio per primo, la rocca degli Achei,
spezzò una falange di Teucri, donò luce ai compagni,
colpendo un uomo, ch'era il più valoroso fra i Traci,
il figlio d'Èussoro, Acàmante nobile e grande;
lo colse per primo sopra il cimiero dell'elmo chiomato,
gli piantò l'arma in fronte; e penetrò nell'osso
la punta di bronzo; il buio coperse i suoi occhi.
Questa è una scena tipica, è una scena fra le tante simili che ci sono nei poemi epici e soprattutto nell’Iliade. Cogliamo uno spunto e ci facciamo una domanda: fin dal primo verso del libro quando si parla di questa “orrenda mischia”, sono nominati i Teucri, Troiani e gli Achei che a volte Omero nomina anche come Danai o Argivi - non usa mai il termine Greci, cioè lo usa ma in un significato ben più ristretto. I nemici dei troiani sono gli achei, i danai o gli Argivi, sono tre sinonimi. Chiediamoci insieme ad Omero chi sono costoro. Qui dobbiamo formulare due risposte diverse, nel senso che gli antichi questa domanda già se la ponevano e si rispondevano in un modo un po’ pressappochistico, nel senso che sapevano che i troiani erano gli antichi abitanti di una città non molto distante dallo stretto dei Dardanelli, quello che gli antichi chiamavano Ellesponto, e che gli achei erano i loro antenati cioè i greci antichi.
Achei e troiani si sarebbero scontrati nel corso di una guerra svoltasi nell’età che gli antichi definivano “età eroica”, la stessa età in cui tutti i miti della tradizione greca, cioè la storia delle fatiche di Eracle, la storia della nave Argo, la storia luttuosissima della città di Tebe con tutti i suoi personaggi, Edipo tanto per fare un nome, erano ambientate. Gli antichi sapevano che questa età era remota nel tempo, che si era conclusa in modo violento, a causa del ritorno in Grecia dei discendenti di Eracle e basta.
Noi sappiamo qualcosa di più grazie ad un ragazzino tedesco che non si faceva leggere le favole come Cappuccetto Rosso o Biancaneve, ma l’Iliade e l’Odissea. Mi riferisco a Heinrich Schliemann, questo mercante tedesco che nel 1870, dopo aver accumulato una discreta fortuna, abbandona i propri affari e va in Turchia con una scommessa e cioè che sotto la collinetta di Hissarlik, che si trova appunto non molto distante dai Dardanelli, si trovassero le rovine di Troia. Aveva ragione nel senso che inizia a scavare, porta avanti lo scavo per 20 anni fino al 1890 e trova ben 15 metri di rovine - e in uno scavo archeologico 15 metri sono davvero tanti. Distingue sette livelli, sette diverse fasi cronologiche, e ovviamente gli strati più profondi sono quelli più antichi, gli strati più superficiali sono quelli più recenti. Lo scavo più antico viene da lui datato più o meno al 1500 a.C., lo strato più alto, il settimo, più recente, intorno al 1100 a.C. Schliemann porta avanti lo scavo con grande dedizione, con grande passione, per questo dobbiamo essergli ancora riconoscenti, ma non con grande accuratezza metodologica. Quando nel secondo strato, il penultimo dal basso, trova dei gioielli lui gioca con i gioielli, essendo convinto che quelli siano i gioielli di Priamo, lui fa finta di essere Priamo e la sua seconda moglie, Sofia Engastroménos, una greca che ha conosciuto durante gli scavi e che ha sposato, fa la parte di Ecuba.
Ovviamente reperti archeologici così antichi, trattati in questo modo, si rovinano immediatamente, però è anche il segno della passione che Schliemann impiegava in questa attività. Lo scavo di Troia in realtà viene continuato anche dopo la partenza di Schliemann. Alla fine dell’800 il tedesco Wilhelm Dörpfeld è dell’idea che la Troia di cui parla Omero non sia uno strato antico, il secondo, bensì il sesto, quindi il penultimo dall’alto, perché è uno strato munito di poderose mura che sembrano ricordare appunto le mura di Troia. Quindi se Schliemann pensava ad una Troia omerica databile più o meno al 1500-1400 a.C, Dörpfeld pensa a una Troia più recente di alcuni secoli, cioè del 1250-1200.
Lo scavo viene completato negli anni ’30 del ‘900 da una spedizione inglese, guidata da Carl Blegen il quale aggiorna la datazione ed è dell’idea che la Troia di cui si parla nei poemi omerici sia in realtà quella del VII strato. Arriva a questa conclusione per mille motivi, ma fondamentalmente perché in questo strato si trovano i frammenti di freccia che sembrano identici a quelli rintracciati in Grecia negli scavi archeologici datati allo stesso periodo, più o meno 1200-1100 a.C.: è il segno quindi, secondo lui, che Troia del settimo strato deve essere stata invasa appunto da truppe che venivano dalla Grecia.
Allora quindi se noi ci dovessimo chiedere chi sono i Troiani, sappiamo adesso bene chi siano e soprattutto siamo certi della storicità dell’esistenza di questa città. Perché c’è lo scavo archeologico, perché c’è la memoria poetica dell’Iliade e anche per una terza prova: in Anatolia, cioè nella penisola che oggi noi chiamiamo Turchia, nel secondo millennio ci sono vari popoli, i più famosi sono gli Ittiti. Noi possediamo delle tavolette scritte da questi signori più o meno intorno all’anno 1000 a.C., in una scrittura cuneiforme e siamo stati in grado di decifrare queste tavolette. In queste tavolette si parla di una città chiamata la “scoscesa, ripida Wilusa” attaccata da un popolo denominato popolo degli “Ahhijawa”. Molti hanno accostato il nome Ahhijawa al nome Achei, in greco Achaioi e il nome “scoscesa Wilusa” ad uno degli epiteti che Omero usa nell’Iliade per denominare Troia, cioè la ripida Ilio. Se questa interpretazione è valida abbiamo una terza prova, indipendente sia dallo scavo archeologico, sia dalla tradizione poetica omerica, cioè una prova storiografica appartenente appunto alla storia della Anatolia antica sulla storicità di Troia.
Il problema è invece l’identificazione di questi greci. Erano davvero gli antenati dei greci? In un certo senso sì, perché? Schliemann dopo aver lasciato Troia, intorno al 1870, se ne va nel nord est del Peloponneso, dove ci sono le città di Micene, di Argo, di Tirinto, le cui rovine non erano mai scomparse, contrariamente alle rovine di Troia che erano state sepolte sotto la collinetta di Issarlik. Lo stesso archeologo che aveva lavorato a Troia, Blegen, nel 1939 va nel sud ovest del Peloponneso, nella zona della città di Pilo che secondo Omero è la città da cui viene il più anziano dei greci che avevano combattuto a Troia, cioè Nestore e lì trova delle tavolette di argilla conservate grazie alla cottura nel fuoco. Probabilmente ci fu un incendio che cosse queste tavolette e che quindi le salvò.
Su queste tavolette si trovano degli strani segni, rintracciati dagli archeologi anche nell’isola di Creta. Si tratta di un sistema di scrittura di origine cretese che i popoli che abitavano più o meno fra il 1500 e 1100 la Grecia adottarono per loro stessi. Gli archeologi chiamano questa scrittura “lineare B”: lineare perché è disposta su una linea orizzontale, B per distinguerla da un’altra scrittura che gli archeologi chiamano “lineare A” e che è attestata anch’essa nell’isola di Creta. Queste tavolette sono ritrovate negli anni ’30, nessuno capisce che cosa vogliano dire questi segni e si formulano svariate ipotesi.
Agli inizi degli anni ’50 due signori inglesi, Michael Ventris e John Chadwick, con il pallino dell’archeologia e anche della linguistica, sostanzialmente si mettono a giocare alle parole crociate e crittografate con queste tavolette, come nella Settimana enigmistica; cioè a numero uguale corrisponde lettera uguale. Fanno la stessa cosa, partendo da due ipotesi che potessero dare un senso a questa scrittura. La prima ipotesi che passa è una scrittura sillabica - ogni segno corrisponde non ad ogni suono, ma ogni segno rappresenta più o meno una sillaba in genere o una vocale o una consonante seguita da una vocale. La seconda scommessa di Ventris e Chadwick, questi signori inglesi, era che questa in realtà era una antica scrittura per fissare la lingua greca. Ora tutti dobbiamo essere consapevoli del fatto che non c’è un legame biunivoco fra scrittura e lingua. Prendiamo il caso del turco: il turco è una lingua che più o meno fino agli inizi del ‘900 era scritta con l’alfabeto arabo, oggi il turco è scritto con l’alfabeto latino, fortemente voluto soprattutto dall’occidentalizzazione portata da Atatürk, ma la lingua non è cambiata, è cambiato semplicemente il sistema di scrittura.
Ecco, nel mondo greco deve essere successa la stessa cosa: i greci, i primi che arrivarono nel sud della penisola balcanica, portando la loro cultura e la loro lingua, di cui il greco moderno è l’ultimo risultato, adottarono fra il 1500 e il 1100 questo sistema di scrittura - e più o meno a partire dall’800 a.C. in poi quel sistema di scrittura che gli studenti di liceo classico apprendono fin dai primi giorni del IV ginnasio e che in Grecia si usa tuttora. Quale sistema di scrittura fosse usato fra il 1100 e l’800 a.C. non lo sappiamo perché non sono stati rinvenuti materiali con le iscrizioni, si pensa che probabilmente sia scomparso in questo lungo lasso di tempo l’uso di scrivere. Chi sono quindi questi Greci, di cui parla Omero? Sono evidentemente questo popolo che usava questa scrittura e che ha occupato la Grecia centro-meridionale. Oggi gli scavi archeologici dimostrano l’estensione del loro insediamento non solo nel Peloponneso. Questa cultura noi la chiamiamo “cultura micenea”, perché il centro di Micene è il centro più prestigioso - non era una vera capitale ma senz’altro uno dei centri più prestigiosi.
E gli antichi? Cioè Omero, colui che più o meno intorno all’800 ha dato la forma alle leggende sulla guerra di Troia, che consapevolezza aveva di tutto questo percorso storico?Una consapevolezza c’è, perché per esempio Omero sa benissimo che al suo tempo, più o meno nell’800 a.C. le armi si facevano col ferro e sa che invece nei secoli a lui precedenti le armi si facevano non col ferro, che non era stato ancora introdotto in Grecia, ma col bronzo e quando ci parla delle armi degli eroi descrive armi in bronzo. Quando però, come per esempio nel XVIII libro dell’Iliade descrive la tecnica di produzione delle armi, descrive una tecnica di produzione adatta all’uso del ferro e non all’uso del bronzo. Oppure al tempo di Omero, quindi più o meno nell’800 a.C., i morti venivano cremati: quando Omero parla dei tanti morti dell’Iliade dice che vengono bruciati. Però gli scavi archeologici ci hanno dimostrato che esistevano pochissime tombe con urne cinerarie e la stragrande maggioranza delle tombe del periodo fra il 1500 e il 1100, cioè dell’età micenea, sono tombe per seppellimento, cioè per inumazione, sotto terra. Quindi è evidente che ci sono degli errori storici, degli anacronismi, così tecnicamente verificati.
Se io sono uno storico queste cose mi interessano moltissimo perché ricostruisco tutto. Se io sono interessato al testo queste cose le considero, le tengo in conto per capire che cosa sto leggendo, ma non posso concentrarmi solo su questo. Parte della critica ha dato grande valore a queste riflessioni, ma stasera le accenniamo solo come introduzione.
Agamennone, Menelao e Adrasto: i poemi omerici servivano a trasmettere modelli di comportamento? (VI libro, vv. 45-65)
Andiamo ora alla scoperta di una seconda scena - siamo ancora nella parte iniziale del VI libro. Continua la guerra, dopo però un’inquadratura generale della battaglia campale, qui c’è uno scontro ravvicinato con grandi nomi: abbiamo Menelao, il marito abbandonato di Elena, il fratello Agamennone che è il capo della spedizione achea e un troiano, Adrasto. Menelao ha catturato Adrasto, vorrebbe ucciderlo, Adrasto supplica di aver salva la vita in cambio di ricchi doni. Menelao starebbe per cedere ma proprio in quel momento arriva Agamennone e per Adrasto la cosa non è molto conveniente:
Adrasto si mise a pregarlo stringendogli le ginocchia:
«Prendimi vivo, figlio d’Atreo, e accetta giusto riscatto!
Molti beni son nella casa del padre mio ricco,
e bronzo e oro e faticosissimo ferro;
riscatto infinito te ne offrirebbe il padre,
se mi sapesse vivo sopra le navi achee».
Disse così: e già nel petto gli persuadeva il cuore,
e già stava per darlo - perché alle navi veloci
degli Achei lo menasse - al suo scudiero: ma Agamennone
gli venne incontro correndo, disse forte parole:
«O sciocco, o Menelao, perché ti affanni così
per costoro? forse perché belle cose han fatto nella tua casa
i Troiani? ah nessuno ne sfugga alla rovina e alla morte,
fuor dalle nostre mani, neppure chi porti la madre
nel ventre, se è maschio, neanche questo ci sfugga, ma tutti
spariscano insieme con Ilio, senza compianto né fama ».
Dicendo così convinse il cuor del fratello l’eroe,
ché dava saggio consiglio; lungi da sé Menelao con la mano
l’eroe Adrasto respinse; e il potente Agamennone
lo ferì nel fianco; quello cadde riverso, l'Atride
montò col piede sul petto, ne trasse l'asta di faggio.
Questa è una scena di guerra spietatissima, cioè proprio un assassinio a sangue freddo. Io vorrei ricordare come questa e scene simili sono state lette soprattutto nel ‘900 – ne parlo per vedere insieme come ogni età legge in modo differente i classici, riscontra da essi le cose che più ritiene rilevanti. Mi riferisco soprattutto a due saggi emersi in area anglosassone. Mi riferisco soprattutto alla produzione di due autori inglesi – l’area anglosassone però ha delle singolarità rispetto alla cultura europea - e il primo saggio su cui mi vorrei soffermare è stato pubblicato nel 1951 e ha come titolo “The Greeks and the irrational” tradotto in italiano alla lettera “I greci e l’irrazionale” ed è di un grande cattedratico britannico che si chiamava Eric R.Dodds e che insegnava non solo ad Oxford, che è una delle più antiche e prestigiose accademie britanniche, ma era addirittura “regius professor”, cioè era professore di nomina di sua maestà, cioè era assolutamente una autorità.
Come spesso dico agli studenti, in quegli anni in Italia, quando si faceva l’esame di maturità, così si chiamava, non è che ci si accontentava di un po’ di latino e un po’ di greco, ma c’era il tema d’italiano, la versione dal latino all’italiano, la versione dall’italiano al latino, la versione dal greco all’italiano. Quella dal greco al latino non la facevamo ancora, infatti non tutti sapevano proprio tutto, però insomma bisognava studiare tanto. Questa grande fatica che nella scuola italiana e nella scuola di altre nazioni europee ancora è incoraggiata, aveva dietro la convinzione che il mondo classico fosse appunto il mondo di riferimento. Bene Dodds cerca di decostruire, di distruggere questa convinzione, però lo fa lui che è “regius professor” di letteratura greca ad Oxford, cioè non uno che insegna letteratura per contemporanei, lo fa anche in nome di alcuni interessi che confessava poco, ma che corre voce che avesse. Cioè mentre appunto il giorno entrava ad Oxford come regius professor, spesso la sera si dedicava alle sedute spiritiche. Allora questo lo raccontiamo come aneddoto per alleggerire, ma è evidente che c’è nella formazione culturale e nell’interesse di questo studioso, un’attenzione agli aspetti irrazionali.
Sostanzialmente l’obiettivo ideologico, uso il termine non in senso negativo, di Dodds è quello di dimostrare che i Greci, i padri della razionalità, della filosofia, di tante forme di arte sono uomini come gli uomini di tutte le età e di tutte le aree del mondo. Questa cosa per noi è straovvia oggi, anzi noi dovremmo recuperare un po’ di sana venerazione per questa cultura che ci siamo quasi dimenticati ma nel 1951 invece aveva un grande senso questa polemica perché il condizionamento del modello classico, inteso proprio in senso classicistico, era molto forte. E allora per esempio trattando di Omero proprio nel I capitolo dell’opera, Dodds dimostra che Omero rappresenta i moti dell’animo umano, non come moti dell’animo umano ma come forma di pressione demoniaca: la rabbia non è un moto dell’animo, nella poesia di Omero è quasi un demone che invade l’anima. Quindi una visione analoga a quella di tante civiltà che noi chiamavamo primitive. Ma, per esempio, Dodds sottolinea in modo accurato il fatto che gli uomini di cui parla Omero sono uomini che non hanno paura del senso di colpa. In molte istituzioni quando un eroe corre il rischio di sbagliare non ha tanto paura di provare colpa rispetto alla propria coscienza, ha piuttosto paura di provare vergogna di fronte all’opinione degli altri. Per spiegare meglio questo Dodds usa due concetti della sociologia di quei tempi: schemi della civiltà della colpa e schemi della civiltà della vergogna e per illustrare cita un saggio di una antropologa americana Ruth Benedict che aveva studiato questi schemi di civiltà nelle culture del Pacifico, per esempio in Giappone. L’idea di Dodds è che per capire meglio i greci, noi dobbiamo confrontare i greci con i popoli del Pacifico, cioè dobbiamo riconoscere che fra i greci e i popoli del Pacifico non c’è una grande differenza, anzi non ce n’è nessuna. E questa è una grossa provocazione.
Più o meno nello stesso clima culturale, nel 1963 un altro studioso anglosassone, E.A.Havelock, pubblica un saggio davvero geniale che però spesso è stato letto più col condizionamento del contesto ideologico del momento che con una precisione filologica. Il saggio di Havelock del 1963 in inglese si intitola “Preface to Plato”, Una prefazione a Platone (tradotto in italiano con il titolo Cultura orale e civiltà della scrittura). Il saggio è un’opera su come Platone giudica la poesia omerica, o meglio ancora un’opera in cui Havelock cerca di capire perché Platone nella Repubblica condanna la poesia omerica, dice che i filosofi che per lui devono andare al potere, è bene che non siano educati all’apprendimento dei poemi omerici. Platone è contro i poemi omerici, un po’ perché i poemi omerici dicono cose sconvenienti anche rispetto alle divinità - per esempio nel XIV libro dell’Iliade si parla dell’amore tra Zeus ed Era, di come Era attira Zeus con l’inganno e ancora di più in un brano spassosissimo dell’VIII dell’Odissea, l’aedo dell’isola dei Feaci canta dell’amore adulterino fra Afrodite ed Ares e dice tra le tante cose che quando si diffonde la notizia le dee restano a casa perché sono vergognose ma gli dei si precipitano perché vogliono cogliere l’occasione di vedere Afrodite nuda, cosa che ad Ares era riuscita e a loro fino a quel momento no.
Allora senz’altro una tradizione antica e un certo moralismo condannano certe attenuazioni di Omero, ma Havelock capisce che la condanna di Platone della poesia omerica, o almeno la parziale condanna, è dovuta al fatto che la fruizione dei poemi omerici presuppone una immedesimazione passionale. Siccome i poemi omerici erano soprattutto recitati e ascoltati, era assai verosimile, che per seguire i poemi omerici ci si dovesse immedesimare nei personaggi e non ragionare lucidamente su quello che succedeva. Lui come filosofo con ambizioni razionalistiche preferiva il ragionamento razionale e quindi condanna un poema che invita invece alla visione passionale.
Questa è la tesi fondamentale. Poi c’è un altro elemento: Havelock dice che Omero parla di tante cose anche di tante cose pratiche, di come si preparano le navi, di come si combatte, di come si fanno le assemblee, per rappresentare, per dare un esempio illustre di tutte le realtà della società e arriva a dire - questa è una provocazione dello stesso tipo di quella di Dodds - che i poemi omerici sono una enciclopedia di tutto l’esistente tribale. Cioè funzionano come quei racconti tradizionali dei popoli delle tribù primitive che parlano di tutto per tramandare oralmente le informazioni. Il problema è che molti hanno esagerato questa lettura e sono sostanzialmente arrivati a dire che siccome al tempo di Omero non esistevano i manuali per l’uso della lavatrice e della stampante del computer, non esistevano nemmeno i manuali d’uso dei telai o delle navi, queste istruzioni venivano veicolate attraverso un racconto e attraverso la forma poetica perché restassero in mente alla gente.
Ora questa lettura è senz’altro suggestiva ed ha un profondo senso in un momento storico come quello degli anni ’60 in cui bisogna togliere i classici dal piedistallo della classicità, però corre il rischio di non farci vedere la natura letteraria dell’opera e non pratica. Ecco io ora stasera vorrei sottolineare soprattutto la natura letteraria dell’opera: non sto negando che l’ipotesi non sia seducente, però esagero un po’ il gioco per confutarla.
Glauco e Diomede: Omero amava i primi piani? (VI libro, vv. 144 -151; 212-226)
Scopriamo ora il terzo assaggio testuale dal VI libro dell’Iliade. Anche qui abbiamo uno scontro: abbiamo un altro greco, un acheo, Diomede, tremendo, che nel V libro ha avuto addirittura l’ardire di affrontare il dio della guerra, Ares, e un alleato dei troiani, un uomo della Licia che si chiama Glauco. I due si trovano uno di fronte all’altro, dovrebbero combattersi, ma curiosi come sono vogliono sapere chi sono. Diomede chiede a Glauco appunto chi sia, Glauco risponde con una considerazione che ascolteremo e poi gli racconta tutta la storia della famiglia (che noi ora omettiamo), leggiamo invece direttamente la risposta e la reazione di Diomede perché c’è una sorta di “carramba che sorpresa” e questo va detto anche se non vi togliamo la sorpresa:
E parlò pure il figlio luminoso di Ippòloco:
«Tidide magnanimo, perché mi domandi la stirpe?
Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini;
le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva
fiorente le nutre al tempo di primavera;
così le stirpi degli uomini: nasce una, l'altra dilegua.
Se anche questo però vuoi sapere, per conoscerla bene
la stirpe mia, molti la sanno fra gli uomini.»
(…)
Disse così, gioì Diomede potente nel grido,
piantò la lancia dentro la terra nutrice di molti,
e parlò con parole di miele al pastore d'eserciti:
«Ma dunque tu sei ospite ereditario e antico per me!
Oineo glorioso, una volta, Bellerofonte senza macchia
ospitò nel palazzo, lo tenne con sé venti giorni;
essi si fecero splendidi doni ospitali:
Oineo gli diede una fascia splendente di porpora,
Bellerofonte una coppa d'oro a due manici,
che io partendo nella mia casa ho lasciato.
Non rammento Tideo, perché tuttora in fasce
m'abbandonò, quando perì a Tebe l'esercito acheo.
Ed ecco, che un ospite grato ora per te, laggiù nell'Argolide
io sono, e tu nella Licia, quand'io giungessi a quel popolo;
dunque evitiamo l'asta l'un dell'altro anche in battaglia, (…)
Facciamo alcune considerazioni sullo stile di Omero: ovviamente i poemi sono in greco, in versi esametri, noi li dobbiamo leggere in una traduzione in prosa, in italiano, ma insomma cerchiamo di fantasticare. Mi vorrei concentrare su tre rapide affermazioni. Primo: l’inconfondibilmente greco gusto per la parola. I greci erano dei tremendi chiacchieroni, per questo motivo mi sono molto simpatici, lo capiamo da tante cose. Dicevo oggi in classe che le cicale, che ad alcuni di noi possono dare molto fastidio, per gli antichi erano animali sacri, protetti dalle muse, anzi addirittura erano degli antichi poeti trasformati per pietà dalle Muse in cicale. Addirittura ad Atene i fermagli per capelli avevano la forma delle cicale, proprio perché erano animali molto apprezzati proprio per il loro chiacchiericcio che a volte può dare anche noia. Bene, Omero era un chiacchierone, perché non solo parla tanto ma fa parlare moltissimo i suoi eroi, cioè almeno nell 50% del testo omerico non è in terza persona il racconto, ma è un discorso diretto dei vari eroi che parlano per una lunghezza inverosimile. E’ assai poco plausibile che un eroe che si trova su un campo di battaglia pronunci settanta-ottanta versi. Ecco questo fa parte della funzione del poema.
Sostanzialmente possiamo dire che uno dei generi letterari, una delle tante invenzioni greche, quella dell’arte pubblica della parola, dell’oratoria, storicamente si diffonde a partire dal V secolo, ma di fatto è attestata fin dalla prima opera letteraria greca: il primo libro dell’Iliade e dell’Odissea iniziano con un’assemblea in cui prendono la parola Agamennone, Calcante, Achille e tutti quanti gli altri e parlano pronunciando articolati discorsi con una evidente sapienza oratoria. Quindi è assolutamente inconfondibile il gusto per la parola.
Secondo elemento tipico di Omero è il gusto per il primo piano. Ora forse già ve ne siete accorti quando nel primo brano che abbiamo letto, quello dell’“orrenda mischia”, Omero non si limita a dire c’è una tremenda battaglia e muore tanta gente, no, ma tutti quelli che intervengono li nomina uno ad uno, anche quelli che non sono eroi celeberrimi. Se combatte Agamennone io lo dico, ma Acamante ed altri li ho cercati sull’indice, sono eroi che compaiono nel poema due/tre/cinque volte. Dicevo stamattina scherzando al Labriola che è come quando ai bambini si raccontano le favole e si infittiscono di dettagli: nel panierino di Cappuccetto Rosso non ci si limita a dire che c’è la colazione per la nonna, ma si fa l’elenco, ci sono le fragole di bosco, magari l’ovetto Kinder. Omero usa sostanzialmente la stessa strategia: infittire di dettagli il suo racconto per aiutare la visualizzazione. In questo brano i versi che abbiamo saltato, sono un dettagliatissimo resoconto di tutto l’albero genealogico di Glauco e in particolare la storia di questo suo antenato Bellerofonte che fu ospitato dal nonno di Tideo e, proprio per questo motivo, fargli conoscere che sono legati dal vincolo dell’ospitalità.
Un geniale studioso di letterature, E.Auerbach, nel suo saggio “Mimesis” sulla storia del realismo in occidente, parte appunto dalla considerazione dello stile di Omero e considera il passo famoso dell’Odissea in cui Penelope parla con Odisseo, non lo riconosce, chiede all’anziana serva Euriclea di lavare i piedi al loro ospite. Appena Euriclea afferra la gamba di Odisseo per lavare i piedi scopre su questa gamba la cicatrice che è inconfondibilmente del suo padrone. Odisseo la afferra per la gola e le impedisce di rivelare l’identità, ma tra i versi in cui Omero descrive l’avvicinamento di Euriclea ad Odisseo e i versi in cui descrive questo tentativo di soffocamento di Euriclea da parte di Odisseo che le impone il silenzio, ci sono sessanta versi almeno, forse anche qualcosa di più, in cui c’è tutta la storia della cicatrice: come si è procurato la ferita, durante una caccia al cinghiale con il nonno materno alla quale aveva partecipato da ragazzino, e come è stata curata. Omero non sa lasciare niente in scorcio secondario, tutto è in primissimo piano. Questo ovviamente comporta delle lunghe digressioni, a volte anche la perdita del filo del discorso, però è anche il grande fascino, il poeta ci fa sognare ad occhi aperti e ci fa vedere tutto sotto i riflettori.
Ecco, quindi, amore incondizionato per la parola, amore per i primi piani e un’ultima provocazione: l’Iliade è un poema epico. Il termine “epico” nel mondo antico ha un valore tecnico, cioè un poema scritto in versi epici. Per lui però è un termine soprattutto che intende eroico, cioè uno stile, un racconto in versi attento al coraggio, all’ardire, alla virilità esibita. Avete sentito nel brano letto poco fa con quale risposta Glauco si rivolge a Diomede per spiegare quale sia la sua famiglia: “come stirpi di foglie così le stirpi degli uomini: le foglie alcune le getta il vento a terra altre la selva fiorente le nutre al tempo di primavera”. Ecco queste sono considerazioni non propriamente eroiche, sono considerazioni sulla precarietà dei beni umani.
Un poeta greco, Mimnermo, 200 anni dopo l’età di formazione del testo dell’Iliade, scrive una elegia che inizia così:
Come le foglie che fa germogliare la stagione di primavera
ricca di fiori, appena cominciano a crescere ai raggi del sole,
noi, simili ad esse, per un tempo brevissimo godiamo
i fiori della giovinezza, né il bene né il male conoscendo
dagli dèi. Oscure sono già vicine le Kere,
l'una avendo il termine della penosa vecchiaia,
l'altra della morte. Breve vita ha il frutto
della giovinezza, come la luce del sole che si irradia sulla terra.
Dove le Kere sono le dee della morte.
Ora questa è un’elegia, altro termine tecnico che indicava un tipo di poesia accompagnata dal suono del flauto, composta da strofe di due versi, molto diversa dalla poesia epica. La poesia elegiaca è sostanzialmente la poesia della riflessione, del pianto, della meditazione, è per esempio la poesia nell’ambito della quale nasce la poesia d’amore. Occupa più posto rispetto alla poesia epica, però vedete che nell’epos omerico ci sono degli spunti intimistici, tanto è vero che un poeta che è elegiaco, cioè un poeta di un genere nettamente distinto da quello epico, richiama evidentemente un passo dell’epica omerica per portare avanti il suo discorso.
Allora voi sapete che nella letteratura italiana si dice che Dante ha raggiunto i massimi vertici e che dopo di lui non c’è niente. Ora probabilmente noi di Omero possiamo dire la stessa cosa: è evidente che in Omero abbia una grande centralità il tema della battaglia, ma esiste in modo evidente un’attenzione per alcune realtà che poi la poesia e le generazioni successive nella cultura greca ma anche in altre culture hanno sfruttato. Dobbiamo stare attenti anche a queste realtà e il VI libro è un esempio particolare.
Ettore e Ecuba: perché Omero ripete spesso alcune espressioni fisse? (libro VI, vv. 263-285)
Continuiamo con la nostra lettura che ci accompagna dentro Troia perché con una trovata da vero regista Omero abbandona il campo di battaglia e ci fa entrare nella città dei nemici. Lo aveva già fatto un po’ nel III libro, ci aveva fatto stare sulle mura di Troia, ma qui nel VI libro Ettore torna a Troia. La cosa è piuttosto plausibile perché la battaglia impazza e lui che è il capo dell’esercito non poteva assentarsi, ma fa parte della finzione letteraria anche questo e torna a Troia, incontra le donne che vogliono sapere informazioni sui loro mariti, fidanzati e figli e soprattutto incontra la madre e chiede alla madre di fare un sacrificio propiziatorio alla dea.
E le rispose il grande Ettore elmo abbagliante:
«No, non offrirmi il dolce vino, nobile madre,
ché non mi privi il corpo di forza, e il vigore io dimentichi;
e poi vivido vino libare a Zeus con mani impure
non oso; non è permesso, al Cronide nube nera
rivolgere preci sporco di fango e di sangue!
Ma tu al tempio d’Atena Predatrice
sali con offerte, e prima riunisci le Anziane;
e il peplo più splendido e grande
ch’hai nella stanza, e che ti è appunto il più caro;
ponilo sulle ginocchia d’Atena chioma bella
e prometti che dodici vacche nel tempio,
d'un anno, non dome, immolerai, se avrà compassione
della città, delle spose dei Teucri, dei figli balbettanti,
se allontanerà il figlio di Tideo da Ilio sacra,
il combattente selvaggio, il duro maestro di rotta.
Su, dunque, al tempio d’Atena Predatrice,
tu sali, e io cercherò Paride per chiamarlo
se vuol sentirmi parlare; oh se qui stesso
la terra s’aprisse per lui! gran danno lo crebbe l'Olimpio
per i Troiani e per Priamo magnanimo e i suoi figli:
e se dovessi vederlo scendere all’Ade,
dico che triste gemito si scorderebbe il cuore».
Anche a proposito di questo brano cerchiamo di riflettere insieme sullo stile: non è immediatamente evidente quello che voglio cercare di dire, ma vi guido io. Se noi avessimo letto un brano nello stesso libro, il paragrafo precedente, quello che inizia più o meno intorno al verso 80, qui siamo intorno al verso 260 o se leggessimo il brano che segue immediatamente questo, troveremmo sostanzialmente le stesse parole. Cioè questa scena è raccontata in questo libro tre volte: la prima volta siamo ancora nella piana di fronte a Troia e c’è Eleno, fratello di Ettore, indovino che suggerisce ad Ettore di tornare nella città e di chiedere alla madre di svolgere un sacrificio propiziatorio. La seconda volta che la stessa scena compare è quella che abbiamo appena ascoltato, nell’incontro effettivo fra Ettore e la madre Ecuba. Immediatamente dopo questo passo c’è la descrizione in terza persona del rito sacrificale e Omero per una terza volta, usando sostanzialmente le stesse espressioni, racconta questo rito - questa volta lo svolge Ecuba, non è una previsione, è nei fatti.
Le ripetizioni sono una cifra distintiva nei poemi omerici. Ci sono ripetizioni di almeno due ordini: ci sono innanzitutto ripetizioni tematiche, cioè scene ricorrenti, non solo ricorrenti spesso, ma ricorrenti sempre con lo stesso ordine interno. Le ha studiate uno studioso tedesco che si chiamava W.Arend, e le ha chiamate le scene “tipiche”: per esempio tutte le volte che Omero descrive come un soldato indossa le armi lo fa praticamente non solo sempre con le stesse parole, ma, parlando di una procedura di vestizione, lo farà seguendo sempre lo stesso ordine: si inizia con un’arma, si finisce con un’altra e non cambia mai.
Oltre alle ripetizioni tematiche ci sono le ripetizioni espressive. Come questa, ci sono interi brani ripetuti: non è l’unico caso, c’è un altro caso di triplice ripetizione nel II libro dell’Iliade, è un sogno che viene raccontato tre volte. Ma ci sono a volte singoli versi ripetuti per intero o parti di versi - prima abbiamo letto appunto “rivolse parole dolci come il miele”. Ci sono gli epiteti ricorrenti “Achille piè veloce”, ma lo stesso Omero dice che Achille piè veloce sta seduto. Ora non è molto calzante dire che Achille piè veloce stia seduto. A che servono queste ripetizioni, hanno un senso stilistico, hanno anche un senso pratico, sono solo dei difetti? Ecco le varie età dei fruitori di Omero hanno risposto in modo differente. Per arrivare alla risposta più recente dobbiamo considerare un altro problema e chiederci come noi possediamo il testo di Omero.
Nel 1488 in Italia si diffonde la stampa, arrivano tanti dotti bizantini da Costantinopoli che ormai è stata presa dai turchi ottomani e portano i loro libri e la loro cultura. Questi libri vengono stampati, la prima edizione a stampa dell’Iliade è del 1488. Prima della diffusione della stampa c’erano i manoscritti, c’è un manoscritto originario della Biblioteca Marciana di Venezia, ora in realtà è smembrato fra Roma e Madrid, che risale al IX secolo dopo Cristo, siamo intorno all’800-850 d. C., il che vuol dire che siamo 1600-1500 anni dopo la fase di formazione del poema. In questi 1500 anni ci sono arrivati solo l’Iliade e l’Odissea, ma sappiamo che esistevano molti altri poemi e di questi abbiamo pochissimi versi, di altri abbiamo solo dei riassunti, di altri non abbiamo assolutamente niente. Schematizzando, più o meno a partire dal 200 d.C. fino alla diffusione della stampa si sono usati i codici di pergamena e qui l’Iliade veniva copiata su questi codici di pergamena, di alcuni di questi abbiamo qualche frammento, ma nessuno che ci tramandi l’intera Iliade su codici di pergamena.
Più o meno fra il 500 a.C. e il 200 d. C., vado a ritroso, si usava il rotolo di papiro e l’Iliade e l’Odissea erano scritti su rotoli di papiro. C’è un inconveniente: il codice di pergamena, era la forma del nostro libro, contiene più testo del rotolo di papiro. Per fissare per iscritto l’intera Iliade non basta un rotolo di papiro, ce ne vogliono parecchi. Non a caso il testo dell’Iliade è stato suddiviso in 24 grossi capitoli che noi chiamiamo libri, perché più o meno ciascuno di essi occupava un rotolo di papiro, ecco perché noi diciamo VI libro anche se oggi il VI libro sta dentro un unico libro oggetto. Ma se accettiamo l’idea che questi poemi si siano formati più o meno intorno all’800 a.C. ci dobbiamo chiedere come sono stati tramandati tra l’800 a.C., data della loro approssimativa formazione e il 550-500 a.C., quando sappiamo con certezza che questi poemi sono scritti su papiro. Non abbiamo questi papiri, ma, dalle fonti storiche, sappiamo che queste trascrizioni furono fatte, per esempio, ad Atene per ordine del tiranno Lisistrato.
Ebbene l’idea da alcuni sposata senza se e senza ma, da altri sposata con qualche perplessità, è che la diffusione sia stata prevalentemente orale. Questo non sorprende i grecisti perché noi sappiamo che proprio più o meno fra l’800 e il 500 a.C., la letteratura, anche quella che veniva scritta, veniva fruita oralmente. Cioè le tragedie nessuno se le leggeva, nessuno andava ad Atene a prendersi il testo dell’Orestea, si andava a teatro quando c’era. L’Iliade e l’Odissea nessuno se le leggeva nel chiuso della propria cameretta, durante le feste c’erano dei fini dicitori che in genere chiamiamo “rapsodi”, che in greco vuol dire “cucitori di canti”, che recitavano non per intero l’Iliade e l’Odissea, perché per leggerle ci vuole quasi un’intera giornata, ma porzioni, porzioni che potevano durare più o meno un’ora. Ora in genere ogni libro dell’Odissea per leggerlo ad alta voce, scandendolo ed interpretandolo richiede un’ora. Possiamo formulare questa ipotesi: che quando il testo dell’Iliade e dell’Odissea viene fissato per iscritto e suddiviso in porzioni, distribuite fra i vari rotoli di papiro, fra i vari libri, ogni porzione corrisponda all’unità di recitazione, cioè al brano che un rapsodo era in grado di recitare - ora noi la chiamiamo rapsodia.
Questo spiega perché i vari libri dell’Iliade e dell’Odissea hanno una loro coerenza. Hanno un inizio, uno sviluppo e una fine, con una coerenza strutturale, non sono semplici demarcazioni grafiche del testo. Questo ci serve per arrivare alla conclusione del nostro discorso. Ma, visto che con questa conclusione dobbiamo misurarci, proseguiamo in questo itinerario dentro Troia, perché Ettore dopo aver incontrato le donne e la madre si reca a casa del fratello Paride, quello per cui stanno combattendo, lì esorta il fratello a tornare a guerreggiare e soprattutto incontra la pseudo-cognata, Elena. Elena ha per sé delle parole pesanti perché si riconosce responsabile dei lutti degli achei e dei troiani
Ettore ed Elena: Omero sapeva… che sarebbe diventato “Omero”? (VI libro, vv. 343-358)
Ma Elena gli si volse con parole di miele:
«Cognato mio, d’una cagna maligna, agghiacciante,
ah m'avesse quel giorno, quando la madre mi fece,
afferrato e travolto un turbine orrendo di vento,
sopra un monte o tra il flutto del fragoroso mare;
e il flutto m'avesse spazzato, prima che queste cose accadessero...
Ma dopo che gli dèi fissaron così questi mali,
avrei voluto essere almeno sposa d'un uomo più forte,
che fosse sensibile alla vendetta, ai molti affronti degli uomini.
Costui non ha ora cuor saldo e neanche lo avrà
certo mai; e temo che ne mieterà il frutto.
Ma tu vieni qui ora, siediti in questo seggio,
cognato, ché molti travagli intorno al cuore ti vennero
per colpa mia, della cagna, e per la follia d’Alessandro,
ai quali diede Zeus la mala sorte. E anche in futuro
noi saremo cantati fra gli uomini che verranno...»
Qui ci sono tanti spunti: se io avessi un interesse diciamo più storico, culturale antropologico per esempio potrei soffermarmi sull’epiteto che Elena usa per sé, cioè quello di “cagna”. C’è chi lo ha fatto, c’è chi persino, proprio per assimilare sempre più i greci alle altre culture, anche primitive, ha cercato di dire, e l’ipotesi può essere seducente, che anche i greci conoscevano una forma di totemismo, cioè una forma di venerazione degli animali associati a singole divinità, il bue associato ad Era, la cagna in questo caso associata ad Elena, la civetta ad Atena, e via dicendo. Io invece propendo per una lettura più letteraria e vorrei farvi notare, sottolineare con voi un giochino che fa Omero: Omero non solo ci fa entrare dentro Troia, non solo ci fa vedere Elena, e senz’altro siamo curiosi, ma fa predire ad Elena l’esistenza dell’Iliade, quando Elena dice ad Ettore siamo proprio sciagurati, ma ci consoliamo perché in futuro noi saremo cantati fra gli uomini che verranno.
Il testo greco usa non un participio ma un aggettivo che vuol dire cantati, oggetto di canto, aggettivo che ha la stessa radice del verbo che in greco vuol dire cantare e del sostantivo che indica il canto, nonché del sostantivo che indica cantore, quello che noi chiamiamo aedo. Non è l’unico passo in cui Omero gioca con espedienti simili perché per esempio lui spesso parla degli aedi. Lo fa soprattutto nell’Odissea, non solo nel primo libro dell’Odissea c’è il canto dell’aedo Femio della corte di Itaca, nell’VIII libro c’è il canto di Demòdoco che è l’aedo dell’isola dei feaci, della corte di Alcinoo. I tecnici chiamano questi giochi “giochi metaletterari”, cioè giochi in cui all’interno di un’opera letteraria si parla dell’attività letteraria stessa. E’ come un gioco di specchi, un gioco di scatole ad incastro, capite che questo verso è un verso che dimostra un poeta scaltrito, cioè un poeta che non è un ingenuo, uno che fa una cosa che sostanzialmente sta inventando lui, la poesia, perché noi non abbiamo attestazioni precedenti, ma è uno che seppure inventa, inventa in modo sopraffino, in modo sornione, è furbo.
Se molte età hanno individuato un carattere naïf nella poesia epica, questo carattere primitivo è stato per esempio condannato dai classicisti francesi del ‘600, ma è stato apprezzatissimo dai romantici e dai pre-romantici. Però, seppure vogliamo riconoscere questo carattere primitivo, non possiamo negare una patente di letterarietà: cioè questa è letteratura, un gioco con delle regole tanto quanto un’opera del ‘900 con delle immancabili, inevitabili differenze ma la sostanza è la stessa.
Ettore ed Andromaca: l’Iliade è un poema di guerra? (VI libro, vv. 429-439; 447-474)
Dopo aver incontrato Paride ed Elena, Ettore sente l’esigenza di vedere i suoi, e va a cercare la moglie Andromaca e il figlio Scamandrio che però tutti chiamano Astianatte perché è il figlio del signore della città che in greco è appunto Astyanax. E’ una scena celeberrima:
«Ettore, tu sei per me padre e nobile madre
e fratello, tu sei il mio sposo fiorente;
ah, dunque, abbi pietà, rimani qui sulla torre,
non fare orfano il figlio, vedova la sposa,
ferma l'esercito presso il caprifico, là dove è molto
facile assalir la città, più accessibile il muro;
per tre volte venendo in questo luogo l'hanno tentato i migliori
compagni dei due Aiaci, di Idomeneo famoso,
compagni degli Atridi, del forte figlio di Tideo:
o l’abbia detto loro chi ben conosce i responsi,
oppure ve li spinga l'animo stesso e li guidi!»
(…)
«Io lo so bene questo dentro l'anima e il cuore:
giorno verrà che Ilio sacra perisca,
e Priamo, e la gente di Priamo buona lancia:
ma non tanto dolore io ne avrò per i Teucri,
non per la stessa Ecuba, non per il sire Priamo,
e non per i fratelli, che molti e gagliardi
cadranno nella polvere per mano dei nemici,
quanto per te, che qualche acheo chitone di bronzo,
trascinerà via piangente, libero giorno togliendoti:
allora, vivendo in Argo, dovrai per altra tessere tela,
e portar acqua di Messeide o Iperea,
costretta a tutto: grave destino sarà su di te.
E dirà qualcuno che ti vedrà lacrimosa:
“Ecco la sposa d'Ettore, ch'era il più forte a combattere
fra i Troiani domatori di cavalli, quando lottavan per Ilio!”
Così dirà allora qualcuno; sarà strazio nuovo per te,
priva dell'uomo che schiavo giorno avrebbe potuto tenerti lontano.
Morto, però, m'imprigioni la terra su me riversata,
prima ch’io le tue grida, il tuo rapimento conosca!»
E dicendo così, tese al figlio le braccia Ettore illustre:
ma indietro il bambino, sul petto della balia bella cintura
si piegò con un grido, atterrito all'aspetto del padre,
spaventato dal bronzo e dal cimiero chiomato,
che vedeva ondeggiare terribile in cima all’elmo.
Sorrise il caro padre, e la nobile madre:
e subito Ettore illustre si tolse l'elmo di testa,
e lo posò scintillante per terra;
e poi baciò il caro figlio, lo sollevò fra le braccia.
Proprio perché questa grande scena si commenta da sola, io evito di aggiungere parole di commento e accosto invece un altro celebre testo, l’Orlando Furioso, che è già stato presentato nella serie di “Perché leggere i classici”, proprio da Guido. E’ un poema cavalleresco, lunghissimo, in 46 canti. Nel XXIII canto alle ottave 132-133 - quindi siamo proprio nel cuore grafico del poema - viene descritta la pazzia di Orlando. Orlando ha scoperto che Angelica di cui lui è follemente innamorato, in realtà ama un altro e impazzisce. Orlando è un cavaliere cristiano, cioè uno che indossa le armi per difendere la sua fede contro la minaccia mora dei musulmani.
Afflitto e stanco al fin cade ne l'erba,
e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto.
Senza cibo e dormir così si serba,
che 'l sole esce tre volte e torna sotto.
Di crescer non cessò la pena acerba,
che fuor del senno al fin l'ebbe condotto.
Il quarto dì, da gran furor commosso,
e maglie e piastre si stracciò di dosso.
Qui riman l'elmo, e là riman lo scudo,
lontan gli arnesi, e più lontan l'usbergo:
l'arme sue tutte, in somma vi concludo,
avean pel bosco differente albergo.
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
l'ispido ventre e tutto 'l petto e 'l tergo;
e cominciò la gran follia, sì orrenda,
che de la più non sarà mai ch'intenda.
Nessun lettore dubita del fatto che i versi posti in questa posizione chiave, cioè al centro del poema, abbiano un evidente valore simbolico, cioè il primo gesto che il folle Orlando compie è quello di denudarsi delle armi. Noi possiamo immaginare che quando Ettore, sostanzialmente alla fine del VI libro, compie lo stesso gesto, questo gesto non abbia nessuna carica simbolica? Soprattutto visto che questo gesto arriva a conclusione di un percorso ascendente.
Il VI libro probabilmente è un’antica rapsodia. Breve parentesi: c’è chi dice che il VI libro è uno degli ultimi inseriti nell’Iliade, cioè è una delle ultime storie scritte. Posso accettarlo però ad un certo punto è stata aggiunta nell’Iliade e quando questa storia che noi abbiamo letto questa sera è stata aggiunta nell’Iliade, l’Iliade ha avuto un nuovo senso. Noi leggiamo, studiamo l’Iliade così come ci è arrivata, con tutti gli episodi. Allora ci interessa moltissimo fare la storia della formazione di ogni singolo canto, però noi valutiamo come opera letteraria quella che ci è arrivata. Questa opera che così ci è arrivata ha una sesta sezione, una sesta rapsodia, un sesto libro, in cui si inizia con una orrenda mischia, si prosegue con una scena feroce di assassinio a sangue freddo, quella di Meneleao che trafigge Adrasto, si continua con una scena di duello che si conclude con uno scambio di doni in nome di un valore più alto dell’eroismo bellico, quello dell’ospitalità, prosegue nell’ambito della città dei nemici dove troviamo donne che piangono come le donne di ogni popolo e culmina con una scena in cui di fronte all’innocenza di un bambino, l’eroe principale dei troiani Ettore che in un momento rinuncia al suo statuto di eroe e si toglie l’elmo.
Credo che questa sia proprio quella che i retori chiamano una climax, cioè una scala, c’è evidentemente il tentativo di superare il valore eroico bellico in qualche modo. Non tutta l’Iliade è così, però vedo che l’Iliade che ha come tema l’ira di Achille - la parola “ira” è la prima parola dell’Iliade - racconta il furore di Achille che non si ferma mai, che non si accontenta mai. Achille si illude di trovare soddisfazione facendo strazio del cadavere di Ettore, legandolo al suo carro, trascinandolo attorno a Troia: niente, non sortisce nessun effetto, niente, Achille è sempre più disperato.
Achille si placa soltanto nel XXIV libro, che pure è considerato un libro tardo perché solo in questo libro viene nominato Ermes. Tutte cose interessanti però a me interessa il senso che il XXIV libro, dal momento in cui è stato inserito nella storia, dà all’intera vicenda. Nel XXIV libro Achille si calma quando vede davanti a sé il re Priamo che ha avuto l’ardire di presentarglisi davanti per supplicare la restituzione del cadavere di Ettore, e in questo vecchio lui rivede il padre Peleo che ha abbandonato, il padre di cui non sa niente, cioè riconosce nel capo dei nemici il proprio padre e, dice Omero, Achille si mette a piangere. Achille piange il padre, Priamo piange per Ettore. Omero dice che Achille piange anche per Patroclo ma piange.
Ancora, forse questa cosa non è nota al pubblico non specialistico, ma l’ultima scena dell’Iliade non è una scena di guerra. E’ una scena che si svolge a Troia, quindi non in ambito acheo ma fra i nemici, è una scena di funerale, il funerale di Ettore, quindi non una azione di guerra ma un gesto di pietà e soprattutto i personaggi principali che intervengono non sono eroi. C’è sì Priamo che organizza tutto, ma quelle che parlano e dicono le parole più sensate sono tre donne: Ecuba, la madre di Ettore, Andromaca, la moglie e ultima Elena, la pseudo cognata. Allora capite che il poema sull’ira di Achille finisce con tre donne che piangono un morto.
L’Odissea, anche un poema d’amore
Abbiamo parlato tanto dell’Iliade, adesso ci avviamo alla conclusione e non voglio farla io ma lascio la parola ad Omero. Facciamo qualche assaggio dell’Odissea. L’Odissea è senz’altro un poema di avventure, ma è anche un grande poema di amore. Noi ci limitiamo a leggere e a raccogliere le suggestioni di alcune scene, innanzitutto una scena del I libro in cui compare per la prima volta Penelope. Penelope è nella sua camera, nella reggia di Itaca, sente il canto dell’aedo Femio che racconta del ritorno dei greci, degli achei in patria e questo canto fa pensare a Penelope che l’unico eroe che non è ancora tornato è proprio il marito Odisseo. Siccome Penelope sa che il canto degli aedi deve provocare la gioia, il diletto, e non il pianto, scende per interrompere il canto.
Con un’articolazione magistrale l’Odissea fa comparire Odisseo solo nel V canto, nei primi quattro canti non compare mai in scena, è solo evocato dalla moglie e da Telemaco che ne va in cerca. Odisseo entra in scena nel V canto e si trova nell’isola della ninfa Calipso ad Ogigia dove viene mandato Ermes dagli dei per ingiungere a Calipso di liberare Odisseo. Calipso è un po’ restia ma acconsente e va a comunicare la notizia ad Odisseo e lo trova in riva al mare in una certa condizione.
Notate l’evidente analogia tra la scena in cui compare Penelope nel primo libro e la scena in cui compare Odisseo nel V libro: c’è un gesto con un evidente valore simbolico che li accomuna, questo stesso gesto ritorna nel XIX libro, nel momento in cui i due sposi che sono lontani l’uno dall’altra da venti anni si trovano per la prima volta l’uno di fronte all’altra. Il cuore di Penelope è talmente addolorato che ha perso perfino la capacità di sperare e non riconosce in questo uomo che ha davanti il marito. Odisseo vorrebbe sfogarsi in un certo modo ma in una splendida similitudine Omero ci spiega perché non lo fa. Anche qui compare questo elemento simbolico.
Alla fine del XXIII libro finalmente Penelope lo riconosce, una cosa significativa è che il riconoscimento di Penelope arriva dopo un inganno che ha a che fare col loro letto nuziale: questo è l’unico inganno per il quale Odisseo si adira. L’astuto Odisseo subodora gli inganni tutte le volte che gli si presentano. L’unica volta in cui non capisce che è un inganno quello che ha davanti a sé, ma ci crede e ci casca è un inganno della moglie che con un trabocchetto dice di voler fare rimuovere il loro letto nuziale. Non si può fare perché il loro letto nuziale era stato scavato in un albero che affondava le radici proprio nelle fondamenta della casa. Odisseo quando sente questa cosa va su tutte le furie perché dice: “Chi ha mai toccato il mio letto?” E siccome solo loro due e una serva sapevano questo segreto, solo a quel punto Penelope si concede una speranza di riconoscimento e lì c’è una reazione che sembra essere un esplicito richiamo delle scene che abbiamo letto.
Libro I, vv. 325-344: entra in scena Penelope
Il cantore famoso cantava tra loro, ed essi sedevano
ascoltando in silenzio: cantava degli Achei il ritorno
luttuoso, che gli inflisse da Troia Pallade Atena.
Dalle stanze di sopra ne intese il canto ispirato
la figlia di Icario, la saggia Penelope:
l'alta scala distese della sua camera,
non sola, con lei andavano anche due ancelle.
E quando giunse dai pretendenti, chiara fra le donne,
si fermò vicino a un pilastro del solido tetto,
tenendo davanti alle guance il lucido scialle:
da ciascun lato le era accanto un'ancella fedele.
Piangendo si rivolse poi al divino cantore:
«Femio, molte altre imprese di uomini e dèi tu conosci,
che incantano gli uomini, e i cantori le celebrano:
cantane una, seduto tra loro; ed essi in silenzio
bevano il vino; smetti però questo canto
luttuoso, che sempre in petto mi logora
il cuore, dopoché tanto mi colpì il crudele dolore.
Tale persona infatti desidero, ricordandola sempre,
di un uomo, di cui è vasta la gloria per l'Ellade ed Argo».
Libro V, vv. 148-158: entra in scena Odisseo
Detto così il forte Arghifonte partì:
lei si recò dal magnanimo Odisseo, la ninfa possente,
quando ebbe udito il messaggio di Zeus.
Lo trovò seduto sul lido: i suoi occhi
non erano mai asciutti di lacrime, passava la dolce vita
piangendo il ritorno, perché ormai non gli piaceva la ninfa.
Certo la notte dormiva, anche per forza,
nelle cave spelonche, senza voglia, con lei che voleva;
ma il giorno, seduto sugli scogli e sul lido,
lacerandosi l'animo con lacrime, lamenti e dolori,
guardava piangendo il mare infecondo.
Libro XIX, vv. 203-212: Odisseo e Penelope si incontrano
Fingeva dicendo molte menzogne simili al vero:
lei ascoltando piangeva, la pelle le si scioglieva.
Come si scioglie sui monti eccelsi la neve,
che Euro sciolse e Zefiro aveva ammucchiata,
e mentre si scioglie i fiumi s'ingrossano,
Così le si sciolsero le belle gote piangendo,
gemendo per il suo sposo, seduto vicino. E Odisseo
commiserava sua moglie che singhiozzava,
ma i suoi occhi, quasi fossero corno o ferro, restarono
nelle palpebre immobili: nascondeva con astuzia le lacrime.
Libro XXIII, vv. 183-208: Penelope riconosce Odisseo
«Donna, è assai doloroso quello che hai detto.
Chi mise altrove il mio letto? sarebbe difficile
anche a chi è accorto, se non viene e lo sposta,
volendolo, un dio in un luogo diverso, senza difficoltà.
Nessun uomo, vivo, mortale, neppure giovane e forte,
lo smuoverebbe con facilità: perché v'è un grande segreto
nel letto lavorato con arte; lo costruii io stesso, non altri.
Nel recinto cresceva un ulivo dalle foglie sottili,
rigoglioso, fiorente: come una colonna era grosso.
Intorno ad esso feci il mio talamo, finché lo finii
con pietre connesse, e coprii d'un buon tetto la stanza,
vi apposi una porta ben salda, fittamente connessa.
Dopo, recisi la chioma all'ulivo dalle foglie sottili:
sgrossai dalla base il suo tronco, lo piallai con il bronzo,
bene e con arte, e lo feci diritto col filo,
e ottenuto un piede di letto traforai tutto col trapano.
Iniziando da questo piallai la lettiera, finché la finii,
rabescandola d'oro e d'argento e d'avorio.
All'interno tesi le cinghie di bue, splendenti di porpora.
Ti rivelo, così, questo segno. Donna,
non so se il mio letto è fisso tuttora o se un uomo,
tagliato il tronco d'ulivo alla base, altrove lo mise».
Disse così, e lì le si sciolsero ginocchia e cuore,
nel riconoscere i segni che Odisseo le rivelò, sicuri.
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