Il Decameron nella tradizione manoscritta: Boccaccio ed i suoi primi lettori, mercanti, monaci e lo stesso Petrarca. Una intervista a Marco Cursi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 23 /09 /2022 - 06:45 am | Permalink | Homepage
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L’intervista inedita che presentiamo on-line è stata curata dal Centro culturale Gli scritti, in occasione della pubblicazione del libro del prof.Marco Cursi, Il Decameron: scritture, scriventi, lettori. Storia di un testo, Roma, Viella, 2007. Marco Cursi è ricercatore presso la cattedra di Paleografia latina della Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma ed è autore di numerosi contributi incentrati sulla tradizione delle opere di Giovanni Boccaccio e sui meccanismi di trasmissione manoscritta in botteghe di cartoleria nella Firenze nei secoli XIV e XV.

Il Centro culturale Gli scritti (13/9/2007)

 

Quali manoscritti autografi del Decameron ci sono pervenuti?
È giunto fino a noi un solo testimone autografo del Centonovelle, il manoscritto Hamilton 90, conservato presso la Biblioteca di Stato di Berlino. Si tratta di un codice in membrana – la materia di scrittura più diffusa nel Medioevo – di dimensioni medio-grandi, integralmente di mano dell’autore; Boccaccio si serve di una scrittura inconfondibile, definita dai paleografi “semigotica”; si tratta di una tipologia grafica piuttosto simile alla gotica ma caratterizzata da maggiore ariosità e da un contrasto di tracciato meno pronunciato, una scrittura piuttosto simile a quella utilizzata in quegli stessi anni da Francesco Petrarca. La storia di questo eccezionale testimone è piuttosto avventurosa: fu confezionato dal Boccaccio nei suoi ultimi anni di vita (intorno al 1370) ma ben presto se ne persero le tracce. Ricomparso nei primi anni del Cinquecento nella Firenze dei Medici, da quel momento è stato a disposizione dei letterati e degli studiosi interessati al capolavoro della narrativa trecentesca. Anche Pietro Bembo ebbe la possibilità di consultarlo, tanto che appose una nota in margine al codice; il grammatico e linguista veneziano, però, come i suoi contemporanei e tutti coloro che ebbero la possibilità di avere tra le mani il manoscritto nei secoli seguenti, pur ritenendo il testimone berlinese un codice di ottimo livello quanto alla resa testuale, non lo considerarono mai come l’originale del Decameron. Nell’Hamiltoniano, in effetti, si leggono alcuni errori che non erano ritenuti compatibili con una copia d’autore; un esempio celebre viene dalla novella settima della seconda giornata, nella quale si raccontano le incredibili peripezie vissute da Alatiel, la figlia del sultano di Babilonia. Il nome di uno dei suoi spasimanti, Marato, in un caso è reso nel codice berlinese con marito; siamo quindi dinanzi ad un tipico errore derivante da una banalizzazione, secondo una dinamica di copia che può essere attribuita ad un copista ma certamente non all’autore. L’interesse intorno all’Hamiltoniano si riaccese agli inizi degli anni ’30 del Novecento, quando il codice fu inviato a Firenze per essere esaminato da uno dei più grandi critici letterari del tempo, Michele Barbi, che tra l’altro era un esperto conoscitore della scrittura del Boccaccio. Il primo incontro tra l’anziano professore e il manoscritto berlinese fu breve e memorabile: i presenti raccontano che il Barbi, dopo aver sfogliato il codice quasi distrattamente, dato un rapido sguardo, lo attribuì senza alcuna esitazione alla mano dell’autore, con un giudizio che non concedeva spazio ad ulteriori dubbi: «È lui, e non dei primi, ma piuttosto degli ultimi anni». Passati tre lustri, ormai nel primo dopoguerra, tale ipotesi di autografia, affermata dalle caratteristiche della scrittura ma negata dalla presenza di errori come quello segnalato sopra, animò il dibattito tra gli studiosi, specialmente grazie ad alcuni interventi di un allievo di Barbi, Alberto Chiari, strenuo sostenitore della paternità boccaccesca del codice; alla sua tesi, però, non fu concesso molto credito. Soltanto nel 1962 avvenne il definitivo riconoscimento; anche in questo caso fu necessaria una trasferta del manoscritto (nel frattempo depositato a Magdeburgo, dopo essere stato sottratto alla biblioteca berlinese per evitare la sua dispersione negli anni caotici della seconda guerra mondiale). Un altro studioso italiano, Vittore Branca, ebbe la possibilità di far arrivare il codice in Biblioteca Marciana, a Venezia, e dopo averlo studiato attentamente insieme all’amico Pier Giorgio Ricci fu in grado di sciogliere definitivamente ogni riserva, identificando la mano con quella dell’autore, Giovanni Boccaccio.

Come venne risolta, allora, la questione degli errori?
Quelle sviste effettivamente comparivano nelle carte del codice, ma non erano attribuibili al Boccaccio. La scadente qualità della membrana utilizzata, infatti, aveva determinato fin dagli anni immediatamente successivi alla copia un distacco di molte zone di scrittura, che erano state sostituite da integrazioni di ripassatori quattrocenteschi; a questi anonimi restauratori si deve assegnare la responsabilità degli errori che per molti anni avevano di fatto reso impossibile qualsiasi ipotesi di autografia.

Il codice hamiltoniano, dunque, è un autografo risalente agli ultimi anni di vita dell’autore; cosa pensare, allora, della tesi di chi sostiene che Boccaccio, dopo il 1350, avesse deciso di bruciare la sua opera?
Quando il Decameron venne scritto, subito dopo la terribile esperienza della peste nera del 1348, Boccaccio non temeva certamente di aver dato alla luce un’opera pericolosa per la moralità dei suoi lettori, poiché aveva approntato uno strumento apposito per delimitare nettamente i confini tra letteratura e vita, la cornice. Non si dimentichi, infatti, che la separazione tra le vite di cui si ragiona e la vita reale dei giovani che di quei racconti sono al tempo stesso produttori e fruitori è netta. La brigata, in altre parole, non corre il rischio di recepire i comportamenti talvolta scandalosi che le novelle del libro che si denomina prencipe Galeotto propongono: per dirla con Lucia Battaglia Ricci, le varie Pampinea, Fiammetta, Elissa, ecc., non possono cadere nel tragico errore che segnò per sempre l’esistenza della lettrice di provincia Francesca, che nella Commedia dantesca è colpevole di aver scambiato letteratura e vita. Con il passare degli anni, però, eventi come gli incontri con il Petrarca (avvenuto nel 1350), l’assunzione della dignità ecclesiastica (intorno al 1360), l’accettazione di incarichi di alto prestigio a servizio del Comune potrebbero aver scalfito la fiducia che l’autore nutriva verso la capacità di discernimento dei suoi lettori e soprattutto delle sue lettrici – pur sempre esposte alla tentazione di divenire preda di un “desiderio mimetico” –e suscitato in lui scrupoli di carattere moralistico. Ciò determinò a mio parere non il ripudio dell’opera, ma un tentativo di orientarne in qualche modo la diffusione, riservandola ad uno specifico strato di lettori che sapesse leggerla, senza ricavarne motivo di scandalo. Ad attestarlo è la tradizione manoscritta stessa, che negli anni in cui il Boccaccio è ancora vivente appare strettamente orbitante intorno alla figura dell’autore; i pochi codici superstiti anteriori al 1375, infatti, sono riconducibili a copisti e lettori-possessori che ebbero rapporti di conoscenza diretta con il Boccaccio o con persone che, a diverso titolo, gli furono vicine in diversi momenti della sua vita. In altre parole è da escludere che l’autore avesse rinnegato la sua opera maggiore (del resto continuò a rivedere il testo con un’accuratissima revisione fino agli ultimi mesi di vita, secondo quanto è dimostrato dal codice Hamilton 90), ma forse tentò di promuovere una diffusione controllata del Decameron. Si trattava, come è ovvio, di un tentativo destinato ad un inevitabile fallimento; fu, paradossalmente, la morte ad eliminare ogni impedimento consegnando all’entusiasmo dei contemporanei, senza altri ostacoli, l’amatissimo e galeotto Centonovelle.

Esistono mss. antecedenti la fissazione definitiva del testo?
Il Decameron fu presumibilmente composto dal Boccaccio tra il 1348 e il 1353; alcuni studiosi sostengono che il Boccaccio elaborò almeno due redazioni dell’opera lungo un arco di tempo che si estese fino agli ultimi mesi di vita; altri affermano invece che si può parlare al massimo di una serie, sia pure ricchissima e del tutto significativa, di varianti d’autore. In ogni caso, sono sopravvissuti tre manoscritti sicuramente anteriori all’autografo hamiltoniano. Il più antico è un codice conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (con la segnatura II, II, 8) un manoscritto che – paradossalmente – non contiene il Centonovelle ma un “altro” Decameron, costituito non secondo l’impianto, l’ordinamento e la struttura concepita dall’autore, ma accostando parti della raccolta novellistica originariamente destinate a rimanere ben separate tra loro da un anonimo compilatore (e copista?) di origine fiorentina, che ho avuto modo di identificare in un mio studio di qualche anno fa. La più spinosa questione posta dal frammento è senza dubbio quella relativa alla logica – apparentemente incomprensibile – che si cela dietro alle scelte di carattere contenutistico: in esso, infatti, sono state trascritte soltanto le “conclusioni” delle giornate I-IX del Decameron (con le relative ballate) e la novella decima della nona giornata; il tutto è abilmente connesso mediante brevissime parti di raccordo, opera dell’anonimo tessitore di questo intreccio, al quale dobbiamo attribuire anche un ampio proemio, posto nelle carte iniziali (cc. 20r. -21r.), nelle quali è celebrata l’intera attività letteraria del Boccaccio, definito come ancora vivente. Indizi di carattere paleografico e codicologico inducono a datare questo enigmatico testimone ai primissimi anni ’60 del Trecento. L’identificazione della mano del copista, che ho potuto effettuare qualche anno fa, con quella di un anonimo funzionario che lavorava a servizio di Lapa Acciaiuoli, la sorella del potentissimo Nicola (un mercante fiorentino trapiantato a Napoli che in quel periodo aveva assunto la funzione di plenipotenziario del Regno angioino), conferma questa indicazione cronologica e lascia intendere che – sorprendentemente – il più antico testimone del Decameron non è di origine fiorentina, ma napoletana (pur se posseduto e forse commissionato da fiorentini che lavoravano nella capitale del Regnum). Gli altri due testimoni sono ugualmente di grande suggestione: il primo è un manoscritto conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, sottoscritto da un giovane copista fiorentino, Giovanni d’Agnolo Capponi, ed è databile intorno al 1365. La particolarità di questo esemplare sta nel fatto che è arricchito da 18 bellissime illustrazioni ad acquarello, che con ogni probabilità furono realizzate dall’autore stesso. Saremmo, quindi, in presenza di un idiografo, un manoscritto cioè non propriamente autografo ma realizzato sotto il diretto controllo dell’autore. Il secondo è un testimone frammentario, formato da 35 carte contenenti ampie sezioni dell’opera, riportate alla luce più di un secolo fa da un avvocato e bibliofilo piacentino, Fabio Vitali, che le aveva riportate alla luce dopo averle intraviste al di sotto delle coperte dei piatti di uno dei libri della sua collezione, un’edizione quattrocentesca dei Sermones quadragesimales di fra’ Leonardo da Udine. Il frammento di Piacenza può essere datato, grazie all’analisi della tipologia grafica e delle filigrane, alla metà degli anni ’60 del Trecento e si presenta come un codice particolarmente prezioso, poiché una serie di indizi di carattere paleografico e testuale lascerebbero intendere l’uso di un antigrafo d’autore e una probabile supervisione delle operazioni di copia effettuata in prima persona dallo stesso Boccaccio.

Tornando al codice parigino, il Boccaccio, dunque, era anche disegnatore?
Certamente non un professionista del disegno, ma un dilettante di genio, che si divertiva ad aggiungere frequentemente in margine ai codici che passavano per il suo scrittoio manicule (vale a dire manine di foggia molto elegante, con l’indice puntato a segnalare una sententia o un luogo testuale ritenuto significativo) o altri segni d’attenzione come fiorellini, faccette, parentesi graffe con elementi a forma di conchiglia. In qualche caso, poi, egli inserì vere e proprie illustrazioni, in codici di sua mano o in manoscritti copiati sotto la sua supervisione, come il Decameron della Biblioteca Nazionale di Parigi. L’immagine più significativa tracciata nel codice parigino è probabilmente quella collocata nella carta incipitaria (con il termine si intende la carta iniziale, nella quale cominciava la trascrizione; nei codici medievali, infatti, non esisteva nulla che potesse essere comparato ai frontespizi delle edizioni a stampa moderne): immediatamente al di sopra della rubrica nella quale era indicato il titolo dell’opera (“Comincia il libro chiamato Decameron, cognominato prencipe galeotto...”), sono raffigurate due coppie di innamorati a cavallo, poste l’una di fronte all’altra. Secondo una suggestiva ipotesi di Daniela Delcorno Branca, i personaggi di destra, stretti in un forte abbraccio, potrebbero essere Lancillotto e Ginevra, quelli di sinistra Galeotto e la dama di Malehaut. Il Boccaccio, dunque, in un punto di grande importanza strategica del manoscritto, avrebbe voluto raffigurare il personaggio-sottotitolo dell’opera, quel principe Galeottoprotagonista dell’episodio più famoso del romanzo francese Lancelot, che Dante aveva stigmatizzato nel canto quinto dell’Inferno (nel quale Galeotto è chiamato il libro che Paolo e Francesca leggono per diletto e che consentirà il manifestarsi di una passione che li porterà alla dannazione eterna). Se tale interpretazione fosse corretta, la suggestione romanzesca, veicolo di peccato nella Commedia, verrebbe riproposta e reinterpretata in una nuova accezione all’inizio della sua opera maggiore. A ciò si aggiunga che immediatamente al di sotto, all’interno dell’iniziale, è tracciato un ritratto del Boccaccio, rappresentato come un maestro in cattedra con il mano il volume dell’opera, declamata dinanzi ad un folto pubblico in cui, in prima fila, spiccano le donne, indicate dal Boccaccio stesso nel Proemio come le destinatarie privilegiate del Decameron.

Lei ha studiato, in particolare, la diffusione dell’opera maggiore del Boccaccio. Chi erano i copisti del Decameron?
Il Centonovelle (così come spesso veniva denominato nei manoscritti trecenteschi e quattrocenteschi) ebbe un’ampia diffusione soprattutto all’interno del ceto mercantile; per molto tempo si è ritenuto che l’opera fu trascritta quasi esclusivamente da copisti per passione – secondo una felice definizione messa a punto ormai quasi mezzo secolo fa da Vittore Branca – persone di cultura tecnica e mercantile, privi di conoscenza del latino, abituate a scrivere per apprendere, per divertirsi, per educarsi religiosamente, ma soprattutto a scrivere da sé e per sé. Le radici di tale fenomeno affondano fino al sec. XII, ma trovano le loro prime significative espressioni soprattutto nel Duecento, quando, con la conquista da parte del volgare italiano del diritto alla scritturarinasce la figura dell’alfabeta libero di scrivere “al di fuori di precise funzioni sociali o di obbliganti costrizioni giuridiche” (A. Petrucci); in sostanza, arriva un momento in cui non occorre più essere maestri, scribi, chierici, giudici, notai, professori per potersi dedicare ad un’attività di scrittura, ma basta semplicemente essere alfabeti, cioè capaci di farlo. Alla metà del sec. XIV la presenza di questo nuovo pubblico di lettori (e potenziali scriventi), costituito principalmente da laici dell’Italia comunale appartenenti al ceto mercantile, artigianale o professionale, si fa consistente e così la pratica della scrittura per la lettura diviene consuetudine ampiamente diffusa e dà origine ad una produzione quantitativamente rilevante, in grado di costituire una concreta alternativa all’opera degli scribi professionali, e specialmente di quelli più legati alla antica tradizione monastica o alla più recente editoria universitaria. Se già nella diffusione della Commedia il numero dei copisti per passione era andato progressivamente crescendo, la natura stessa del Decameron, in quanto epopea della borghesia mercantile in fortissima ascesa, lo rendeva fin dalla prima circolazione – immediatamente successiva alla morte dell’autore – oggetto privilegiato dell’attenzione di chi con la pratica dell’autoscrittura di testi letterari esprimeva non soltanto un interesse appassionato per la narrazione novellistica in se stessa, ma anche un’espressione visibile da un lato delle proprie aspirazioni culturali e dall’altro di attitudini grafiche da ostentare orgogliosamente, forse proprio perché maturate in ambienti lontani dai tradizionali centri di formazione scolastica di livello superiore. Il ruolo rivestito dall’autoscrittura nella diffusione del Centonovelle, dunque, fu certamente determinante, anche se non esclusivo o decisamente maggioritario, come si è ritenuto per molti anni.
Nel ceto mercantile, in effetti, molti dovevano essere i potenziali lettori che non erano in grado di affrontare l’esperienza di copiare personalmente un testo letterario, sia per motivi di tempo sia per la loro stessa educazione grafica, non sempre adeguata a compiere un’operazione che richiedeva una notevole perizia scrittoria e la conoscenza di precisi canoni formali nell’organizzazione della pagina. Tale ampia fascia di mercatanti, provvisti di una cultura grafica fatta soprattutto di scritture economiche e di documentazione privata, aveva bisogno di referenti ai quali rivolgersi per ordinare un Decameron, una Commedia, una Cronica del Villani o una qualsiasi altra opera della nuova letteratura in volgare. Dunque, è ragionevole supporre che negli anni e nei luoghi nei quali la pratica dell’autoscrittura di codici volgari in mercantesca cresceva in progressione rapida e costante, il mercato del libro, molto più flessibile e articolato di quanto non si ritenga comunemente, si venisse attrezzando in modo tale da poter rispondere a queste nuovissime esigenze. Tale sistema di produzione e distribuzione del manoscritto prevedeva diverse modalità, a mio avviso fondamentalmente riconducibili a tre possibili situazioni:

  • la stipulazione, più o meno formalizzata, di un accordo tra un committente, che manifestava il desiderio di possedere una determinata opera letteraria ma non era in grado di compiere personalmente la trascrizione – per mancanza di tempo? per insufficiente perizia grafica? per l’impossibilità di avere a propria disposizione un antigrafo? – e un copista che prestava la sua opera in proprio, in molti casi come attività di lavoro secondaria, avviata per arrotondare i ricavi di una diversa occupazione professionale;
  • l’acquisto diretto del codice in una bottega di cartolaio, possibile soltanto a condizione che il titolo cercato fosse disponibile tra i volumi pronti per la vendita;
  • l’ordinazione del manoscritto al titolare della bottega stessa, che doveva essere in grado di procurarsi un antigrafo dell’opera sufficientemente corretto e di garantirne l’esecuzione entro un periodo di tempo determinato, realizzando la copia in prima persona o rivolgendosi a uno o più copisti professionali o semiprofessionali che si ponevano abitualmente a suo servizio.

La maggior parte dei codici appartenenti a tale circuito di produzione, sviluppatosi per la letteratura volgare dalla metà del Trecento fino alla diffusione della stampa e oltre, era di livello esecutivo basso: materiale scrittorio cartaceo, decorazione modesta o completamente assente, tipologie grafiche mercantesche, cancelleresche o ibride. La circostanza che tali manoscritti fossero sottoscritti molto di rado, presumibilmente per sfuggire a controlli di carattere fiscale, ne ha determinato l’inevitabile dispersione e ha reso la loro individuazione piuttosto difficile: identificare un codice trascritto su commissione è possibile da un lato basandosi sulla rilevazione di particolari abitudini di copia, dall’altro affidandosi ad una sistematica esplorazione della tradizione manoscritta di una determinata opera; l’attribuzione alla stessa mano di più codici rappresenta, a tale riguardo, un segnale molto significativo, per non dire decisivo. L’applicazione di tali criteri di ricerca mi ha consentito di identificare un buon numero di manoscritti decameroniani appartenenti a tale circuito di produzione, che nella diffusione dell’opera ebbe un peso pari, se non addirittura maggiore, a quello della copia per passione.

Ci sono anche dei casi che non rientrano nelle due categorie principali della copia per passione e della copia a prezzo?
In effetti alcune eccezioni ci sono; il caso più singolare è senza dubbio quello di un monaco che si fa copista del Decameron: egli si sottoscrive (in latino) in calce al codice Banco Rari 37 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (n° 25) e specifica di appartenere all’ordine benedettino:

Qui finisce la decima et ultima giornata del Decameron, cogniominato principe Ghaleotto, conpilato per messer Giovanni Bocchacci da Certaldo. Deo gratias. Amen. Quis scripxit hunc librum collocetur in paradisum. Manus scriptoris salvetur omnibus oris. N. Hoc librum expletum fuit die XXV mensis Iulii 1396 per me, domno N monachum ordinis Sancti Benedictiti (così). Amen. Deo gratias. Amen. N. Nicolaus

Nicolaus – secondo le abitudini grafiche del mondo monastico, nel quale esisteva una stretta correlazione tra le dimensioni del manoscritto e quelle della scrittura – scrive in una gotica dal corpo delle lettere grande e dal tracciato spezzato. Pur essendo innegabile che il problema dei rapporti intercorsi tra le opere boccacciane in volgare e il complesso universo monastico e conventuale nel corso del sec. XV è ancora tutto da studiare (si pensi, al riguardo, alla vicenda editoriale di uno dei più antichi libri a stampa decameroniani, finito di stampare il 13 maggio del 1483 nel convento fiorentino delle monache di San Jacopo a Ripoli), la singolarità di questo codice è indubbiamente dovuta all’antinomia esistente tra lo status di religioso del copista e l’interesse per un’opera come il Decameron, che aveva i propri punti di forza ideologici da un lato nell’omaggio alle donne e dall’altro nella polemica contro il clero e in qualche misura anche contro la letteratura di argomento devozionale. Piuttosto oscure si presentano anche le circostanze nelle quali si svolse l’opera di copia: Nicolaus, infatti, non operò da solo ma con l’aiuto di un altro copista che fa la sua apparizione alla c. 101r. Davvero singolare la divisione del lavoro di copia tra Nicolaus e il copista della mano B: i due si alternano continuamente – un’analisi approfondita del manoscritto mi ha permesso di scoprire ben 136 cambi di mano – e sembrano lavorare con ritmi molto diversi: i passi trascritti da Nicolaus sono generalmente più brevi e molto spesso corrispondono a 42 righe, cioè ad una completa colonna di scrittura; le ultime 14 carte, però, sono interamente copiate di sua mano, quasi che il monaco volesse riappropriarsi della paternità di quel codice che egli solo ha poi sottoscritto.
Anche se finora non è stato possibile identificare altri manoscritti di mano di Nicolaus, credo sia lecito ipotizzare che egli abbia trascritto il codice decameroniano non per se stesso, ma in seguito ad una commissione esterna all’istituzione monastica cui apparteneva. Se infatti la copia di un Decameron – condotta con una certa difficoltà e con ritmi di lavoro irregolari, come lascerebbero intendere le continue interruzioni e la inconsueta divisione del lavoro cui si faceva cenno sopra – poteva forse essere tollerata sul finire del sec. XIV anche in un monastero benedettino, specialmente se situato in un contesto urbano, la conservazione del Centonovelle in una biblioteca monastica era sicuramente meno accettabile e agevole. Non è certamente facile identificare il luogo in cui si poterono realizzare le condizioni favorevoli ad un’operazione di tal genere; una pista di ricerca che potrà essere battuta con qualche probabilità di successo potrebbe ricondurre al monastero fiorentino della Badia, soprattutto in considerazione degli stretti rapporti di collaborazione intrattenuti con le tante botteghe di cartoleria che avevano sede nelle sue immediate vicinanze o addirittura in locali appartenenti al monastero stesso.

Cosa possiamo sapere dai manoscritti autografi di Boccaccio dantista?
Boccaccio fu probabilmente il più grande conoscitore delle opere dantesche nel corso del secolo XIV; a testimoniarlo, oltre agli echi delle opere di Dante che si colgono in tutti i suoi scritti, la sua attività di copista e in qualche maniera di editore della Commedia, della Vita Nova, di parte delle Rime, delle Egloghe e di alcune Epistole. Particolare importanza hanno le tre copie della Commedia, che egli trascrisse tra il 1350 e il 1365, ancora oggi a nostra disposizione in manoscritti conservati a Toledo (Biblioteca Capitolare, ms. Zelada 104.5), Firenze (Bibl. Riccardiana, cod. 1035) e nella Città del Vaticano (Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Chigi L.VI.213). Al di là dei complessi problemi di carattere testuale, questi tre esemplari colpiscono per la bellezza della scrittura, e, in un caso (quello del codice fiorentino) per la presenza di sette illustrazioni ad acquerello che sono attribuibili – con qualche dubbio – alla mano del Boccaccio. Non si dimentichi, inoltre, che il Certaldese compose anche una importante biografia dantesca (il De Origine vita studiis et moribus clarissimi Dantis Aligerii...), che nel 1350 la Compagnia di Orsanmichele gli affidò l’incarico di consegnare dieci fiorini d’oro alla figlia di Dante, Beatrice, monaca nel monastero di Santo Stefano dell’Uliva di Ravenna, a titolo di risarcimento simbolico per i danni subiti dalla famiglia con la confisca dei beni del padre (decretata dal comune di Firenze quasi mezzo secolo prima), e che, infine, nel 1373 egli intraprese un ciclo di letture pubbliche della Commedia nella chiesa di Santo Stefano in Badia, a Firenze, interrotte dopo pochi mesi a causa di una fastidiosa malattia. In definitiva, per dirla con Giorgio Padoan, il Boccaccio fu per eccellenza “il fedele di Dante: il maestro (egli proclamava) «dal qual io / tengo ogni ben, se nullo in me se posa»(Amor. Vis. VI 2-3)”.

Per concludere, quali rapporti ebbe con Petrarca?
Il Boccaccio ebbe relazioni di grande amicizia nei confronti di Francesco Petrarca, che incontrò per la prima volta a Firenze nel 1350 e poi ripetutamente a Milano, Venezia e Padova; sono proprio i manoscritti a consentirci di sorprendere i due letterati allo stesso tavolo di lavoro: si pensi, ad esempio, al caso del cosiddetto Plinio parigino (Bibliothèque Nationale de France, cod. 6802, contenente la Naturalis historia), in margine al quale è stata aggiunta una celeberrima rappresentazione di Valchiusa (luogo amatissimo da Petrarca, nei pressi di Avignone, in cui soggiornò per molti anni), raffigurante una chiesetta posta su una rupe, ai piedi della quale scorre acqua sorgiva, accompagnata dalla celeberrima figura d’uccello con un pesce in bocca e dall’altrettanto nota postilla petrarchesca Transalpina solitudo mea iocundissima. Recenti ricerche compiute da Maurizio Fiorilla sembrano aver attestato definitivamente quanto alcuni studiosi sostenevano da tempo, cioè che il disegno – tradizionalmente attribuito al Petrarca – sia invece di mano del Boccaccio, che, dunque, insieme al Petrarca, in occasione di uno dei loro incontri, svoltosi a Milano nel 1359, avrebbe “pianificato lo spazio che figura e annotazione dovevano occupare nella pagina”. A ciò si aggiunga che il Boccaccio regalò diversi libri al Petrarca, come un grande manoscritto della Commedia (non di sua mano, ma fatta eseguire da un copista a prezzo) ancora oggi conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana (cod. Vat. lat. 3199). Quanto, infine, alla sua opera maggiore, egli non pensò mai di fare dono del Decameron al suo maestro; la circostanza può apparire sorprendente, ma sembra attestata da un’epistola indirizzata da Petrarca al Boccaccio stesso, la Senile dei primi mesi del 1373 (Sen. XVII, 3), che testimonia il recente e casuale arrivo di un manoscritto del Centonovelle nella sua biblioteca. In questa lettera il Petrarca da un lato manifesta un divertito distacco nei confronti dell’opera dell’amico, ma d’altro canto sancisce uno straordinario riconoscimento dei meriti del Decameron, poiché annuncia la realizzazione della traduzione in latino (con la conseguente trasfigurazione in senso esemplaristico-morale) dell’ultima novella (Dec. X, 10), in cui è narrata la storia di Griselda. Sembrerebbe, dunque, che egli apprezzò il Centonovelle, ma ne portò avanti una lettura fortemente selettiva; ciò, del resto, probabilmente non dispiacque al Boccaccio degli ultimi anni, tutto preso dal suo progetto di stretto controllo della prima diffusione dell’opera.


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