CAPACI DELL'ALTRO. Essere in relazione con Dio, il prossimo e noi stessi. Esercizi spirituali predicati da d. Michele Filippi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 23 /09 /2022 - 06:39 am | Permalink | Homepage
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Presentiamo on-line gli esercizi spirituali predicati da d.Michele Filippi nella parrocchia di San Ponziano in Roma nella Quaresima del 2006, dal 6 al 10 marzo. Per cinque sere consecutive le meditazioni hanno accompagnato nella chiesa parrocchiale le persone radunatesi per gli esercizi. Alla meditazione seguiva l’adorazione eucaristica. Il silenzio era intervallato dall’esecuzione di alcuni brani di musica classica.

Il Centro culturale Gli scritti (11/10/2007)

 

Indice

  • I GIORNO: L’IMMAGINE E SOMIGLIANZA
  • II GIORNO: LA DANZA GIOIOSA DELLA VITA DIVINA
  • III GIORNO: UNA LOTTA CHE DIVENTA ABBRACCIO E BENEDIZIONE
  • IV GIORNO: UN DIO SEDUTTORE CHE FA ARDERE IL CUORE
  • V GIORNO: «ECCOCI QUI, IO E TE, E SPERO CHE CI SIA UN TERZO IN MEZZO A NOI, IL CRISTO»
  • NOTE

I GIORNO (6 marzo 2006): L’IMMAGINE E SOMIGLIANZA

La creazione dell'uomo, Cattedrale di Monreale
La creazione dell’uomo, Cattedrale di Monreale

Questi nostri esercizi iniziano con un racconto. Dico «nostri» perché non pensiate che negli esercizi spirituali ci sia un rapporto impari a due: chi predica e chi ascolta. Se così fosse non parleremmo di esercizi. Anzi, proprio chi riceve gli esercizi è attore principale dell’azione, non da solo, ma insieme allo Spirito Santo che illumina il nostro cuore è la nostra mente alla comprensione della Sacra Scrittura che costituisce l'ossatura di tutte le nostra meditazioni. Dico «nostri esercizi» anche perché chi vi predica vuole, insieme con voi, durante queste serate disporsi all'ascolto della Parola di Dio che trasforma.
Vi dicevo che questi nostri esercizi iniziano con un racconto:

C'era una volta un abile scultore che si era messo in testa di plasmare la statua più bella mai vista sulla faccia della terra; dopo aver pensato un poco giunse alla conclusione che sarebbe stato per lui più semplice plasmare una meravigliosa statua se avesse avuto come modello una persona cara, da lui amata, di cui conosceva ogni particolare del volto. Il pensiero corse subito al suo amato figlioletto e decise così di mettersi al lavoro. Preparò l'argilla ma mise da parte i suoi strumenti, ripeteva infatti a se stesso che quella statua l'avrebbe plasmata interamente con le sue mani. Iniziò a modellare la sua statua con una tale cura che ogni particolare veniva confrontato più volte con l'originale e, quando ebbe terminato, l'opera risultò una copia praticamente perfetta delle fattezze di suo figlio. Il nostro scultore aveva la fama di essere il migliore di tutti, ben presto perciò la fama di quel suo ennesimo capolavoro, che sembrava essere la sua opera più bella si sparse ovunque. Ma con la fama, si sa, giunge sempre anche l'invidia. Notte tempo infatti si introdusse nella sua bottega uno dei suoi rivali che rovinò gravemente la statua. Immaginate il dolore del nostro artista nel vedere così devastata la sua opera, tuttavia non si perse d’animo e iniziò il lento lavoro di ricostruzione, sotto le sue mani quell’argilla riprese la morbidezza d’un tempo e fu possibile plasmarla di nuovo. Fu un lavoro lungo e faticoso ma sembrava come se l’argilla stessa volesse lasciarsi di nuovo plasmare per riassumere lo splendore della sua forma originaria. E lì accanto al padre scultore vi era sempre suo figlio che posava per lui perché la statua riprendesse la sua forma. Così alla fine la statua tornò ad essere integra, anzi, sembrava più bella di prima. Altre volte, diversi invidiosi tentarono di danneggiare irreparabilmente quella statua e puntualmente lo scultore, con grande amore a pazienza vi rimetteva mano per renderla di nuovo integra.

Così termina la nostra storia, molti di voi avranno fatto già delle associazioni… un padre, un figlio, un opera… vi voglio consegnare ora queste due perle della Sacra Scrittura che sono state all’origine di questa mia piccola stravagante storia:

Dal libro della Genesi (1,26.2,7)
E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra»… Allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente.

Dal libro del profeta Isaia (64,7)
Ma, Signore, tu sei nostro padre;
noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma,
tutti noi siamo opera delle tue mani.

Anzitutto notiamo una cosa importante: siamo stati plasmati ad immagine del Figlio. Il Padre, come ogni un artista che si rispetti, dovendo fare la creatura più bella della sua creazione guarda ad un modello d’eccezione: il suo Figlio amato. Ad immagine sua e per mezzo di lui noi siamo creati, ci dice la nostra fede. Ma non solo, per mezzo di lui il Padre ha voluto anche plasmarci di nuovo quando il nostro splendore fu portato via dalla nostra superbia e dall’invidia del diavolo. La prima plasmazione la chiamiamo creazione, la seconda redenzione. Redenzione che continua in tutta la storia ed in ciascuno di noi ogni giorno e che fa appello alla nostra attiva collaborazione: «vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20) ci ha detto san Paolo mercoledì scorso, all’inizio della quaresima ed è lo stesso Paolo che ci ricorda come «Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me» (1Cor 15,10).
Ci pensate? Non solo Dio ha voluto farci a sua immagine e somiglianza ma si prende cura di questa creatura preziosa e amata a tal punto da dare la vita del suo Figlio diletto per ricostituirne l’immagine deturpata. Permette che il volto splendido di Cristo, «il più bello fra i figli dell'uomo» (Sal 44,3), diventi una maschera orrenda di sangue perché il nostro volto riacquisti lo splendore originario.

Forse a noi uomini moderni l’idea di «abbandonarci nelle mani di qualcuno» o peggio di «lasciarci plasmare» può suonare quantomeno bizzarra se non addirittura offensiva della dignità umana.
Ma abbandonarsi nelle mani di Dio non è un abbandonarsi qualunque, e questo lo sperimentiamo già al livello delle nostre relazioni umane: pensate a quale grande differenza c’è tra l’abbandono fiducioso a qualcuno che amiamo e da cui siamo amati e l’abbandono a qualcuno che non ci ama ma che vuole usarci per i suoi fini. Gesù ha mostrato in ogni momento della sua vita, un abbandono fiducioso, confidente e pieno d’amore al Padre, e ci ha mostrato che questo abbandono nell’amore non è segno di debolezza né di passività ma di autentica forza e di vera e attiva adesione alla volontà del Padre. Così si esprime San Leone Magno parlando dell’incarnazione (ma potremmo applicare questa frase ad ogni momento della vita di Cristo): «fu un inclinarsi della misericordia [di Dio] non una mancanza di potere» (Tomus ad Flavianum, 3).
Allo stesso si può dire che essere plasmati da Dio non è un essere «manipolati». Siamo nelle mani di Colui che conosce bene la nostra forma perché ci ha creati. E’ un artista che sa bene cosa fare e solo può condurre la nostra umanità ad una pienezza che non possiamo neppure immaginare ma che in fondo desideriamo intensamente ogni volta che sperimentiamo la nostra limitatezza e la nostra incapacità d’amare.
Prendo spunto da quest’ultima constatazione per notare un’altra conseguenza dell’essere creati ad immagine e somiglianza di Dio, conseguenza importantissima per la nostra vita: è nell’umanità di Cristo che possiamo riconoscere chi siamo veramente e a quale vocazione straordinariamente alta siamo chiamati, proprio come il Concilio Vaticano II ci ha ricordato: «Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione» (Gaudium et Spes, 22) In una parola è guardando a Gesù che possiamo dare un senso, una direzione ed una apertura piena di speranza alle domande fondamentali che ci portiamo dentro come esseri umani.
Non abbiamo ancora detto una cosa importante su cosa significhi essere creati ad immagine e somiglianza di Dio. Domani vedremo insieme questo altro aspetto essenziale che è poi il cuore di questi esercizi: essere in relazione.

Proviamo intanto nella giornata di domani a riflettere su questa domanda:
Riesco ad essere disponibile all’azione di Dio come quell’argilla sotto le mani dello scultore?
E rimaniamo aperti a ciò che lo Spirito vorrà ispirarci…

II GIORNO (7 marzo 2006): LA DANZA GIOIOSA DELLA VITA DIVINA

Montorsoli, La Trinità, Messina Museo Regionale
Montorsoli, La Trinità, Messina Museo Regionale

Vi è un termine antico, nella teologia dell’oriente cristiano che descrive la profondità straordinaria della comunione della vita divina, che indica precisamente l’inabitare di ogni persona della Trinità nell’altra, avete presente quando Gesù dice «io sono nel Padre ed il Padre è in me» (Gv 14,10-11)? Be il nostro termine esprime proprio questo: la comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito non è solo uno stare l’uno con l’altro ma è così forte che è uno stare l’uno nell’altro.
Il termine in greco suona così: perichoresis. Chi non conosce il greco non si spaventi, sicuramente conosce una parola italiana che ha la stessa radice il verbo choreuo che significa appunto danzare. Chi non ha mai sentito parlare di coreografia? I nostri spettacoli televisivi sono pieni di coreografie, più o meno belle. Choreia in greco significa proprio danza. Peri-coresi alla lettera potrebbe essere tradotto come «danza attorno» cioè «danza circolare». Questo termine ci suggerisce come la vita divina possa essere rappresentata dall’immagine di una danza, una danza che è movimento senza imperfezioni e che è anche abbraccio perché sono tre coloro che danzano in tondo.
Parliamo dunque di danze questa sera, anzitutto di una danza eterna e gioiosa fonte di vita e di vita eterna: la danza della vita divina. E lo facciamo perché vogliamo vedere cosa ha da dire questa «comunità» particolarissima che è la Trinità al nostro essere in relazione e alle nostre comunità concrete, da quelle familiari alla Chiesa universale. Vogliamo ancora una volta affidarci a Dio che è amore e che è maestro per eccellenza dell’amore, per capire un po’ di più di noi stessi e del nostro vivere in relazione con gli altri.

Ma prima è necessario un chiarimento che ci aiuterà a meditare: il nostro linguaggio di occidentali, per tante ragioni, risente di una paura più o meno esplicitamente presente: se dico che in Dio c’è qualche dinamismo (come una danza ad esempio), un qualcosa che possa assomigliare ad una passione, allora significa dire che Dio non è perfetto, immutabile, impassibile cioè non soggetto a passioni. E' una paura antica, forse più di natura filosofica che non realmente radicata in quello che la Rivelazione ci dice. La Scrittura infatti ci pone dinnanzi un Dio ricco di misericordia, un Dio che ama il suo popolo come uno sposo la propria sposa usando un linguaggio che è quello dell’amore umano anche nel suo aspetto passionale, un Dio che si indigna e si adira di fronte alle ingiustizie verso i miseri, i poveri, gli orfani e le vedove, ma che si commuove visceralmente di fronte alle folle «perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore» (Mt 9,36). Di fronte a queste affermazioni della Scrittura, dobbiamo pensare solo a delle pure immagini retoriche o possiamo legittimamente pensare che ci dicano qualcosa di vero sulla vita intima di Dio, sul «cuore» di Dio?
C’è forse qui una distinzione importante da fare: c’è una passione perfetta ed una invece che manifesta il limite e l’imperfezione. Certo il termine «passione» risulta in se un po’ problematico perché ci fa pensare subito al patire e quindi al sottostare alla sofferenza o ad un vizio e certo, in questo senso, non possiamo attribuirla a Dio, egli è infatti impassibile poiché non è soggetto a passioni. Ma impassibile può significare anche indifferente, possiamo dire che Dio è indifferente? Certamente no, il Dio che per amore si fa carne non può certo dirsi indifferente nei confronti delle sue creature. Lo dicevamo ieri citando Leone Magno: la «passione» che contempliamo in Dio è la passione della carità, e se Giovanni ci attesta che Dio è carità, non possiamo immaginare un Dio statico, immobile e meno che mai indifferente. Il nostro Dio è il Dio della vita.
Nella passione di Gesù, che tante volte contempleremo in questa quaresima, vediamo presenti queste due passioni: quella passione perfetta della carità che lo porta a consumarsi completamente per noi, quella imperfetta che lo fa soggiacere al dolore e alla morte, non per Lui stesso che non conosce peccato, ma per i nostri peccati. Portando in sé entrambe queste passioni, con la più forte e vivificante vince quella imperfetta e distruttiva: con la carità vince il peccato, la sofferenza e la morte.
A causa di quella «passione d’amore» Dio ha preso su di sé anche il nostro patire, perché liberati da questo potessimo anche noi vivere quella in pienezza «dalle sue piaghe siete stati guariti» (1Pt 2,25).
Non vi sembrino troppo distanti queste considerazioni. In fondo ricadiamo spesso nell’equivoco tra le due passioni proprio quando continuiamo a farci una idea troppo distante di Dio e diventiamo incapaci di affidargli ogni momento della nostra vita, quando smettiamo di credere quello che la lettera agli Ebrei ci ricorda che «non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4,15). Vi faccio un esempio, pensate a quando parliamo del paradiso, una volta un bambino mi disse: «sai che noia a stare per l’eternità a guardare Dio!» si perché quando pensiamo alla contemplazione eterna di Dio forse l’immagine che ci viene in mente è più simile a quella di un bagnante che se ne sta fermo ed immobile ad abbronzarsi per l’eternità sotto il sole che è Dio che a quella che vi proporrò fra poco dopo aver letto il passo biblico guida di questa sera, ovvero l’immagine di essere chiamati ad una danza eterna sempre nuova e nella quale non ci sarà mai noia ma continuo stupore di novità. Mi ricordo che risposi a quel bambino: «non ci sarà tempo di annoiarsi quando saremo insieme con Dio» e sì perché con Dio danzeremo e non staremo immobili come imbalsamati, e la pace eterna sarà gioia non noia. Anzi possiamo ben dire che questa danza è già iniziata con la Resurrezione ed il dono dello Spirito Santo…

Ascoltiamo dunque il passo della Scrittura che ci guida questa sera e in cui compare una danza, quella del re Davide di fronte all’arca:

Dal secondo libro di Samuele (6,9-23)
Davide in quel giorno ebbe paura del Signore e disse: «Come potrà venire da me l'arca del Signore?». Davide non volle trasferire l'arca del Signore presso di sé nella città di Davide, ma la fece portare in casa di Obed-Edom di Gat. L'arca del Signore rimase tre mesi in casa di Obed-Edom di Gat e il Signore benedisse Obed-Edom e tutta la sua casa.
Ma poi fu detto al re Davide: «Il Signore ha benedetto la casa di Obed-Edom e quanto gli appartiene, a causa dell'arca di Dio». Allora Davide andò e trasportò l'arca di Dio dalla casa di Obed-Edom nella città di Davide, con gioia. Quando quelli che portavano l'arca del Signore ebbero fatto sei passi, egli immolò un bue e un ariete grasso. Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore. Ora Davide era cinto di un efod di lino. Così Davide e tutta la casa d'Israele trasportavano l'arca del Signore con tripudi e a suon di tromba.
Mentre l'arca del Signore entrava nella città di David, Mikal, figlia di Saul, guardò dalla finestra; vedendo il re Davide che saltava e danzava dinanzi al Signore, lo disprezzò in cuor suo. Introdussero dunque l'arca del Signore e la collocarono al suo posto, in mezzo alla tenda che Davide aveva piantata per essa; Davide offrì olocausti e sacrifici di comunione davanti al Signore. Quando ebbe finito di offrire gli olocausti e i sacrifici di comunione, Davide benedisse il popolo nel nome del Signore degli eserciti e distribuì a tutto il popolo, a tutta la moltitudine d'Israele, uomini e donne, una focaccia di pane per ognuno, una porzione di carne e una schiacciata di uva passa. Poi tutto il popolo se ne andò, ciascuno a casa sua. Ma quando Davide tornava per benedire la sua famiglia, Mikal figlia di Saul gli uscì incontro e gli disse: «Bell'onore si è fatto oggi il re di Israele a mostrarsi scoperto davanti agli occhi delle serve dei suoi servi, come si scoprirebbe un uomo da nulla!». Davide rispose a Mikal: «L'ho fatto dinanzi al Signore, che mi ha scelto invece di tuo padre e di tutta la sua casa per stabilirmi capo sul popolo del Signore, su Israele; ho fatto festa davanti al Signore. Anzi mi abbasserò anche più di così e mi renderò vile ai tuoi occhi, ma presso quelle serve di cui tu parli, proprio presso di loro, io sarò onorato!». Mikal, figlia di Saul, non ebbe figli fino al giorno della sua morte.

La danza di Davide
Quali follie non si compiono per chi si ama! Anche un re che rimane quasi svestito e danza come un forsennato. E sì, per chi si ama si fa questo ed altro, ci dice Davide con la sua danza dinnanzi all’arca. Due caratteristiche saltano agli occhi nell’atteggiamento di Davide: la gioia e il danzare con tutte le forze.
Fare qualcosa per amore ci riempie di gioia, anzi la gioia nasce dall’amore stesso e genera altro amore. Un amore che non sia mai fonte di gioia e che non dia mai motivi di gioia, può definirsi ancora tale? La gioia che Davide ha in cuore per la presenza di Dio si trasmette anche al suo corpo e diventa visibile proprio attraverso quella danza vorticosa.
Davide danza con tutte le sue forze, cioè con tutto se stesso si mette in gioco fino in fondo, egli non si accontenta di dare a Dio solo un po’ di se stesso ma consegna tutto ciò che ha, anima, corpo e diremo anche la dignità regale! Non solo, promette di fare ancora di più e di abbassarsi ancora di più se questo fosse mai possibile e necessario. Chi per Dio compie le follie della carità è da lui innalzato ad una dignità che nessuna corona umana può eguagliare.

Lo sdegno di Mikal
Se proviamo a chiudere gli occhi possiamo immaginare il volto radioso di Davide così come la faccia contratta dallo sdegno di Mikal che è rimasta scandalizzata dalla nudità di Davide e forse anche da quel suo danzare forsennato. Mikal non sa gioire della presenza di Dio rappresentata dall’arca, ella rimane ancorata a quel falso pudore che il protocollo della vita di palazzo impone. Non sa farsi scombinare le carte in tavola dalla potenza e sapienza di Dio. Mikal, in breve, si sottrae alla danza della relazione con Dio.
L’autore sacro conclude con lapidaria determinazione che la durezza del cuore di Mikal e quel sottrarsi alla danza gioiosa dell’incontro con Dio genera solo sterilità, una sterilità fisica ma che allude con triste ironia a quella più profonda e abissale dello spirito.

E noi partecipiamo alla danza o siamo solo capaci di sdegnarci?
Potrebbe essere la domanda da porsi durante la giornata di domani. Potremmo anche formularla così la domanda: siamo solo capaci di vivere ciò che programmiamo noi oppure sappiamo lasciarci sconvolgere la vita dalle chiamate, a volte importune secondo i nostri criteri, che Dio ci fa in tanti modi? Siamo capaci di lasciarci sconvolgere la vita entrando in questa danza vorticosa come Davide?
Anche qui facciamo una puntualizzazione linguistica, perdonatemi è una mia fissazione, ma credo sia importante dire una cosa: tante volte noi cristiani usiamo l’espressione «progetto di Dio», la Scrittura usa un’altra terminologia per dire ciò che Dio ha preparato con amore per tutti noi fin dall’eternità, usa l’espressione «disegno di Dio». Azzardo a dire che per la Scrittura Dio è un artista, il più grande; per noi moderni forse, è più simile ad un ingegnere (non me ne vogliano gli ingegneri eventualmente presenti)… nell’opera di Dio c’è spazio per il non previsto (da noi ovviamente), per ciò che lascia stupefatti, per ciò che fa gioire il cuore, c’è spazio per la nostra libertà; per questo la Scrittura parla di disegno. Non si tratta infatti solo una serie di cose da realizzare che Dio ha pensato e scritto e che noi dobbiamo eseguire come ingranaggi.
Chissà cosa accadrebbe se tanti nostri bei progetti (di vita, pastorali, culturali ecc…) diventassero più disegni e meno progetti? Se lasciassimo cioè più spazio all’azione della grazia di Dio nella nostra vita ed imparassimo ad aprire un po’ più la bocca per lo stupore ed un po’ meno per dire parole che feriscono o incasellano tutti e tutto? Forse avremmo colto lo spirito di quelle parole di Gesù che dicono: «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio» (Mc 10,14).
La speranza è che lo Spirito di Dio ci aiuti a prendere parte con tutto noi stessi a quella danza che è la vita divina a cui Dio ci hai invitati a partecipare prima creandoci e poi redimendoci; che ci aiuti ad abbandonare gli sdegni che nascono dalle nostre incrollabili certezze e sicurezze e generano durezza di cuore; che ci aiuti a non essere come gli invitati alle nozze che si rifiutano di entrare e di danzare per far festa.

Che bello se anche le nostre relazioni umane diventassero danza come in Dio! E sì perché sappiamo che non è tutto così semplice per noi, le nostre relazioni non sono solo danza gioiosa ma anche, spesso, conflitto con il prossimo ma anche con Dio. Come fare? Sarà l’oggetto della meditazione di domani sera.

QUALCHE TESTO BIBLICO PER LA MEDITAZIONE
LA DANZA SEGNO DI GIOIA

Esodo 15,20-21
Allora Maria, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano un timpano: dietro a lei uscirono le donne con i timpani, formando cori di danze. Maria fece loro cantare il ritornello: «Cantate al Signore perché ha mirabilmente trionfato: ha gettato in mare cavallo e cavaliere!».

Salmo 150
Alleluia.
Lodate il Signore nel suo santuario,
lodatelo nel firmamento della sua potenza.
Lodatelo per i suoi prodigi,
lodatelo per la sua immensa grandezza.
Lodatelo con squilli di tromba,
lodatelo con arpa e cetra;
lodatelo con timpani e danze,
lodatelo sulle corde e sui flauti.
Lodatelo con cembali sonori,
lodatelo con cembali squillanti;
ogni vivente dia lode al Signore.
Alleluia.

Salmo 29,12-13
Hai mutato il mio lamento in danza,
la mia veste di sacco in abito di gioia,
perché io possa cantare senza posa.
Signore, mio Dio, ti loderò per sempre.

1Cronache 15,25-29
Davide, gli anziani di Israele e i capi di migliaia procedettero con gioia al trasporto dell'arca dell'alleanza del Signore dalla casa di Obed-Edom. Poiché Dio assisteva i leviti che portavano l'arca dell'alleanza del Signore, si sacrificarono sette giovenchi e sette arieti. Davide indossava un manto di bisso, come pure tutti i leviti che portavano l'arca, i cantori e Chenania che dirigeva l'esecuzione. Davide aveva inoltre un efod di lino. Tutto Israele accompagnava l'arca dell'alleanza del Signore con grida, con suoni di corno, con trombe e con cembali, suonando arpe e cetre. Quando l'arca dell'alleanza del Signore giunse alla città di Davide, Mical, figlia di Saul, guardando dalla finestra, vide il re danzare e saltare; lo disprezzò in cuor suo.

Geremia 31,13
Allora si allieterà la vergine della danza;
i giovani e i vecchi gioiranno.
Io cambierò il loro lutto in gioia,
li consolerò e li renderò felici, senza afflizioni.

IL DISEGNO DI DIO

Proverbi 19,21
Molte sono le idee nella mente dell'uomo,
ma solo il disegno del Signore resta saldo.

Romani 8,28-30
Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati.

Efesini 1,9-10
poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà,
secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito
per realizzarlo nella pienezza dei tempi:
il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose,
quelle del cielo come quelle della terra.

Efesini 3,8-13
A me, che sono l'infimo fra tutti i santi, è stata concessa questa grazia di annunziare ai Gentili le imperscrutabili ricchezze di Cristo, e di far risplendere agli occhi di tutti qual è l'adempimento del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio, creatore dell'universo, perché sia manifestata ora nel cielo, per mezzo della Chiesa, ai Principati e alle Potestà la multiforme sapienza di Dio, secondo il disegno eterno che ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore, il quale ci dà il coraggio di avvicinarci in piena fiducia a Dio per la fede in lui. Vi prego quindi di non perdervi d'animo per le mie tribolazioni per voi; sono gloria vostra.

III GIORNO (8 marzo 2006): UNA LOTTA CHE DIVENTA ABBRACCIO E BENEDIZIONE [1]

Eugène Delacroix, Combattimento di Giacobbe con l'angelo, Parigi Saint Sulpice
Eugène Delacroix, Combattimento di Giacobbe con l’angelo, Parigi Saint Sulpice

Questa sera i nostri esercizi iniziano proprio leggendo un passo del libro della genesi che guiderà la nostra riflessione.

Dal libro della Genesi (32,23-32)
Durante quella notte Giacobbe si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici figli e passò il guado dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e fece passare anche tutti i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlolo colpì all'articolazione del femore e l'articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l'aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». Giacobbe allora gli chiese: «Dimmi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel «Perché - disse - ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva». Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all'anca.

E’ un racconto alquanto misterioso e pieno di particolari e che contiene una apparente incoerenza. All’inizio del brano Giacobbe inizia la sua lotta con un uomo misterioso, alla fine esclama di aver visto Dio faccia a faccia. Chi è veramente questo personaggio misterioso? Le stesse parole rivolte da questo personaggio a Giacobbe sono assai oscure «Hai combattuto con Dio e con gli uomini».
Proviamo a pensare che questa ambiguità nel personaggio misterioso sia voluta. Proviamo dunque a leggere questo passo della Genesi su due binari paralleli, cioè proviamo a pensare ad un Giacobbe che lotta sia con l’uomo che con Dio. Proviamo a pensare che questo oscuro brano possa essere come una specie di itinerario che ci propone le caratteristiche salienti della relazione con il prossimo e con Dio.
Ho sottolineato nel testo biblico alcune espressioni che costituiscono la progressione di questa relazione fra Giacobbe ed il personaggio misterioso.

Camminare insieme, essere in relazione
Giacobbe non inizia il suo cammino da solo, è in compagnia delle persone più care, coloro di cui egli ha cura e che hanno a loro volta cura di lui. Sono in fondo tutta la sua ricchezza. Giacobbe deve attraversare il guado del fiume Iabbok insieme alla sua famiglia, è lui stesso che si premura di aiutare gli altri a compiere questo passaggio. Proviamo ad immaginare la differente premura con cui fa attraversare il più piccolo e debole di quella compagnia ed il più forte. Interessante è anche l’ordine di questo passaggio: prima fa attraversare i suoi beni più grandi cioè le persone che ama e che lo amano, poi anche i suoi averi che servono alla sussistenza di tutti loro ma non sono certo più importanti delle persone stesse.
Guardiamo alla nostra vita: siamo in cammino anche noi, anche noi ci ritroviamo di fronte i nostri torrenti e la necessità di attraversarli, da soli o insieme a chi amiamo, per sostenere e farci sostenere. Siamo capaci di mantenere l’equilibrio determinante fra il bisogno di aiuto ed il dare aiuto all’altro? Chi è l’altro per me? Colui a cui appoggiarmi o colui di cui prendermi cura e da cui farmi prendere? Anche noi, infine, come Giacobbe siamo chiamati a dire cosa sia più importante: le persone o le cose.
Torniamo per un attimo alla prima sera dei nostri esercizi, si era appena accennato al fatto che l’altra caratteristica importante dell’essere creati ad immagine e somiglianza di Dio è appunto l’essere creati capaci di relazione, anzi già posti in relazione dal momento in cui veniamo al mondo. Compreso il fatto che essere in relazione è un elemento essenziale della persona umana che è imprescindibile per lo sviluppo fisico, psichico e spirituale dell’uomo, cerchiamo di vederne i tratti e le caratteristiche salienti.

La solitudine
La solitudine mi sembra come un punto di partenza in questo brano, il fatto che Giacobbe sia in compagnia dei suoi non gli impedisce di sperimentare la solitudine, una solitudine notturna e inquietante che lascia spazio alle paure e a brutti pensieri, che nel nostro caso si concretizzano nella aggressione notturna che Giacobbe subisce. Una solitudine quindi che espone al pericolo e rende fragili.
Ognuno di noi può sperimentare questa solitudine, nonostante la presenza degli altri. Non si tratta qui della solitudine cercata in alcuni momenti in cui vogliamo stare con noi stessi e che hanno un loro valore salutare. Qui parliamo di una solitudine che vivo come imposta, subita e che lacera interiormente fino a produrre la sensazione che ci sia impedito qualcosa che per noi è più fondamentale dell’aria che respiriamo: l’incontro con l’altro.
Pensate a quando ci viene negato un incontro, un sorriso, una parola che attendiamo come un assetato attende l’acqua. C’è una poesia di Emily Dickinson che si addice bene ad esprimere la solitudine che viene dalla mancata risposta dell’altro, da quel silenzio imposto e subìto dalla chiusura di chi dovrebbe liberarci con una sola sua parola:

Non esiste Silenzio al Mondo – silenzioso
Quanto quello subìto
Che se detto, lascerebbe la Natura sgomenta
E il Mondo preda dell’ossessione.

E’ terribile sperimentarlo nei rapporti interpersonali così come nel nostro rapporto con Dio quando Egli sembra silenzioso alle nostre invocazioni, così da far esclamare a Giobbe «Io grido a te, ma tu non mi rispondi, insisto, ma tu non mi dai retta.» (Gb 30,20) E al salmista «Dio mio, invoco di giorno e non rispondi, grido di notte e non trovo riposo» (Sal 21,3), salmo ripreso da Gesù sulla croce «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Così giungiamo alla coscienza che ciascuno di noi nonostante la presenza degli altri, è radicalmente solo, per dirla con l’immagine famosa di Quasimodo «Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera».
Ma è realmente questa l’ultima parola? Possiamo considerare due estremi: da un lato potremmo arrivare pensare che le nostre relazioni siano del tutto incapaci di riempire il vuoto di solitudine, ma così il nostro desiderio di comunione sarebbe destinato a rimanere per sempre frustrato. Dall'altro lato, si potrebbe ritenere che esse soddisfino completamente la nostra sete di comunione fino a saziarla ed esaurirla, ma questo si scontra con i limiti di ogni rapporto umano che, per cause fra le più diverse (incomprensioni, infedeltà, sofferenza, morte, ecc.), non ci da mai la certezza di definitività. Dove si trova il punto d’equilibrio? Siamo destinati ad essere soli o siamo chiamati ad essere in comunione? Gli altri sono solo dei palliativi al mio bisogno di amore e di affetto o significano qualcosa di più grande? Sembra che ogni pienezza che sperimentiamo nei nostri rapporti umani, sia fragile come una bolla di sapone, che da un momento all'altro può scoppiare lasciando il vuoto, ora a causa di un tradimento o della morte di chi amiamo.
Certo è che la solitudine è sperimentata come un male profondo che causa grande sofferenza se non disperazione.

La relazione come lotta e i suoi segni
Immaginatevi qualcuno su un isola deserta che vede passare una nave o un aereo, cosa pensate che faccia? Si sbraccia, grida, cerca di attirare l’attenzione, se può accende anche un fuoco. E’ normale vede in quella apparizione ciò che può liberarlo dall’isolamento. Non è così anche quando sentendoci soli, vediamo comparire all’orizzonte chi può sollevarci da tale solitudine e riportarci nella terra feconda della comunione? Un amico, una persona amata, un genitore o un figlio, ad esempio.
Eppure ben sappiamo che ogni relazione che tale possa definirsi (anche quella con Dio) si configura anche come una lotta. Pensate a quando ci si innamora, come l’altra persona sconvolga un equilibrio già consolidato e come sia necessario ricreare nuovi equilibri che questa volta tengano conto di tutti e due. Quanta confusione interiore possono generare anche situazioni belle ed esaltanti come un innamoramento, o una nuova amicizia, o la nascita di un figlio! Imparare a gestire le nostre relazioni si rivela essere una vera e propria arte, mai scontata e piuttosto difficile che richiede tutto l’impegno e l’amore possibili.
Altra caratteristica della lotta fra Giacobbe ed il personaggio misterioso è il fatto che nessuno dei due sembra veramente vincere, è come se ad un certo punto la lotta diventasse una tensione immobile senza soluzione se non quella della liberazione dalla stretta che deve essere operata gradualmente da entrambi.
Ed infine, questa lotta che è la relazione lascia dei segni (proprio come l’anca slogata di Giacobbe): pensate ad una persona che non ha mai sperimentato affetto da parte dei genitori quanto possa portare con se anche da adulto i segni di questa relazione che ferisce. Ma quell’anca slogata è anche segno che non ci si è sottratti dalla lotta per timore ma si è vissuta fino in fondo. Chi non entra in relazione non può portarne neppure i segni.

La relazione come liberazione e benedizione
La stretta della lotta fra Giacobbe ed il personaggio misterioso, come dicevamo, sembra non avere un epilogo, né vinto né vincitore. Tale stretta fa invocare la liberazione da parte del personaggio e la richiesta di benedizione da parte di Giacobbe. E’ come se ciascuno dovesse fare il suo passo verso la soluzione di quella lotta, uno fa un passo e mostra la sua disponibilità, l’altro allora fa il suo e così via sino a che la stretta della lotta si trasforma in un abbraccio ed in una benedizione.
Potremmo dire che ci si libera dalla stretta, o meglio la si trasforma in un abbraccio, solo quando ci si fida di chi abbiamo di fronte. E questa fiducia va confermata in ogni momento attraverso i piccoli gesti d’amore e non deve mai essere data per scontata.
Uno invoca la libertà dalla stretta, l’altro invoca la sua benedizione.
Applichiamo al rapporto fra l’uomo e Dio tutto questo: Giacobbe sembra il forte che vince con la sua forza fisica, in realtà è colui che si riconosce bisognoso di benedizione a Colui che può donargliela, è un riconoscimento della grandezza di Colui che ha di fronte e che si è lasciato stringere dalle sue braccia. Pensate a Gesù che si lascia stringere da noi anche quando la nostra stretta assomiglia più ad una aggressione che ad un abbraccio, eppure Lui continua a benedirci. Si è lasciato vedere, ascoltare, toccare e persino oltraggiare ed uccidere perché da questa vicinanza profonda l’uomo ricevesse la grazia che salva.
Applichiamolo ora alle nostre relazioni interpersonali: qui la relazione non è più quella fra il Creatore e le creature, ed ognuno di noi lotta a volte come colui che stringe e altre volte come colui che benedice. Pensate, in ogni rapporto d’amore possiamo sia bramare il possesso dell’altro sia desiderare l’abbandono alle braccia dell’altro ovvero sia stringere fra le braccia sia abbandonarsi alla stretta dell’altro, sia liberare che benedire.
L’equilibrio fra il possesso e l’abbandono lo troviamo proprio nella fiducia di cui parlavamo prima. Potremmo proprio dire che ogni relazione matura cerca continuamente l’equilibrio fra questi due aspetti e si impegna a ricevere e a dare non con la logica dello scambio commerciale ma con quella dell’amore gratuito.

Conoscere e dare un nome all’altro
Dare il nome nella Scrittura significa dare una nuova identità, pensate a Pietro o ad Abramo ad esempio.
Conoscere il nome è invece conoscere l’identità di chi ho di fronte. Quando conosciamo qualcuno per la prima volta, e ci parliamo anche a lungo proviamo una certa delusione se poi ci accorgiamo di non avergli chiesto neppure il nome. Il nome è qualcosa d’importante.
Nel caso di Dio la questione è abbastanza chiara ed il brano stesso ci da indicazioni fondamentali: Dio è colui che può dare un nuovo nome, dare una nuova identità e con essa una nuova missione, è anche Colui di cui non si può conoscere il nome perché non è possibile per noi circoscrivere il suo mistero; Egli invece ci conosce fino in fondo perché ci ha creati, dandoci persino un nuovo nome. Sarà Dio stesso che dovrà svelarci il suo nome. Mentre lasciarsi dare il nome da Lui sarà accogliere il disegno di bene che ha su di noi.
Consideriamo ora le nostre relazioni interpersonali. Possiamo conoscere il nome di qualcuno? Diremo di sì, senza però mai pretendere di esaurire il mistero che è la persona che abbiamo di fronte. Se infatti siamo creati ad immagine e somiglianza di Dio anche ciascuno di noi è mistero personale, la cui profondità è nota completamente solo a Dio stesso. Possiamo dare il nome a qualcuno? Si diceva che ogni relazione seriamente vissuta genera nuovi equilibri, genera quindi novità in entrambe le persone coinvolte. Pensate a due persone che si amano, ogni coppia ha i suoi soprannomi che sono solo suoi e che descrivono proprio questa novità che la loro relazione ha dato a ciascuno dei due innamorati. Pensate anche, in negativo, a quei nomignoli dispregiativi che talora segnano alcune relazioni…

Vi ho dato solo pochi spunti su un passo biblico su cui possiamo ancora fare molte considerazioni e che si presta sicuramente a molteplici interpretazioni oltre quella che vi ho dato. Ciascuno provi a pensare al proprio rapporto con l’altro e con Dio e a rileggerlo alla luce di quello che il brano della lotta di Giacobbe con il personaggio misterioso ci ha detto.

QUALCHE TESTO BIBLICO PER LA MEDITAZIONE

Genesi 18,1-8
Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all'ingresso della tenda nell'ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall'ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po' di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l'albero. Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa' pure come hai detto». Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne focacce». All'armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese latte acido e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse a loro. Così, mentr'egli stava in piedi presso di loro sotto l'albero, quelli mangiarono.

Salmo 29
Ti esalterò, Signore, perché mi hai liberato
e su di me non hai lasciato esultare i nemici.
Signore Dio mio,
a te ho gridato e mi hai guarito.
Signore, mi hai fatto risalire dagli inferi,
mi hai dato vita perché non scendessi nella tomba.
Cantate inni al Signore, o suoi fedeli,
rendete grazie al suo santo nome,
perché la sua collera dura un istante,
la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera sopraggiunge il pianto
e al mattino, ecco la gioia.
Nella mia prosperità ho detto:
«Nulla mi farà vacillare!».
Nella tua bontà, o Signore,
mi hai posto su un monte sicuro;
ma quando hai nascosto il tuo volto,
io sono stato turbato.
A te grido, Signore,
chiedo aiuto al mio Dio.
Quale vantaggio dalla mia morte,
dalla mia discesa nella tomba?
Ti potrà forse lodare la polvere
e proclamare la tua fedeltà?
Ascolta, Signore, abbi misericordia,
Signore, vieni in mio aiuto.
Hai mutato il mio lamento in danza,
la mia veste di sacco in abito di gioia,
perché io possa cantare senza posa.
Signore, mio Dio, ti loderò per sempre.

Galati 5,13-15
Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!

IV GIORNO (9 marzo 2006): UN DIO SEDUTTORE CHE FA ARDERE IL CUORE

Cristo e Maria, Cristo sposo e la Chiesa sposa, Cappella della Madonna, Sacro Speco, Subiaco
Cristo e Maria, Cristo sposo e la Chiesa sposa, Cappella della Madonna, Sacro Speco, Subiaco

Non vi sembri irriverente il titolo della meditazione di questa sera. Lo vedremo più avanti, è il profeta Geremia ad esprimersi in questi temini parlando di Dio.
Questa sera parleremo della relazione fra Dio e l’uomo. Quale è il mio rapporto con Dio? La meditazione di ieri sera ci aveva lasciato con questa domanda, insieme alla domanda sul rapporto con l’altro che sarà oggetto della meditazione di domani.
Come mi pongo io nei confronti di Dio? Quale spazio di confidenza gli lascio? Come penso che Lui si rapporti con me? Quale idea mi son fatto del suo amore per me?
Se si trattasse della persona amata ci chiederemmo: quale è il mio sentimento verso di te? E tu cosa provi per me? Cosa c’è fra me e te?
Proviamo a farci queste domande anche nel rapporto con Dio. E vediamo ancora una volta quale è la risposta della Sacra Scrittura quando i due della relazione sono proprio Dio e l'uomo.
Potremmo chiederci se sia possibile porre simili questioni nei confronti di un Dio che giustamente riteniamo Creatore, Padre, trascendente, onnipotente ecc… Non sarà una pretesa troppo grande quella di aspirare all’amore e alle nozze di un partito così alto? Non sembra un po’ una favola romantica del tipo il re che sposa la popolana?
Di recente, mi è capitato di imbattermi proprio in un racconto di questo tipo, che avevo già letto alcuni anni fa, e che mi sembra proprio adatto alla meditazione di questa sera. Abbiate pazienza, vi narro anche questa sera un racconto come la prima sera dei nostri esercizi. Lo ha scritto il filosofo Søren Kierkegaard e lo potete trovare in quella sua meravigliosa opera che è «Briciole di filosofia»:
«Immaginiamo, dunque, un re che amava una ragazza poverissima. Il cuore del re non era macchiato da quel sapere che oggi si proclama ad alta voce, ignaro di quelle complicazioni che la ragione scopre per far prigioniero il cuore e che danno materia ai poeti e rendono indispensabili le loro formule magiche. La sua decisione era facile da realizzare perché ogni ministro temeva la sua collera e non ardiva sollevare alcuna obiezione, ogni stato straniero tremava davanti alla sua potenza e non poteva fare a meno di mandare ambasciatori per gli auguri alle nozze, nessun verme di cortigiano ardiva, nella polvere, ferirlo, per non avere la testa schiacciata. Che si suoni l'arpa, si dia inizio al canto dei poeti, si faccia festa, mentre l'amore celebra il suo trionfo; perché l'amore è esultante quando unisce ciò che è uguale, ma trionfante quando rende uguale nell'amore ciò che era diverso. Ma una preoccupazione sorse nell'animo del re; chi l'avrebbe pensata, se non un re che pensa da re! Non disse niente a nessuno della sua preoccupazione; se l'avesse fatto, ogni cortigiano avrebbe detto: `Maestà, lei concede alla ragazza un favore tale che per tutta la vita non potrebbe ringraziarla'. E il cortigiano avrebbe provocato la collera del re che l'avrebbe fatto impiccare per lesa maestà nei confronti dell'amata, e così avrebbe dato anche un altro dispiacere al re. Rimuginava tra sé e sé, nel suo cuore, quella preoccupazione: la ragazza sarebbe stata felice così? Avrebbe avuto tanta fiducia da non stare a pensare mai a ciò che il re voleva soltanto dimenticare, che lui era il re e lei era stata una ragazza poverissima? Se questo fosse accaduto, se si fosse risvegliato il ricordo che, come un rivale favorito, di tanto in tanto avrebbe allontanato dal re i suoi pensieri rinchiudendoli nella riserva di un segreto dolore, o se di tanto in tanto avesse attraversato la sua anima come la morte il sepolcro, cosa ne sarebbe stato della gloria dell'amore? Ma allora sarebbe stata più felice se fosse rimasta nel suo nascondimento, amata da un suo pari, contenta della sua povera capanna ma libera nel suo amore, allegra da mane a sera.»

Due soluzioni, ci dice Kierkegaard, si danno in una tale dolorosa situazione:
A. «all’unione si arriva con una elevazione… Anche il re avrebbe potuto mostrarsi alla ragazza poverissima in tutta la sua magnificenza, far sorgere il sole del suo splendore sulla sua capanna, brillare sul luogo dove le si era manifestato facendole dimenticare se stessa in una ammirazione adorante. E questo, forse, avrebbe anche soddisfatto la ragazza, ma non il re; egli non voleva la sua glorificazione bensì quella della ragazza.» Non sembra questa al momento la strada scelta da Dio che invece sceglie una seconda strada.
B. «se l’unione non si può realizzare con una elevazione deve essere perseguita con un abbassamento»
Non è tutta la storia della salvezza un abbassamento che chiama poi ad una esaltazione? In fondo Dio ha scelto proprio questa via, non ha cancellato magicamente la nostra povertà o ce ne ha resi dimentichi, ci ama troppo per fare qualcosa del genere, così squalificante per le sue creature. E’ sceso nella nostra povertà, l’ha presa in tutta la sua estensione e con tutto il suo peso. Questo è sconcertante: si lascia amare nella nostra povertà «perché questo è il carattere insondabile dell’amore, di voler essere uguale all’amato, non per scherzo ma sul serio» ci dice ancora Kierkegaard. Torna alla mente l’espressione tanto forte dell’inno della lettera ai Filippesi: «Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo» (Fil 6-7)
Dio ha fatto molto più del re del racconto: ha nascosto la sua gloria divina nelle vesti della nostra povertà, da servo si è lasciato amare perché ci innamorassimo di Lui per la sua amabilità e non fascinati dalla sua gloria. La forza che ha usato non è quella della gloria ma quella dell’amore che sa dare e perdere tutto per chi ama, e con questo amore che conquista e seduce i cuori e li fa ardere del suo amore: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso» (Ger 20,7).
Questo è l’amore di Dio per noi, ed è in questa povertà che ci chiama alle nozze: «Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell'amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2,21-22); e che si pone in una intimità senza precedenti: «la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore.» (Os 2,16).
Proviamo allora a fare un esperimento un po’ bizzarro, partendo da alcuni testi dall’Antico Testamento proviamo ad immaginare un dialogo fra l’uomo e Dio:

Dio:
Tu sei prezioso ai miei occhi,
perché sei degno di stima e io ti amo
(Isaia 43,4)

Creatura:
Ti amo, Signore, mia forza,
Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore;
mio Dio, mia rupe, in cui trovo riparo;
mio scudo e baluardo, mia potente salvezza.
(Salmo 17,2b-3)

Vedete la nostra libertà non entra in contrasto con quella di Dio e non solo perché la sua è su un piano superiore, anzi è l’origine e la condizione di possibilità della nostra, ma perché quel suo abbassamento ha portato all’altezza delle nostre orecchie quel «ti amo» di Dio e ci ha permesso di rispondere con libertà senza dover alzare la testa verso l’ignoto ma guardando negli occhi Dio stesso in Cristo Gesù e potendo rispondere quel nostro «anche io ti amo» che l’Amato da sempre attende.
Ci pensate le nostre orecchie, la nostra bocca, il nostro cuore all’altezza di quello di Dio, senza l’imbarazzo che a volte ci prende quando siamo alla presenza di una persona «importante» ma con la trepidazione del cuore di chi è alla presenza della persona importante della propria vita, «nel mio cuore c'era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo,ma non potevo» (Ger 20,9) esclama Geremia.
Se andiamo al Nuovo Testamento un dialogo d’amore simile lo troviamo senza bisogno di fare un collage:

Dal Vangelo secondo Giovanni (21,15-19)
Quando ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». Gli disse per la terza volta: «Simone di Giovanni, mi ami?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: «Seguimi».

E’ Dio che fa la domanda fatidica che tanti innamorati si fanno per essere certi dell’amore dell’altro. Gesù non attende qualcosa da Pietro, ma solo una risposta che esprima l’adesione libera del cuore. Poi verranno anche gli atti concreti con cui Pietro mostrerà questo amore, fino all’atto supremo del dono della vita che sigillerà definitivamente questo amore «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Andando a vedere il testo greco del Vangelo ci si accorge subito anche di un altro particolare che rivela l'amore e la pazienza infinita di Cristo: a Gesù che chiede a Pietro se lo ami usando verbo agapaô, Pietro risponde con il verbo fileô, che potremmo tradurre approssimativamente con «ti voglio bene», rimanendo su un piano più basso rispetto a quello che Gesù gli propone. E' Gesù, con straordinaria delicatezza, alla terza domanda usa lo stesso verbo usato da Pietro, andando incontro all'incapacità del discepolo di fare, almeno per ora, un passo più grande.
Anche da noi il Signore attende, come un innamorato che si dichiara, una risposta affermativa ed è tanto innamorato da saper attendere anche una vita intera perché quel sì sia detto, pazientando anche di fronte alle nostre mezze risposte che non vogliono compromettersi più di tanto.
Dobbiamo forse dire per concludere che se la Scrittura parla del rapporto fra Dio ed il suo popolo con i termini dell’amore umano, non è solo per il gusto di usare metafore che rendano comprensibile ciò che è incomprensibile, ma perché realmente realmente la relazione fra Dio e la Chiesa è una relazione sponsale.

Proviamo dunque, alla luce di ciò che si è detto, a tornare alle domande iniziali. Cosa c’è fra me e Lui? Cosa c’è fra noi e Lui?
Ma rispondere a queste domande implica la risposta ad una che le precede: cosa rispondo a Dio che mi dice «ti amo» e mi chiede «mi ami tu?»?

V GIORNO (10 marzo 2006): «ECCOCI QUI, IO E TE, E SPERO CHE CI SIA UN TERZO IN MEZZO A NOI, IL CRISTO»

I discepoli di Emmaus, Cattedrale di Monreale
I discepoli di Emmaus, Cattedrale di Monreale

Continuiamo a percorrere quello spazio aperto dalla riflessione della prima e seconda sera dei nostri esercizi, che ci hanno permesso di cogliere il legame profondo fra l’essere creati ad immagine e somiglianza di Dio e l’essere in relazione con un altro da me.
Dopo aver parlato ieri della relazione fra Dio e l’uomo, parliamo oggi della relazione con l’altro. Avrete già intuito che queste due meditazioni ci hanno fatto percorrere la strada tracciata dal comandamento dell’amore: «Amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza… Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mc 12,30-31). A voler essere precisi dovremmo dedicare anche una meditazione sul significato dell’amore di sé, ma le nostre serate sono giunte al termine e quindi faremo un accenno rapido ma essenziale all’amore di sé poiché il Signore ci dice di amare il nostro prossimo come noi stessi.
Nel primo e nel secondo libro di Samuele troviamo diversi passi che descrivono una straordinaria amicizia, quella fra Davide e Gionata. Vi riporto qui solo lo struggente lamento di Davide per la morte dell’amico Gionata (ma alla fine della meditazione riporto in modo più esteso alcuni passi):

Giònata, per la tua morte sento dolore,
l'angoscia mi stringe per te,
fratello mio Giònata!
Tu mi eri molto caro;
la tua amicizia era per me preziosa
più che amore di donna. (2Sam 1,25-26)

Il titolo della meditazione di questa sera è tratto da «L’amicizia spirituale» di Aelredo di Rievaulx un monaco vissuto nel XII secolo, forse il vertice della letteratura cristiana sull’amicizia. Dice Aelredo: «il mio amico sarà il custode dell’amore vicendevole, o del mio stesso animo, ne conserverà tutti i segreti in fedele silenzio, correggendo e sopportando, nella misura delle proprie forze, i difetti che vi scorgerà; si rallegrerà nelle sue gioie e si rattristerà nelle sue sofferenze, e sentirà come proprio tutto ciò che riguarda l’amico» (L’amicizia spirituale, I, 20).
Se provate a rileggere i passi che trattano dell’amicizia fra Davide e Gionata che vi ho riportato integralmente nell’ultima pagina vi accorgerete che ripresentano tutte queste caratteristiche appena elencate da Aelredo, in modo particolare confrontiamo la definizione che Aelredo da di amicizia con un passo del capitolo 18 del primo libro di Samuele:

«L’amicizia, dunque, è quella virtù che unisce gli animi con questo vincolo d’amore e di dolcezza e ne fa di più uno solo» (L’amicizia spirituale, I, 21)

Quando Davide ebbe finito di parlare con Saul, l'anima di Giònata s'era già talmente legata all'anima di Davide, che Giònata lo amò come se stesso. (1Sam 18,1)

Proviamo ad allargare alla relazione umana più in generale le caratteristiche che Aelredo riscontra nell’amicizia: il custodire l’altro, la fedeltà e la verità nei rapporti, il sopportare con pazienza i difetti ma essere anche pronto ad una fraterna correzione, l’essere «prossimo» nelle gioie e nei dolori sembrano connotare bene qualcuno che sa relazionarsi con l’altro in modo equilibrato. Chiunque sia l’altro, e qualunque sia il tipo di relazione sottesa questi potrebbero essere criteri comuni per l’equilibrio della relazione. Criteri su cui verificarsi continuamente.

L’amore di sé
Anticamente si parlava di contemptus sui, disprezzo di sé. Certo simili espressioni hanno talora generato una confusione non poco deleteria fra l’amor proprio (inteso evidentemente come egoismo) e l’amore di sé. Può il Signore chiederci di amare l’altro come noi stessi e poi chiederci di disprezzare noi stessi? Il disprezzo, quando c’è, non è certo verso noi stessi ma verso ciò che chiude il nostro cuore all’amore di Dio e del prossimo, il peccato. Verso noi stessi ci deve invece essere amore e custodia di sé, del proprio cuore, per tenerlo lontano da ciò che lo raffredda e lo rende insensibile all’amore.
Ci dice il Siracide: «In ogni azione abbi fiducia in te stesso, poiché anche questo è osservare i comandamenti» (Sir 32,23). Potremmo allora provare ad intendere l’amore di sé, alla luce di quell’immagine e somiglianza che ci connota rispetto a Dio: da un lato dovremmo dire che amarsi è avere la giusta considerazione di sé e quindi sia della propria fragilità quanto del proprio valore. E’ tanto facile affermare (almeno sul piano della parola) questo dell’altro e cioè che lo devo amare perché come me è persona umana e figlio di Dio, quanto è difficile a volte dirlo di noi stessi.
Forse bisogna dare un ordine alle cose: amarsi significa primariamente riconoscere lo splendore dell’immagine e somiglianza di Dio che ci connota, e poi, all’interno di una sana e realista conoscenza di sé, darsi il giusto valore senza esaltarsi oltre modo né disprezzarsi senza ritegno. Se infatti l’esaltazione significa superbia, il disprezzo significa ingratitudine verso il Creatore.
Tante volte facciamo il contrario: prima ci disprezziamo e ci sentiamo inferiori poi, per fuggire l’angoscia di questo stato, ci sovraesaltiamo fino all’inverosimile. Ma quest’ordine non funziona.

Trinità modello di relazione
Sentiamo spesso dire che amare per noi cristiani significa amare anche quando non si è amati. Questo è tanto vero che Gesù stesso dice ai suoi discepoli «Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell'Altissimo»(Lc 6,35). A volte prendiamo in modo così unilaterale questa affermazione che quasi ci scherniamo o, peggio, ci sentiamo in colpa se desideriamo ricevere una risposta ad un gesto d’amore, lo viviamo quasi come un contraccambio da ricevere, un dare-avere di tipo economico.
Gesù è anche colui che ci rivela il mistero della vita intima di Dio. Come stanno le cose nella Trinità? Prendiamo il Padre e il Figlio (ma quello che diciamo è applicabile anche allo Spirito): il Padre si dona completamente al Figlio in quella che chiamiamo generazione del Figlio, il Figlio a sua volta ricambia completamente il dono d’amore del Padre con una risposta piena e perfetta. Il Figlio non paga certo un pegno, non fa come facciamo noi che quando riceviamo un regalo ci sentiamo poi in debito finché non ci siamo sdebitati. Non solo, nella Trinità il dono di sé non è mai separato dall’accoglienza completa e totale dell’altro che a sua volta si dona.
Se l’amore trinitario è il modello del nostro amore, se la nostra capacità d’amare è stata plasmata da Dio ad immagine sua, del suo essere amore, allora anche per noi al donarsi dovrebbe corrispondere una risposta positiva e realizzarsi quindi una reciproca accoglienza. Non sempre e così e sappiamo che anche nei casi migliori (le persone più care ed amate e che ci amano) non è sempre facile realizzare questo scambio profondo d’amore.
Dobbiamo però tenere fisso lo sguardo sull’amore trinitario per imparare che l’unica moneta adatta a ricambiare l’amore è l’amore stesso.

Cristo «inter nos»
Proprio all’inizio del trattato sull’amicizia Aelredo pronuncia questa frase all’amico Ivo: «eccoci qui, io e te, e spero che ci sia un terzo in mezzo a noi, il Cristo» è in fondo ciò che speriamo per tutte le nostre relazioni. In che modo il Signore è presente all’interno delle nostre relazioni? E cosa ci dona questa sua presenza in ordine alla relazione con l’altro?
Cominciamo a rispondere alla seconda domanda guardando alcuni dei brani delle apparizioni del Risorto, Gesù si fa vedere vivo in mezzo a loro e porta con sé alcuni doni:
La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi». Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!». (Gv 20,19-23.26-29)

Gesù porta anzitutto se stesso vivo e risorto e dona loro la sua pace e con sé porta lo Spirito, il primo dono ai credenti, che farà degli spauriti discepoli annunciatori coraggiosi. Gesù «autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,2) porta anche il dono della fede, sempre per mezzo dello Spirito. Così vediamo come la presenza del Risorto è motivo di gioia che scaccia ogni timore: pensiamo ai discepoli di Emmaus che tornano dagli Undici a Gerusalemme sfidando la notte per riferire loro ciò che avevano veduto; pensiamo alle donne che tornano dal sepolcro e sfidano l’incredulità dei discepoli; immaginiamo la gioia che fa scoppiare il cuore di tutti loro nel realizzare che l’impensabile è ora realtà: Cristo che era morto ora vive; immaginiamo la gioia di Maria, madre della speranza, che ha confidato nel Signore anche in quel sabato santo, quando la morte sembrava aver pronunciato l’ultima e definitiva parola.
Pace, coraggio, fede, gioia non sono forse i doni che il Risorto vuol fare, per mezzo dell’unico Spirito, anche a noi in tutte le nostre relazioni?
Come Gesù è presente nelle nostre relazioni? Sempre con quella delicatezza e discrezione che è propria di Dio. Provate ad immaginare due persone che si guardano negli occhi, immaginate ora una terza persona che voglia comunicare con l’una o l’altra o con entrambe, per far ciò è costretta ad interrompere lo sguardo dei due, a distrarli dal loro guardarsi reciproco. Avete mai pensato che posso guardare una sola persona per volta negli occhi? Che se voglio guardarne un'altra devo distogliere lo sguardo dalla prima? Potremmo dire così: Gesù è l’unico capace di non interrompere lo sguardo di due che si amano, anzi è Colui che può renderlo sempre più intenso ed arricchirlo di nuovi doni. Ecco perché la sua presenza è augurabile fra i due amici, soprattutto in un momento di intimità amicale. E così in ogni vera relazione umana è il terzo che aiuta i due ad incontrarsi sempre più autenticamente.

Questa ultima sera la dedichiamo alla celebrazione del sacramento della Riconciliazione. Proviamo dunque a ripercorrere il comandamento dell’amore anche per fare il nostro esame di coscienza, seguendo quella cadenza che il comandamento stesso ci da: amore di Dio, amore del prossimo, amore di sé. Proviamo non solo a verificare le nostre mancanze in questi tre grandi ambiti, ma anche a ringraziare Dio per i passi, piccoli e grandi, che ci ha dato di compiere. La lode insieme al pentimento autentico non dovrebbero mai mancare dalle nostre confessioni che, ricordiamo, devono essere considerate più simili ad una sorgente che zampilla l’acqua viva che purifica, fortifica da pace e gioia che a dei lavandini in cui gettare lo sporco. La confessione è sempre un incontro con Cristo e come tale un momento di gioia e di lode.

LITURGIA PENITENZIALE

Accostiamoci con fiducia al trono della grazia,
per ricevere misericordia e ottenere l'aiuto,
che ci sostenga al momento opportuno. (Eb 4, 16)

Sac. La grazia, la misericordia e la pace
di Dio nostro Padre
e di Gesù Cristo nostro Salvatore
sia con tutti voi.
Tutti: E con il tuo spirito.

Sac. Fratelli, Dio ci chiama ancora una volta alla conversione : preghiamo per ottenere la grazia di una vita nuova in Cristo Signore.
Manda su di noi, Signore, il tuo Santo Spirito,
che purifichi con la penitenza i nostri cuori
e ci trasformi in sacrificio a te gradito;
nella gioia di una vita nuova
loderemo sempre il tuo nome
santo e misericordioso.
Per Cristo nostro Signore.
Tutti: Amen.

Sac. Fiduciosi nella misericordia di Dio nostro Padre
riconosciamo e confessiamo i nostri peccati.
Tutti: Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli,
che ho molto peccato
in pensieri, parole, opere e omissioni
per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa.
E proseguono:
E supplico la beata sempre vergine Maria,
gli Angeli, i Santi e voi, fratelli,
di pregare per me il Signore Dio nostro

Sac. Ora nello spirito del Vangelo riconciliamoci fra noi e invochiamo con fede Dio Padre per ottenere il perdono dei nostri peccati.
Tutti: Padre nostro…

Sac. O Dio, che nei tuoi sacramenti
hai posto il rimedio alla nostra debolezza,
fa' che accogliamo con gioia
i frutti della redenzione
e li manifestiamo nel rinnovamento della vita.
Per Cristo nostro Signore.
Tutti: Amen.

CONFESSIONI
TESTI BIBLICI PER LA MEDITAZIONE

Dal primo libro di Samuele (18,1-4)
Quando Davide ebbe finito di parlare con Saul, l'anima di Giònata s'era già talmente legata all'anima di Davide, che Giònata lo amò come se stesso. Saul in quel giorno lo prese con sé e non lo lasciò tornare a casa di suo padre. Giònata strinse con Davide un patto, perché lo amava come se stesso. Giònata si tolse il mantello che indossava e lo diede a Davide e vi aggiunse i suoi abiti, la sua spada, il suo arco e la cintura.

Dal primo libro di Samuele (20,1-17)
Davide lasciò di nascosto Naiot di Rama, si recò da Giònata e gli disse: «Che ho fatto, che delitto ho commesso, che colpa ho avuto nei riguardi di tuo padre, perché attenti così alla mia vita?». Rispose: «Non sia mai. Non morirai. Vedi, mio padre non fa nulla di grande o di piccolo senza confidarmelo. Perché mi avrebbe nascosto questa cosa? Non è possibile!». Ma Davide giurò ancora: «Tuo padre sa benissimo che ho trovato grazia ai tuoi occhi e dice: Giònata non deve sapere questa cosa perché si angustierebbe. Ma, per la vita del Signore e per la tua vita, c'è un sol passo tra me e la morte». Giònata disse: «Che cosa desideri che io faccia per te?». Rispose Davide: «Domani è la luna nuova e io dovrei sedere a tavola con il re. Ma tu mi lascerai partire e io resterò nascosto nella campagna fino alla terza sera. Se tuo padre mi cercherà, dirai: Davide mi ha chiesto di lasciarlo andare in fretta a Betlemme sua città perché vi si celebra il sacrificio annuale per tutta la famiglia. Se dirà: Va bene, allora il tuo servo può stare in pace. Se invece andrà in collera, sii certo che è stato deciso il peggio da parte sua. Mostra la tua bontà verso il tuo servo, perché hai voluto legare a te il tuo servo con un patto del Signore: se ho qualche colpa, uccidimi tu; ma per qual motivo dovresti condurmi da tuo padre?». Giònata rispose: «Lungi da te! Se certo io sapessi che da parte di mio padre è stata decisa una cattiva sorte per te, non te lo farei forse sapere?». Davide disse a Giònata: «Chi mi avvertirà se tuo padre ti risponde duramente?». Giònata rispose a Davide: «Vieni, andiamo in campagna».
Uscirono tutti e due nei campi. Allora Giònata disse a Davide: «Per il Signore, Dio d'Israele, domani o il terzo giorno a quest'ora indagherò le intenzioni di mio padre. Se saranno favorevoli a Davide e io non manderò subito a riferirlo al tuo orecchio, tanto faccia il Signore a Giònata e ancora di peggio. Se invece sembrerà bene a mio padre decidere il peggio a tuo riguardo, io te lo confiderò e ti farò partire. Tu andrai tranquillo e il Signore sarà con te come è stato con mio padre. Fin quando sarò in vita, usa verso di me la benevolenza del Signore. Se sarò morto, non ritirare mai la tua benevolenza dalla mia casa; quando il Signore avrà sterminato dalla terra ogni uomo nemico di Davide, non sia eliminato il nome di Giònata dalla casa di Davide: il Signore ne chiederà conto ai nemici di Davide». Giònata volle ancor giurare a Davide, perché gli voleva bene e lo amava come se stesso.


Note

[1] Questa meditazione è stata ispirata dalla lettura dell'ottimo testo di D. PEZZINI, Giacobbe e l'angelo. Il mistero della relazione, Ancora, Milano 2001.