Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI: le radici della fede. Una intervista di Angelo Zema a don Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 22 /09 /2022 - 06:36 am | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione on-line la versione integrale dell’intervista di Angelo Zema, direttore di Romasette di Avvenire, apparsa sul numero di domenica 11 novembre 2007.

Il Centro culturale Gli scritti (12/11/2007)

 

Don Andrea, il libro del Papa ha riscosso grande interesse, non solo tra i cattolici. L’esigenza di conoscere la verità su Gesù è molto sentita, nonostante continuino i tentativi di ridurre o banalizzare la sua figura. Qual è l’approccio di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI nel suo lavoro?

Possiamo comprenderlo facendo riferimento al capitolo ottavo dedicato all’evangelista Giovanni, il capitolo più difficile dal punto di vista storico, perché è evidente la diversità del linguaggio giovanneo da quello dei sinottici. Il Papa sottolinea che il quarto vangelo è stato scritto nella cerchia dei fedelissimi del discepolo prediletto. È la via del Concilio che ha affermato l’ “origine apostolica” dei vangeli. Questa espressione vuole indicare che chiunque siano gli ultimi redattori dei vangeli essi rispecchiano fedelmente la testimonianza di coloro che sono stati testimoni oculari di Gesù. Il Papa afferma così che se Giovanni esplicita alcune cose che sono meno appariscenti nei sinottici, non ci presenta, però, un Gesù diverso dai sinottici. Quando Giovanni, ad esempio, ci racconta di Gesù che dice di essere il pane della vita, egli esprime con un intuito profondissimo ma reale l’intenzione propria di Gesù, annunciata dai sinottici nella moltiplicazione dei pani ed, ancor più, nell’ultima cena.

Il Papa parla di uno strappo tra il “Gesù storico” e il “Cristo della fede”, che con il tempo si è allargato. Da dove ha origine questo strappo?

Lo strappo moderno ha una profonda diversità da quello antico dello gnosticismo. Quest’ultimo non aveva alcun dubbio che Gesù fosse Dio, ma ne negava l’umanità. Dobbiamo agli gnostici la parola stessa ‘apocrifo’, che significa ‘nascosto’, poiché essi cercarono di accreditare le loro opere, scritte almeno 50 anni dopo i quattro vangeli, dicendo che gli apostoli li avevano nascostamente consegnati a loro e quindi gli altri cristiani non avevano potuto conoscerli. Cercavano così di superare lo stupore di chi si rendeva conto che il Gesù gnostico era una invenzione. Ma, senza il cristianesimo, lo gnosticismo non avrebbe potuto esistere! Esso è post-cristiano non solo cronologicamente, ma soprattutto teologicamente! Lo strappo moderno che si è operato a partire dal settecento deriva, invece, da riletture della figura di Gesù a partire da schemi elaborati a prescindere da lui. Se una certa idea dell’uomo o di Dio non corrisponde al dettato evangelico, se ne deduce che il vangelo su quel punto non è affidabile. Il Papa cerca, però, di mostrare che quello strappo non è inevitabile, perché la fede accoglie il genuino frutto di una ricerca storico-critica non pregiudiziale. Già Paolo VI volle che il Concilio affermasse esplicitamente “senza alcuna esitazione la storicità dei vangeli”, nello stesso momento nel quale parlava dei tre stadi che hanno portato alla loro formazione.

Qual è il pericolo di una separazione tra il “Gesù storico” e il “Cristo della fede”, che appare anche attraverso la pubblicazione di «scoperte apparentemente nuove» sul mercato mediatico, come disse il cardinale Schonborn alla presentazione del libro sul Papa?

Il fatto stesso che esista un pericolo in questo senso dice quanto la fede cristiana sia ragionevole ed accetti la sfida del dialogo e del confronto. Perché per la fede è essenziale che ciò che si annunzia sia legato alla reale intenzione di Gesù di Nazaret. Altrimenti il cristianesimo diventerebbe una ideologia auto-referente. La fede cristiana afferma che la Parola piena e definitiva di Dio, la Parola che svela il suo mistero, è la persona di Gesù. La Scrittura è Parola di Dio in quanto mezzo per giungere a Lui. Se essa fosse inaffidabile, se Gesù fosse solo un uomo, sia pure uno straordinario rabbino, Dio non ci avrebbe minimamente fatto conoscere il suo vero volto. È straordinario come i diversi capitoli del libro riconducano continuamente il lettore a Gesù stesso. Il capitolo sul regno di Dio, ad esempio, dinanzi all’affermazione del modernista Loisy “Gesù ha annunciato il regno ed è arrivata la chiesa” replica: “Si aspettava il regno ed è arrivato Gesù”! Così analogamente nell’analisi della parabola del padre misericordioso Benedetto XVI mette in evidenza come il Padre mostri il suo volto non solo nel racconto, ma proprio in Gesù che siede al banchetto dei peccatori. Dalle Parole alla Parola, potremmo dire.

Il Papa sottolinea che «il popolo è il vero, più profondo “autore” delle Scritture». In che senso va colta questa indicazione? Quale dovrebbe essere il corretto atteggiamento di fronte alle Scritture?

Per la chiesa, a differenza dei testi sacri di altre religioni, i singoli autori sacri sono veri autori dei loro scritti. Si potrebbe tradurre l’espressione vangelo secondo Marco con al modo di Marco. Ma, al contempo, l’unico Dio è autore di tutti i differenti libri che compongono la Bibbia. Esiste così un sensus plenior, un senso più pieno, che si rivela non necessariamente al momento in cui un testo viene scritto, ma nel prosieguo dell’unica storia della salvezza condotta da Dio. Benedetto XVI sottolinea come questo sensus plenior non sia artificialmente aggiunto dall’esterno alla Scrittura, ma sia proprio la dinamica che lega i libri sacri gli uni agli altri. San Paolo, ad esempio, nella lettera ai Romani rilegge alla luce della salvezza operata dal Cristo il testo di Genesi sul peccato di Adamo. È il popolo di Dio che, attraverso le generazioni, conferisce storicamente unità alla Bibbia, rileggendo continuamente nello Spirito i libri precedenti. È per questo che l’interpretazione di un brano nel suo contesto e quella che guarda all’unità della Bibbia non vanno mai separate. Lo Spirito stesso guida alla verità tutta intera continuando questo processo nella tradizione della chiesa.

Qual è il “messaggio” portato da Gesù, se possiamo utilizzare questa parola, che emerge dal libro del Papa?

È un messaggio che non è esterno a se stesso. Se Gesù annuncia continuamente –dice il libro- il primato di Dio, se parla continuamente del Padre, se manifesta il suo volto, lo fa perché egli ne è il Figlio. Più volte Benedetto XVI ha insistito sul fatto che il desiderio di verità è connaturale all’uomo; già l’Antico Testamento contesta gli idoli non veri delle religioni circostanti, mostrandone i tratti disumani e non divini. Solo la verità permette di liberarsi dall’errore. La pretesa di Gesù di rivelare Dio è, in maniera definitiva, una esigenza di verità. Nell’ultimo capitolo il volume mostra come tutta la teologia giovannea sia già contenuta nella cosiddetta esclamazione di giubilo dei sinottici, nella quale Gesù afferma: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”. Questa verità è amore. Il libro sottolinea che proprio le espressioni “io-sono” del vangelo di Giovanni –“io sono la luce”, “io sono il pane”, ecc.- esprimono l’amore divino che si fa personalmente, in Gesù, dono di vita per gli uomini.

Un’ultima domanda per chi ancora non si è accostato al libro e intende farlo, anche in considerazione della scelta della diocesi di inserirlo nel suo cammino di fede per quest’anno. Quali consigli darebbe a chi apre il libro del Papa?

Di leggerlo scoprendo il valore di un opera che torna a porre la questione dell’essenza del cristianesimo. Siamo troppo abituati a ragionare a partire dalle eccezioni e dagli stimoli effimeri del momento, mentre dobbiamo recuperare ciò che è essenziale. Anche l’annuncio del vangelo ha sempre convinto l’uomo quando ha affrontato le grandi questioni, quelle che stanno veramente a cuore all’uomo di ogni tempo.
Poi di non scoraggiarsi se incontra qualche passaggio che appare difficile. Dobbiamo tornare –ci invita il Papa- al gusto di pensare, di voler capire. E, perché questo sia possibile, dobbiamo coltivare il senso del silenzio e della riflessione. È per una gioia più grande che si affronta la fatica della lettura!
Infine di provare a meravigliarsi nuovamente dell’evento cristiano e della saggezza con la quale la chiesa lo ha trasmesso agli uomini. Come ebbe a scrivere G.K.Chesterton: “Taluni hanno preso la stupida abitudine di parlare dell'ortodossia come di qualche cosa di pesante, di monotono. Non c’è invece niente di così eccitante come l’ortodossia: l’ortodossia è la saggezza e l’essere saggi è più drammatico che l’essere pazzi”.